Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Rivoluzione russa del 1917

La Rivoluzione d’ottobre

Tempesta sul Palazzo d'Inverno

Il 7 novem­bre del 1917 (25 otto­bre del calen­da­rio giu­lia­no allo­ra vigen­te in Rus­sia), il par­ti­to bol­sce­vi­co, alla testa del­le mas­se popo­la­ri, dei lavo­ra­to­ri e dei sol­da­ti, con­se­gnò loro il pote­re pren­den­do final­men­te il Palaz­zo d’In­ver­no, in pre­ce­den­za sede dell’imperatore Nico­la II e in quel momen­to del gover­no prov­vi­so­rio gui­da­to da Kerensky.
Fu il coro­na­men­to di un lun­go pro­ces­so rivo­lu­zio­na­rio che san­cì, per la pri­ma vol­ta nel­la sto­ria dell’umanità, la vit­to­ria del pro­le­ta­ria­to sul­la borghesia.
I nostri let­to­ri san­no che, in occa­sio­ne del­la ricor­ren­za del cen­te­na­rio del­la Rivo­lu­zio­ne rus­sa, que­sto sito sta por­tan­do avan­ti, in col­la­bo­ra­zio­ne con la rivi­sta Jaco­bin Maga­zi­ne, un pro­get­to per la pre­sen­ta­zio­ne in ita­lia­no — e in part­ner­ship con il sito Paler­mo­Grad — dei nume­ro­si sag­gi pub­bli­ca­ti per cele­bra­re i cent’anni dal vit­to­rio­so assal­to al cielo.
Esce oggi su que­sta pagi­na — e in con­tem­po­ra­nea in nume­ro­se altre lin­gue sui siti web che col­la­bo­ra­no alla riu­sci­ta di que­sto pro­get­to — un bel testo di Chi­na Mié­vil­le che fa, con lo sti­le fan­ta­sy di quest’autore, il reso­con­to ser­ra­to del­la gior­na­ta che por­tò i bol­sce­vi­chi al potere.
Ne rac­co­man­dia­mo viva­men­te la let­tu­ra, cer­ti che sarà di gra­di­men­to dei nostri lettori.
La redazione

La Rivoluzione d’ottobre


Esau­sti, i dele­ga­ti al secon­do Con­gres­so dei soviet usci­ro­no dal­lo Smol­ny per entra­re in un nuo­vo momen­to del­la sto­ria, quel­lo del gover­no degli ope­rai, del­lo Sta­to dei lavoratori


Chi­na Miéville [*]

 

L’alba del 25 si avvi­ci­na­va. Keren­sky, dispe­ra­to, lan­ciò un appel­lo ai cosac­chi «in nome del­la liber­tà, dell’onore e del­la glo­ria del nostro Pae­se natio […] per veni­re in aiu­to del Comi­ta­to cen­tra­le ese­cu­ti­vo del soviet, del­la demo­cra­zia rivo­lu­zio­na­ria e del gover­no prov­vi­so­rio, e per sal­va­re lo Sta­to rus­so moren­te».
Ma i cosac­chi vole­va­no sape­re se la fan­te­ria stes­se arri­van­do. La rispo­sta del gover­no fu eva­si­va, e allo­ra tut­ti, ad ecce­zio­ne di pochi fede­lis­si­mi, ribat­te­ro­no che non era­no dispo­sti ad agi­re da soli «facen­do da ber­sa­gli viven­ti».
Ripe­tu­ta­men­te, in diver­si pun­ti del­la cit­tà, il Comi­ta­to mili­ta­re rivo­lu­zio­na­rio (Cmr) disar­ma­va sen­za col­po feri­re le guar­die fede­li al gover­no, invi­tan­do­le sem­pli­ce­men­te a tor­nar­se­ne a casa. Nel­la mag­gior par­te dei casi, esse obbe­di­ro­no. Gli insor­ti occu­pa­ro­no il Palaz­zo dei genie­ri sem­pli­ce­men­te entran­do­vi. «Entra­ro­no e si mise­ro a sede­re, men­tre quel­li che era­no sedu­ti si alza­ro­no e se ne anda­ro­no», secon­do un aned­do­to. Alle sei del mat­ti­no qua­ran­ta mari­nai rivo­lu­zio­na­ri si dires­se­ro ver­so la Ban­ca di Sta­to di Pie­tro­gra­do, le cui guar­die, del reg­gi­men­to Seme­no­v­sky, si era­no dichia­ra­te neu­tra­li: avreb­be­ro dife­so la ban­ca da rapi­na­to­ri e cri­mi­na­li, ma non avreb­be­ro pre­so posi­zio­ne tra rea­zio­ne e rivo­lu­zio­ne, né sareb­be­ro inter­ve­nu­ti. Si fece­ro allo­ra da par­te e lascia­ro­no che il Cmr pren­des­se il loro posto.

I mem­bri del Comi­ta­to mili­ta­re rivoluzionario

Nel vol­ge­re di un’ora, men­tre la luce acquo­sa dell’inverno inu­mi­di­va la cit­tà, un distac­ca­men­to del reg­gi­men­to Kek­sgolm­sky, al coman­do di Zakha­rov, un inso­li­to cadet­to del­la scuo­la mili­ta­re pas­sa­to alla rivo­lu­zio­ne, mar­ciò ver­so la cen­tra­le tele­fo­ni­ca prin­ci­pa­le. Zakha­rov vi ave­va lavo­ra­to e ne cono­sce­va i siste­mi di sicu­rez­za. Quan­do arri­vò lì, non ebbe dif­fi­col­tà a diri­ge­re le sue trup­pe per iso­la­re e disar­ma­re i cadet­ti apa­ti­ci e impo­ten­ti di guar­dia sul posto. I rivo­lu­zio­na­ri stac­ca­ro­no le linee del governo.
Ne lascia­ro­no atti­ve due, gra­zie alle qua­li i mini­stri del gover­no rima­se­ro attac­ca­ti ai tele­fo­ni intor­no alle fili­gra­ne bian­che e dora­te, ai pila­stri e ai lam­pa­da­ri del­la sala Mala­chi­te del Palaz­zo d’Inverno, man­te­nen­do i con­tat­ti con le loro esi­gue for­ze. Dava­no inu­ti­li istru­zio­ni, liti­gan­do a bas­sa voce men­tre Keren­sky fis­sa­va il vuoto.

§

A metà mat­ti­na­ta, a Kron­stadt, come già era acca­du­to in pre­ce­den­za, i mari­nai arma­ti si imbar­ca­ro­no su tut­to ciò che tro­va­ro­no di adat­to alla navi­ga­zio­ne. Da Hel­sing­fors par­ti­ro­no su cin­que cac­cia­tor­pe­di­nie­re e guar­da­co­ste, tut­te deco­ra­te con ban­die­re rivo­lu­zio­na­rie. In tut­ta Pie­tro­gra­do i rivo­lu­zio­na­ri sta­va­no anco­ra una vol­ta svuo­tan­do le prigioni.
Allo Smol­ny una figu­ra tra­san­da­ta piom­bò nel bel mez­zo dei lavo­ri nel­la sala ope­ra­ti­va dei bol­sce­vi­chi. Gli atti­vi­sti fis­sa­ro­no scon­cer­ta­ti il nuo­vo arri­va­to, fin­ché Vla­di­mir Bonch‑Bruevich urlò cor­ren­do ver­so di lui a brac­cia aper­te. «Vla­di­mir Ilich, nostro padre! Non ti ave­vo rico­no­sciu­to, mio caro!».
Lenin si sedet­te per scri­ve­re un pro­cla­ma. Fre­me­va ansio­sa­men­te in una dispe­ra­ta lot­ta con­tro il tem­po per rove­scia­re defi­ni­ti­va­men­te il gover­no pri­ma dell’apertura del secon­do con­gres­so. Cono­sce­va bene il pote­re del fat­to compiuto.

«Ai cit­ta­di­ni di Russia.
Il gover­no prov­vi­so­rio è sta­to abbat­tu­to. Il pote­re sta­ta­le è pas­sa­to nel­le mani dell’organo del soviet dei depu­ta­ti ope­rai e sol­da­ti di Pie­tro­gra­do, il Comi­ta­to mili­ta­re rivo­lu­zio­na­rio, che è alla testa del pro­le­ta­ria­to e del­la guar­ni­gio­ne di Pietrogrado.
La cau­sa per la qua­le il popo­lo ha lot­ta­to, l’immediata pro­po­sta di una pace demo­cra­ti­ca, l’abolizione del­la gran­de pro­prie­tà fon­dia­ria, il con­trol­lo ope­ra­io del­la pro­du­zio­ne, la crea­zio­ne di un gover­no sovie­ti­co, que­sta cau­sa è assicurata.
Viva la rivo­lu­zio­ne degli ope­rai, dei sol­da­ti e dei contadini!».

Ormai abba­stan­za con­vin­to dell’utilità del Cmr, Lenin non fir­mò il pro­cla­ma a nome dei bol­sce­vi­chi, ma a nome di quest’organismo “apar­ti­ti­co”. Il pro­cla­ma fu in tut­ta fret­ta stam­pa­to negli spes­si carat­te­ri tipi­ci del ciril­li­co. Non appe­na le copie furo­no pron­te ven­ne­ro affis­se a mo’ di mani­fe­sti su un’infinità di muri. Gli ope­ra­to­ri dei tele­gra­fi ne invia­va­no le paro­le attra­ver­so i cavi.
Però, non era la veri­tà ma un’aspirazione.

§

Nel Palaz­zo d’Inverno, Keren­sky usò i suoi ulti­mi cana­li di comu­ni­ca­zio­ne per far riu­ni­re le trup­pe che sta­va­no mar­cian­do ver­so la capi­ta­le. Rag­giun­ger­le ora, tut­ta­via, non era pro­prio faci­le. Avreb­be potu­to fug­gi­re, ma il Cmr con­trol­la­va le stazioni.

Un distac­ca­men­to del­le Guar­die rosse

Gli ser­vi­va aiu­to. Lo Sta­to mag­gio­re fece una lun­ga e sem­pre più fre­ne­ti­ca ricer­ca, e alla fine tro­vò una vet­tu­ra adat­ta. Implo­ran­do riu­scì ad assi­cu­rar­si l’uso di un’altra auto­mo­bi­le dell’ambasciata ame­ri­ca­na, un vei­co­lo con un’utilissima tar­ga diplomatica.
Ver­so le undi­ci del mat­ti­no del gior­no 25, pro­prio men­tre il pro­cla­ma anti­ci­pa­to­re di Lenin ini­zia­va a cir­co­la­re, i due vei­co­li sfrec­cia­ro­no davan­ti ai posti di bloc­co del Cmr, più ani­ma­ti dall’entusiasmo che dall’efficienza.
Un Keren­sky distrut­to fug­gi­va dal­la cit­tà col suo pic­co­lo segui­to, alla ricer­ca di sol­da­ti fedeli.

§

Nono­stan­te la sol­le­va­zio­ne, a mol­ti cit­ta­di­ni sem­bra­va di vive­re qua­si un gior­no nor­ma­le a Pie­tro­gra­do. Cer­to, era impos­si­bi­le igno­ra­re una cer­ta con­fu­sio­ne e agi­ta­zio­ne, ma rela­ti­va­men­te poche era­no le per­so­ne coin­vol­te nei veri e pro­pri scon­tri, e solo in zone stra­te­gi­che. Men­tre que­sti com­bat­ten­ti era­no impe­gna­ti nel­le loro atti­vi­tà insur­re­zio­na­li o con­tro­ri­vo­lu­zio­na­rie per rimo­del­la­re il mon­do, la mag­gior par­te dei tram effet­tua­va le pro­prie cor­se, la mag­gior par­te dei nego­zi era aperta.
A mez­zo­gior­no alcu­ni sol­da­ti rivo­lu­zio­na­ri in armi e mari­nai arri­va­ro­no a Palaz­zo Mariin­sky. I mem­bri del pre­par­la­men­to discu­te­va­no ansio­sa­men­te il dram­ma che si sta­va con­su­man­do e al qua­le sta­va­no per pren­de­re parte.
Un com­mis­sa­rio del Cmr fece irru­zio­ne nel­la sala e ordi­nò al pre­si­den­te del pre­par­la­men­to, Avk­sen­tiev, di sgom­bra­re il palaz­zo. I sol­da­ti e i mari­nai, armi in pugno, si fece­ro stra­da per entra­re, disper­den­do i depu­ta­ti ter­ro­riz­za­ti. Avk­sen­tiev, in sta­to con­fu­sio­na­le, riu­nì in tut­ta fret­ta quan­ti più mem­bri poté del comi­ta­to diri­gen­te. Sape­va­no che ogni resi­sten­za sareb­be sta­ta vana, ma abban­do­na­ro­no la sala pro­te­stan­do for­mal­men­te come meglio riu­sci­ro­no a fare, con l’impegno che la sedu­ta sareb­be sta­ta ricon­vo­ca­ta appe­na possibile.
Quan­do usci­ro­no nel fred­do pun­gen­te, le nuo­ve guar­die del palaz­zo con­trol­la­ro­no i loro docu­men­ti, ma non li trat­ten­ne­ro. Non era cer­to il ridi­co­lo pre­par­la­men­to quel pre­mio che, nono­stan­te la furio­sa esa­spe­ra­zio­ne di Lenin, con­ti­nua­va a sfug­gi­re loro.
Quel pre­mio, ormai sen­za più Keren­sky, si tro­va­va nel Palaz­zo d’Inverno: dove, men­tre il mon­do crol­la­va intor­no, la cupa bra­ce del gover­no prov­vi­so­rio anco­ra brillava.

Un grup­po di cadet­ti nel Palaz­zo d’Inverno

A mez­zo­gior­no, nel­la gran­de sala Mala­chi­te, il magna­te tes­si­le Kono­va­lov, del par­ti­to cadet­to, con­vo­cò il consiglio.
«Non so per­ché sia sta­ta con­vo­ca­ta que­sta riu­nio­ne», bor­bot­tò il mini­stro del­la Mari­na, l’ammiraglio Ver­de­re­v­sky. «Non abbia­mo alcu­na tan­gi­bi­le for­za mili­ta­re, per cui sia­mo inca­pa­ci di intra­pren­de­re qual­sia­si azio­ne». For­se, ipo­tiz­zò, avreb­be­ro dovu­to riu­nir­si con il pre­par­la­men­to: ma, pro­prio men­tre par­la­va, giun­se la noti­zia che era sta­to sciolto.
I mini­stri rice­ve­va­no rap­por­ti e rivol­ge­va­no appel­li alla sem­pre più ristret­ta cer­chia dei pro­pri inter­lo­cu­to­ri. Quel­li che non era­no pre­si dal tri­ste rea­li­smo di Ver­de­re­v­sky si abban­do­na­va­no a fan­ta­sti­che­rie. Con gli ulti­mi bran­del­li di pote­re che sta­va­no per esse­re spaz­za­ti via, vagheg­gia­va­no di una nuo­va autorità.
Con tut­ta la serie­tà di que­sto mon­do, come fiam­mi­fe­ri spen­ti che rac­con­ta­va­no tru­ci sto­rie di con­fla­gra­zio­ni che sta­va­no per ini­zia­re, le cene­ri del gover­no prov­vi­so­rio rus­so discu­te­va­no su chi di loro avreb­be dovu­to fare il dittatore.

§

Que­sta vol­ta, le for­ze di Kron­stadt rag­giun­se­ro le acque di Pie­tro­gra­do a bor­do di un’ex nave da dipor­to, due posa­mi­ne, una nave scuo­la, un’antica nave da bat­ta­glia e una falan­ge di pic­co­le chiat­te. Un’altra flot­ti­glia pazzesca.
Non lon­ta­no da dove il gover­no fan­ta­sti­ca­va sul­la dit­ta­tu­ra, i mari­nai rivo­lu­zio­na­ri arre­sta­ro­no l’ammiragliato e l’alto coman­do nava­le. Il reg­gi­men­to Pavlo­v­sky instal­lò dei pic­chet­ti sui pon­ti. Il reg­gi­men­to Kek­sgolm­sky pre­se il con­trol­lo del­la par­te a nord del fiu­me Moika.
Mez­zo­gior­no, l’ora in ori­gi­ne fis­sa­ta per la pre­sa del Palaz­zo d’Inverno, era scoc­ca­to e pas­sa­to. La sca­den­za ven­ne rin­via­ta di tre ore, il che signi­fi­ca­va che l’arresto del gover­no era fis­sa­to per dopo le due pome­ri­dia­ne, ora dell’inaugurazione del con­gres­so dei soviet: esat­ta­men­te ciò che Lenin vole­va evi­ta­re. Sic­ché, quell’inaugurazione ven­ne rinviata.
Ma l’atrio del­lo Smol­ny era ormai gre­mi­to di dele­ga­ti dei soviet di Pie­tro­gra­do e del­la pro­vin­cia che chie­de­va­no noti­zie e non pote­va­no più esse­re tenu­ti all’oscuro.
Allo­ra, alle 14:35, Tro­tsky aprì una sedu­ta straor­di­na­ria del soviet di Pietrogrado.
«In nome del Comi­ta­to mili­ta­re rivo­lu­zio­na­rio – escla­mò – dichia­ro che il gover­no prov­vi­so­rio non esi­ste più».
Le sue paro­le sca­te­na­ro­no un’ondata di giu­bi­lo. Le prin­ci­pa­li isti­tu­zio­ni era­no nel­le mani del Cmr, pro­se­guì Tro­tsky sovra­stan­do il fra­stuo­no. Il Palaz­zo d’Inverno sareb­be cadu­to «a momen­ti». Ci fu un’altra enor­me accla­ma­zio­ne: Lenin sta­va entran­do nel­la sala.
«Viva il com­pa­gno Lenin! – urlò Tro­tsky – Di nuo­vo qui con noi!».
La pri­ma appa­ri­zio­ne in pub­bli­co da luglio fu bre­ve e trion­fan­te. Non for­nì det­ta­gli, ma annun­ciò «l’inizio di un nuo­vo perio­do» ed esor­tò: «Viva la rivo­lu­zio­ne socia­li­sta mon­dia­le!».

Lenin par­la al secon­do Con­gres­so pan­rus­so dei soviet

La mag­gior par­te dei pre­sen­ti urlò dal­la gio­ia. Ma ci fu qual­che dissenso.
«Stai anti­ci­pan­do la volon­tà del secon­do con­gres­so dei soviet!», gri­dò qualcuno.
«La volon­tà del secon­do con­gres­so dei soviet è già sta­ta pre­de­ter­mi­na­ta dal fat­to com­piu­to dell’insurrezione degli ope­rai e dei sol­da­ti», rispo­se urlan­do Tro­tsky. «Ora dob­bia­mo solo svi­lup­pa­re que­sto trion­fo».
Ma tra i pro­cla­mi di Volo­dar­sky, Zino­viev e Luna­char­sky, un pic­co­lo nume­ro di mode­ra­ti, per­lo­più men­sce­vi­chi, abban­do­nò gli orga­ni ese­cu­ti­vi del soviet, avver­ten­do del­le ter­ri­bi­li con­se­guen­ze che sareb­be­ro sca­tu­ri­te da que­sta cospirazione.

§

Dopo qua­si otto ore di stal­lo, i dele­ga­ti dei soviet non accet­ta­ro­no ulte­rio­ri rin­vii. Un’ora dopo il pri­mo col­po, nel­la gran­de sala colon­na­ta del­le assem­blee del­lo Smol­ny si aprì il secon­do con­gres­so dei soviet.
La sala era avvol­ta nel fumo del­le siga­ret­te, nono­stan­te i ripe­tu­ti avvi­si – spes­so alle­gra­men­te lan­cia­ti dagli stes­si fuma­to­ri – che era vie­ta­to fuma­re. I dele­ga­ti, come ricor­da Sukha­nov con un bri­vi­do, per­lo­più mostra­va­no «i gri­gi linea­men­ti del­le pro­vin­ce bol­sce­vi­che». Sem­bra­va­no, al suo sguar­do raf­fi­na­to, «cupi» e «pri­mi­ti­vi» e «tetri», «cru­de­li e igno­ran­ti».
Dei 670 dele­ga­ti, 300 era­no bol­sce­vi­chi, 193 socia­li­sti rivo­lu­zio­na­ri, di cui più del­la metà del­la sini­stra del par­ti­to; 68 era­no i men­sce­vi­chi e 14 i men­sce­vi­chi inter­na­zio­na­li­sti. La restan­te par­te era com­po­sta da indi­pen­den­ti, o mem­bri di pic­co­li grup­pi. Il peso del­la pre­sen­za dei bol­sce­vi­chi ren­de­va chia­ro che il soste­gno al par­ti­to anda­va cre­scen­do tra colo­ro che eleg­ge­va­no i pro­pri rap­pre­sen­tan­ti: ed era anche aumen­ta­to per effet­to di alcu­ni per­mis­si­vi mec­ca­ni­smi orga­niz­za­ti­vi, gra­zie ai qua­li era sta­to loro attri­bui­to un peso mag­gio­re rispet­to al risul­ta­to pro­por­zio­na­le. Anche così, sen­za la sini­stra dei social­ri­vo­lu­zio­na­ri, essi non ave­va­no la maggioranza.
Ad ogni modo, non fu un bol­sce­vi­co a suo­na­re la cam­pa­na dell’apertura dei lavo­ri, ma un men­sce­vi­co. I bol­sce­vi­chi gio­ca­ro­no sul­la vani­tà di Dan offren­do­gli que­sto ruo­lo. Ma lui fru­strò subi­to ogni spe­ran­za di tra­sver­sa­le came­ra­ti­smo o amabilità.
«Il Comi­ta­to ese­cu­ti­vo cen­tra­le ritie­ne super­flui i nostri abi­tua­li discor­si poli­ti­ci di aper­tu­ra», annun­ciò. «Per­fi­no ora, i nostri com­pa­gni che disin­te­res­sa­ta­men­te stan­no assol­ven­do i com­pi­ti che abbia­mo loro affi­da­to sono sot­to il tiro dei pro­iet­ti­li nel Palaz­zo d’Inverno».
Dan e gli altri mode­ra­ti che ave­va­no gui­da­to sin da mar­zo il soviet abban­do­na­ro­no i loro seg­gi per esse­re sosti­tui­ti dal nuo­vo pre­si­dium, distri­bui­to pro­por­zio­nal­men­te. Accom­pa­gna­ti da urla di appro­va­zio­ne, quat­tor­di­ci bol­sce­vi­chi – tra cui Kol­lon­tai, Luna­char­sky, Tro­tsky, Zino­viev – e set­te social­ri­vo­lu­zio­na­ri di sini­stra, com­pre­sa la gran­de Maria Spi­ri­do­no­va, sali­ro­no sul pal­co. I men­sce­vi­chi, indi­gna­ti, rifiu­ta­ro­no i loro tre seg­gi. Un posto era sta­to tenu­to per i men­sce­vi­chi inter­na­zio­na­li­sti: in una mos­sa al con­tem­po digni­to­sa e pate­ti­ca, il grup­po di Mar­tov rifiu­tò di accet­tar­lo, riser­van­do­si il dirit­to di far­lo in seguito.
Men­tre la nuo­va dire­zio­ne pren­de­va posto e si pre­pa­ra­va per dare il via ai lavo­ri, la sala fu illu­mi­na­ta dal baglio­re di un altro col­po di can­no­ne. Tut­ti gelarono.
Sta­vol­ta, il col­po pro­ve­ni­va dal­la For­tez­za di Pie­tro e Pao­lo. A dif­fe­ren­za di quel­lo dell’Aurora, non era a salve.

§

Il baglio­re oleo­so del­le deto­na­zio­ni si riflet­te­va sul­la Neva. Le gra­na­te schiz­za­va­no in aria dise­gnan­do archi nel cie­lo not­tur­no e fischian­do men­tre cade­va­no pun­tan­do i loro ber­sa­gli. Mol­te di esse, per indul­gen­za o inca­pa­ci­tà, bru­cia­va­no rumo­ro­sa­men­te, spet­ta­co­la­ri e inno­cue nel cie­lo. Altre anco­ra spro­fon­da­va­no nell’acqua schian­tan­do­si tra gli spruzzi.
Le Guar­die ros­se spa­ra­ro­no anch’esse dal­le loro posta­zio­ni. I loro col­pi sfo­rac­chia­ro­no le mura del Palaz­zo d’Inverno. I resi­dui del gover­no anco­ra al suo inter­no si rin­ta­na­ro­no sot­to i tavo­li men­tre i vetri anda­va­no in fran­tu­mi intor­no a loro.

Un sol­da­to difen­de con la mitra­glia­tri­ce il Palaz­zo d’Inverno

Allo Smol­ny, men­tre risuo­na­va­no i sini­stri echi dell’assalto, Mar­tov, con voce tre­man­te e roca, insi­ste­va per­ché si tro­vas­se una solu­zio­ne paci­fi­ca, e fece appel­lo per un ces­sa­te il fuo­co e per l’inizio di nego­zia­ti che por­tas­se­ro a un gover­no tra­sver­sa­le di tut­ti i par­ti­ti socia­li­sti uniti.
Scop­piò un fra­go­ro­so applau­so dal­la sala. Dal­lo stes­so pre­si­dium, Msti­sla­v­sky, social­ri­vo­lu­zio­na­rio di sini­stra, appog­giò con tut­to il fia­to che ave­va la pro­po­sta di Mar­tov. Fece­ro lo stes­so a gran voce mol­ti dei pre­sen­ti, tra cui la mag­gior par­te del­la base dei bolscevichi.
Per la dire­zio­ne del par­ti­to si levò in pie­di Luna­char­sky, che, cla­mo­ro­sa­men­te, annun­ciò che «la fra­zio­ne bol­sce­vi­ca non ave­va asso­lu­ta­men­te nul­la in con­tra­rio rispet­to alla pro­po­sta di Mar­tov».
I dele­ga­ti vota­ro­no la mozio­ne di Mar­tov, che otten­ne un soste­gno unanime.

§

Bes­sy Beat­ty, cor­ri­spon­den­te del San Fran­ci­sco Bul­le­tin, era nel­la sala. Com­pre­se la posta in gio­co che c’era in ciò cui sta­va assi­sten­do. «Fu un momen­to cri­ti­co nel­la sto­ria del­la Rivo­lu­zio­ne rus­sa», scris­se. Sem­bra­va che stes­se per nasce­re una coa­li­zio­ne socia­li­sta democratica.
Ma, men­tre quel momen­to si pro­lun­ga­va, risuo­nò anco­ra il rumo­re del­le armi sul­la Neva, i cui echi scos­se­ro la sala facen­do riap­pa­ri­re le diver­gen­ze tra i partiti.
«Si sta con­su­man­do un’avventura poli­ti­ca cri­mi­na­le alle spal­le del con­gres­so pan­rus­so», dichia­rò Karash, un uffi­cia­le men­sce­vi­co. «I men­sce­vi­chi e i socia­li­sti rivo­lu­zio­na­ri ripu­dia­no tut­to ciò che sta acca­den­do qui e si oppon­go­no tena­ce­men­te a tut­ti i ten­ta­ti­vi di impa­dro­nir­si del gover­no».
«Non rap­pre­sen­ta la dodi­ce­si­ma arma­ta!», urlò un sol­da­to infu­ria­to. «L’esercito chie­de che tut­to il pote­re vada ai soviet!».
Una raf­fi­ca di inter­ru­zio­ni. Ven­ne il tur­no dei social­ri­vo­lu­zio­na­ri di destra e dei men­sce­vi­chi di urla­re accu­se ai bol­sce­vi­chi, avver­ten­do che avreb­be­ro abban­do­na­to i lavo­ri, men­tre la sini­stra li zit­ti­va gridando.
L’atmosfera si fece ancor più tesa. Khin­chuk, del soviet di Mosca, pre­se la paro­la. «L’unica pos­si­bi­le solu­zio­ne paci­fi­ca alla cri­si attua­le sta nel nego­zia­to col gover­no prov­vi­so­rio», riba­dì.
Una bol­gia. L’intervento di Khin­chuk rap­pre­sen­tò o una cata­stro­fi­ca sot­to­va­lu­ta­zio­ne dell’odio ver­so Keren­sky, oppu­re una deli­be­ra­ta pro­vo­ca­zio­ne, e sca­te­nò la rab­bia di mol­ti altri, oltre che degli incre­du­li bol­sce­vi­chi. Alla fine, nel fra­stuo­no gene­ra­le, Khin­chuk urlò: «Abban­do­nia­mo que­sto con­gres­so!».
Ma tra gli scal­pi­tii di pro­te­sta, le urla di disap­pro­va­zio­ne e i fischi che accol­se­ro quest’appello, i men­sce­vi­chi e i socia­li­sti rivo­lu­zio­na­ri esi­ta­ro­no. Dopo­tut­to, la minac­cia di andar­se­ne era pur sem­pre l’ultima car­ta da giocare.

§

Dall’altro lato di Pie­tro­gra­do, la Duma discu­te­va l’apocalittica tele­fo­na­ta di Maslov. «Fac­cia­mo sape­re ai nostri com­pa­gni che non li abbia­mo abban­do­na­ti, che sap­pia­no che mori­re­mo insie­me a loro», dichia­rò il social­ri­vo­lu­zio­na­rio Naum Bykho­v­sky. I libe­ra­li e i con­ser­va­to­ri si alza­ro­no per vota­re a favo­re, per unir­si a colo­ro che si tro­va­va­no asser­ra­glia­ti nel Palaz­zo d’Inverno e sot­to tiro, pron­ti per­si­no a mori­re per la sal­vez­za del regi­me. La con­tes­sa Sofia Pani­na, del par­ti­to cadet­to, dichia­rò che vole­va sta­re «in pie­di di fron­te al can­no­ne».
Mani­fe­stan­do disprez­zo, i bol­sce­vi­chi vota­ro­no con­tro, affer­man­do che sareb­be­ro anda­ti anche loro, ma non al Palaz­zo d’Inverno, ben­sì al Soviet.
Dopo il voto, i due con­trap­po­sti cor­tei si mise­ro in mar­cia nell’oscurità.
Allo Smol­ny, Erlich, mem­bro del Bund ebrai­co, inter­rup­pe i lavo­ri per dare la noti­zia del­le deci­sio­ni dei depu­ta­ti del­la Duma. Era giun­ta l’ora – dis­se – per quel­li che «non vole­va­no un bagno di san­gue», di unir­si alla mar­cia ver­so il Palaz­zo, in segno di soli­da­rie­tà ver­so il gover­no. Anco­ra una vol­ta, risuo­na­ro­no le impre­ca­zio­ni del­la sini­stra, men­tre men­sce­vi­chi, il Bund, i socia­li­sti rivo­lu­zio­na­ri e pochi altri si alza­ro­no e alla fine usci­ro­no dal­la sala. Rima­se­ro i bol­sce­vi­chi, i social­ri­vo­lu­zio­na­ri di sini­stra e gli scon­vol­ti men­sce­vi­chi internazionalisti.

§

Cam­mi­nan­do a fati­ca sot­to la fred­da piog­gia not­tur­na, i mode­ra­ti autoe­si­lia­ti dal­lo Smol­ny rag­giun­se­ro la Pro­spet­ti­va Nev­sky e la Duma. Lì si uni­ro­no ai loro depu­ta­ti, ai men­sce­vi­chi e socia­li­sti rivo­lu­zio­na­ri mem­bri del Comi­ta­to ese­cu­ti­vo del soviet dei con­ta­di­ni, e insie­me si mos­se­ro per mani­fe­sta­re la loro soli­da­rie­tà al gover­no. Cam­mi­na­ro­no in fila per quat­tro die­tro il sin­da­co Shrei­der e il mini­stro degli Approv­vi­gio­na­men­ti Ser­gei Pro­ko­po­vic. Por­tan­do pane e sal­sic­ce per rifo­cil­la­re i mini­stri, tre­cen­to per­so­ne in grup­po, into­nan­do la Mar­si­glie­se, mar­cia­va­no per anda­re a mori­re per il gover­no provvisorio.
Non riu­sci­ro­no a per­cor­re­re un solo iso­la­to che, all’angolo del cana­le, i rivo­lu­zio­na­ri sbar­ra­ro­no loro la strada.
«Vi chie­dia­mo di lasciar­ci pas­sa­re!», urla­ro­no Shrei­der e Pro­ko­po­vich. «Stia­mo andan­do al Palaz­zo d’Inverno!».
Per­ples­so, un mari­na­io si rifiu­tò di far­li proseguire.
«Spa­ra­te­ci pure, se vole­te!» dis­se­ro i mani­fe­stan­ti in tono di sfi­da. «Sia­mo pron­ti a mori­re, se ave­te il corag­gio di spa­ra­re a dei rus­si, a dei com­pa­gni … Offria­mo il nostro pet­to ai vostri fuci­li!».
La sin­go­la­re impas­se con­ti­nua­va. La sini­stra non vole­va spa­ra­re, la destra riven­di­ca­va il pro­prio dirit­to di pas­sa­re o di esse­re fer­ma­ta con le pal­lot­to­le. «Che fare­te?», urlò qual­cu­no al mari­na­io che si rifiu­ta­va osti­na­ta­men­te di ucciderlo.

I mari­nai del Bal­ti­co, pro­ta­go­ni­sti del­la rivoluzione

Il rac­con­to di John Reed, che vide coi pro­pri occhi cosa suc­ces­se in segui­to, è famoso.

«Ven­ne fuo­ri un altro mari­na­io, estre­ma­men­te irri­ta­to. “Vi pren­de­re­mo a cal­ci nel sede­re!”, escla­mò in tono ener­gi­co. “E se sarà neces­sa­rio vi spa­re­re­mo pure. Anda­te­ve­ne a casa ora, e lascia­te­ci in pace”».

Non sareb­be sta­to un desti­no ono­re­vo­le per dei cam­pio­ni di demo­cra­zia. In pie­di su una cas­sa, bran­den­do l’ombrello, Pro­ko­po­vich annun­ciò ai suoi segua­ci che avreb­be­ro sal­va­to quei mari­nai da se stes­si. «Non pos­sia­mo spor­ca­re del nostro san­gue inno­cen­te le mani di que­sta gen­te igno­ran­te! … Non è digni­to­so per noi far­ci spa­ra­re addos­so» – figu­ria­mo­ci esse­re pre­si a cal­ci – «qui, in mez­zo alla stra­da, da dei mano­vra­to­ri. Tor­nia­mo alla Duma, e discu­tia­mo sul modo miglio­re per sal­va­re il Pae­se e la rivo­lu­zio­ne!».
Dopo­di­ché, gli auto­pro­cla­ma­ti­si mori­tu­ri per la demo­cra­zia libe­ra­le gira­ro­no i tac­chi e pre­se­ro la stra­da di un rapi­do e imba­raz­za­to ritor­no, por­tan­do con sé le loro salsicce.

§

Mar­tov era rima­sto alla riu­nio­ne gene­ra­le nel­la sala del­le assem­blee. Cer­ca­va anco­ra dispe­ra­ta­men­te un com­pro­mes­so. A quel pun­to pro­po­se una mozio­ne di cri­ti­ca ai bol­sce­vi­chi per ave­re anti­ci­pa­to la volon­tà del con­gres­so, sug­ge­ren­do – anco­ra una vol­ta – che ini­zias­se­ro i nego­zia­ti per un gover­no socia­li­sta ampio e inclu­si­vo. Era simi­le alla mozio­ne pro­po­sta due ore pri­ma, cui i bol­sce­vi­chi non si era­no oppo­sti, a dispet­to del­la volon­tà di Lenin di rom­pe­re coi moderati.
Ma due ore sono un tem­po lungo.
Men­tre Mar­tov si sede­va, ci fu un cer­to sub­bu­glio, e la rap­pre­sen­tan­za bol­sce­vi­ca alla Duma fece il suo ingres­so in sala pia­ce­vol­men­te sor­pren­den­do gli altri dele­ga­ti. Era­no venu­ti, come dichia­ra­ro­no, «per vin­ce­re o mori­re con il con­gres­so pan­rus­so».
Quan­do gli applau­si ces­sa­ro­no, Tro­tsky in per­so­na si levò per rispon­de­re a Martov.
«Una sol­le­va­zio­ne del­le mas­se popo­la­ri non richie­de alcu­na giu­sti­fi­ca­zio­ne», dichia­rò. «Ciò che è acca­du­to è un’insurrezione, e non già una cospi­ra­zio­ne. Noi abbia­mo tem­pra­to l’energia rivo­lu­zio­na­ria dei lavo­ra­to­ri e dei sol­da­ti di Pie­tro­bur­go. Abbia­mo for­gia­to alla luce del sole la volon­tà del­le mas­se per un’insurrezione, non per una cospi­ra­zio­ne. Le mas­se popo­la­ri han­no segui­to le nostre ban­die­re e la nostra insur­re­zio­ne ha vin­to. E ora ci vie­ne det­to: rinun­cia­te alla vostra vit­to­ria, fate con­ces­sio­ni, com­pro­mes­si. Con chi? Chie­do: con chi dovrem­mo fare un com­pro­mes­so? Con quei grup­pi di mise­ra­bi­li che ci han­no lascia­to o che stan­no avan­zan­do que­sta pro­po­sta? Ma dopo­tut­to sap­pia­mo benis­si­mo chi sono. In Rus­sia non c’è più nes­su­no che stia dal­la loro par­te. E si dovreb­be fare que­sto com­pro­mes­so, come fos­se­ro due par­ti sul­lo stes­so pia­no, tra i milio­ni di lavo­ra­to­ri e con­ta­di­ni rap­pre­sen­ta­ti in que­sto con­gres­so e chi inve­ce è pron­to – e non sareb­be né la pri­ma vol­ta, né l’ultima – a mer­can­teg­gia­re sol per­ché la bor­ghe­sia lo ritie­ne giu­sto. No, nes­sun com­pro­mes­so è pos­si­bi­le. A colo­ro che se ne sono anda­ti e a chi ci chie­de di fare que­sto noi rispon­dia­mo: sie­te dei mise­ra­bi­li fal­li­ti, sie­te fuo­ri dai gio­chi. Anda­te dove dove­te anda­re: nell’immondezzaio del­la sto­ria!».
La sala esplo­se. Tra i fra­go­ro­si e pro­lun­ga­ti applau­si, Mar­tov si alzò in pie­di. «E allo­ra ce ne andia­mo!», escla­mò.
Quan­do fece per vol­tar­si, un dele­ga­to gli sbar­rò la stra­da. Lo fis­sò con un’espressione a metà tra il dispia­ciu­to e l’accusatorio.
«E noi che pen­sa­va­mo che alme­no Mar­tov sareb­be rima­sto con noi», dis­se.
«Un gior­no com­pren­de­re­te», rispo­se Mar­tov con la voce rot­ta, «il cri­mi­ne al qua­le sta­te par­te­ci­pan­do».
E uscì.

§

Rapi­da­men­te, il con­gres­so appro­vò una sprez­zan­te riso­lu­zio­ne di denun­cia di colo­ro che si era­no riti­ra­ti dai lavo­ri, com­pre­so Mar­tov. Que­ste frec­cia­te risul­ta­va­no sgra­di­te e inu­ti­li ai restan­ti social­ri­vo­lu­zio­na­ri di sini­stra e men­sce­vi­chi inter­na­zio­na­li­sti; e così pure a mol­ti bolscevichi.

Il secon­do Con­gres­so pan­rus­so dei soviet

Boris Kam­kov fu cal­da­men­te applau­di­to quan­do annun­ciò che il suo grup­po, i socia­li­sti rivo­lu­zio­na­ri di sini­stra, sareb­be rima­sto. Cer­cò di ripren­de­re la pro­po­sta di Mar­tov, cri­ti­can­do con gar­bo la mag­gio­ran­za bol­sce­vi­ca. Essi non rap­pre­sen­ta­va­no i con­ta­di­ni, o la mag­gio­ran­za dell’esercito, ricor­dò all’uditorio. Per­ciò un com­pro­mes­so era anco­ra necessario.
Sta­vol­ta non fu Tro­tsky a rispon­de­re, ma il popo­la­re Luna­char­sky, che ave­va in pre­ce­den­za con­cor­da­to con la pro­po­sta di Mar­tov. I nuo­vi com­pi­ti era­no cer­ta­men­te gra­vo­si, con­ven­ne, ma «le cri­ti­che che ci muo­ve Kam­kov sono infon­da­te».
«Se, inau­gu­ran­do que­sta ses­sio­ne, aves­si­mo comin­cia­to a por­re in esse­re qual­sia­si atto per rifiu­ta­re o eli­mi­na­re altri espo­nen­ti, Kam­kov avreb­be ragio­ne», con­ti­nuò Luna­char­sky. «Ma tut­ti noi abbia­mo una­ni­me­men­te accet­ta­to la pro­po­sta di Mar­tov di discu­te­re la manie­ra paci­fi­ca di risol­ve­re la cri­si. E sia­mo sta­ti subis­sa­ti da una valan­ga di dichia­ra­zio­ni. È sta­to con­dot­to un siste­ma­ti­co attac­co con­tro di noi … Sen­za ascol­tar­ci, sen­za nem­me­no pre­oc­cu­par­si di discu­te­re la loro stes­sa pro­po­sta, essi [i men­sce­vi­chi e i socia­li­sti rivo­lu­zio­na­ri] han­no volu­to sepa­rar­si da noi».
Si sareb­be potu­to rispon­de­re a Luna­char­sky che Lenin ave­va, per set­ti­ma­ne, insi­sti­to affin­ché il suo par­ti­to pren­des­se il pote­re da solo. Eppu­re, nono­stan­te tut­to quel­lo scet­ti­ci­smo, Luna­char­sky ave­va ragione.
Sia sta­to per una sin­ce­ra soli­da­rie­tà, bru­tal­men­te, per con­fu­sio­ne, o per qual­sia­si altro moti­vo, tut­ti i bol­sce­vi­chi, così come chiun­que di ogni altro par­ti­to, ave­va­no appog­gia­to la coo­pe­ra­zio­ne – un gover­no di uni­tà socia­li­sta – quan­do Mar­tov per la pri­ma vol­ta l’aveva proposta.
Bes­sie Beat­ty ha ipo­tiz­za­to che Tro­tsky non sia riu­sci­to a muo­ver­si rapi­da­men­te come avreb­be potu­to in rispo­sta a que­sta pro­po­sta, for­se a cau­sa di «qual­che ama­ro ricor­do di insul­ti subi­ti ad ope­ra di que­sti altri diri­gen­ti». Ma ciò è opi­na­bi­le, e, se pure fos­se vero, i men­sce­vi­chi i social­ri­vo­lu­zio­na­ri di destra e altri ave­va­no scel­to di rin­fac­cia­re il voto ai bol­sce­vi­chi. Era­no da ciò diret­ta­men­te pas­sa­ti all’opposizione, stig­ma­tiz­zan­do quel­li alla loro sinistra.
La doman­da di Luna­char­sky era ragio­ne­vo­le: come si può col­la­bo­ra­re con chi ha respin­to la collaborazione?
Come per sot­to­li­nea­re il pun­to, pro­prio in quel pre­ci­so momen­to i mode­ra­ti che era­no usci­ti dal­la sala eti­chet­ta­va­no la riu­nio­ne come «un incon­tro pri­va­to dei dele­ga­ti bol­sce­vi­chi», annun­cian­do che il Comi­ta­to cen­tra­le ese­cu­ti­vo «rite­ne­va che il secon­do con­gres­so non aves­se nep­pu­re avu­to luo­go».
Nel­la sala, la discus­sio­ne sul­la con­ci­lia­zio­ne si tra­sci­nò nel momen­to peg­gio­re. Ma a quel pun­to l’opinione pre­va­len­te era dal­la par­te di Luna­char­sky, e di Trotsky.

§

Al Palaz­zo d’Inverno si gio­ca­va l’ultima partita.
Il ven­to entra­va attra­ver­so i vetri rot­ti. Le gran­di sale era­no geli­de. Sol­da­ti scon­so­la­ti, pri­vi di ogni sco­po, vaga­va­no vici­no alle aqui­le bici­pi­ti del­la sala del tro­no. Gli inva­so­ri ave­va­no rag­giun­to la stan­za per­so­na­le dell’imperatore, vuo­ta, e si attar­da­ro­no a infie­ri­re a col­pi di baio­net­ta sul dipin­to che lo ritrae­va men­tre egli, cal­mo, li guar­da­va dal­la pare­te. Sfre­gia­ro­no il qua­dro come bestie coi loro arti­gli, lascian­do lun­ghi squar­ci che segna­ro­no la figu­ra dell’ex zar dal­la testa ai piedi.

Dipin­to del pit­to­re Ivan Vla­di­mi­rov, che ritrae la sce­na appe­na descrit­ta nel testo

Del­le sago­me di uomi­ni appa­ri­va­no e scom­pa­ri­va­no, cia­scu­no incer­to dell’identità dell’altro. Un cer­to tenen­te Sine­gub era rima­sto, inca­ri­ca­to di difen­de­re il gover­no. In quel­le ore con­fu­se ave­va sor­ve­glia­to i cor­ri­doi asse­dia­ti aspet­tan­do­si un attac­co, alla deri­va in una spe­cie di pani­co cal­mo, di estre­ma e nar­co­tiz­zan­te stan­chez­za, assi­sten­do a sce­ne come scam­po­li di una qual­che sto­ria con­fu­sa: un anzia­no gen­ti­luo­mo in uni­for­me da ammi­ra­glio sedu­to immo­bi­le su una pol­tro­na; un cen­tra­li­no spen­to e abban­do­na­to; dei sol­da­ti acco­vac­cia­ti sot­to gli sguar­di atten­ti di ritrat­ti in una galleria.
Le sca­ra­muc­ce tra gli uomi­ni avve­ni­va­no sul­le sca­le. Ogni scric­chio­lio sul­le assi del pavi­men­to pote­va esse­re la rivo­lu­zio­ne. Giun­se uno jun­ker diret­to da qual­che par­te, per una qual­che mis­sio­ne. Con una cal­ma inna­tu­ra­le, avvi­sò che la per­so­na vici­no alla qua­le Sine­gub era appe­na pas­sa­to – sì, era pro­prio pas­sa­to vici­no a qual­cu­no – era pro­ba­bil­men­te uno dei nemi­ci. «Bene, eccel­len­te», dis­se Sine­gub. «Guar­da­te! Me ne assi­cu­re­rò subi­to». Si vol­tò e lo immo­bi­liz­zò – effet­ti­va­men­te l’altro uomo era uno degli insor­ti – tiran­do­gli giù il pastra­no come un bam­bi­no in una ris­sa da cor­ti­le, così che non potes­se più muo­ve­re le braccia.

§

Intor­no alle due del mat­ti­no, le for­ze del Cmr fece­ro irru­zio­ne in mas­sa nel Palaz­zo. Fuo­ri di sé, Kono­va­lov tele­fo­nò a Shrei­der. «Non ci resta che una pic­co­la for­za di cadet­ti», dis­se. «Ci arre­ste­ran­no pre­sto». La linea cadde.
I mini­stri sen­ti­ro­no col­pi inu­ti­li pro­ve­ni­re dai cor­ri­doi. L’ultima loro dife­sa. Rumo­re di pas­si. Un cadet­to ansi­man­te entrò cor­ren­do per rice­ve­re ordi­ni. «Com­bat­tia­mo fino all’ultimo uomo?», chie­se.
«Nes­su­no spar­gi­men­to di san­gue!», gli rispo­se­ro urlan­do. «Dob­bia­mo arren­der­ci».
Rima­se­ro in atte­sa. Uno stra­no disa­gio. Come era meglio far­si tro­va­re? Cer­ta­men­te, non men­tre si aggi­ra­va­no imba­raz­za­ti, con i sopra­bi­ti posa­ti sul brac­cio come uomi­ni d’affari in atte­sa del treno.
Kish­kin il dit­ta­to­re pre­se il con­trol­lo. Die­de gli ulti­mi due ordi­ni del suo regno.
«Lascia­te i vostri sopra­bi­ti», dis­se. «Sedia­mo­ci intor­no al tavo­lo».
Obbe­di­ro­no. E così sta­va­no, come l’immagine con­ge­la­ta di una sedu­ta di gover­no, allor­quan­do Anto­nov fece irru­zio­ne in modo spet­ta­co­la­re, col suo eccen­tri­co cap­pel­lo da arti­sta cal­ca­to all’indietro sui capel­li ros­si. Die­tro di lui, sol­da­ti, mari­nai e Guar­die rosse.
«Il gover­no prov­vi­so­rio è qui», dis­se con una straor­di­na­ria digni­tà Kono­va­lev, come se stes­se rispon­den­do a una bus­sa­ta alla por­ta piut­to­sto che a un’insurrezione. «Cosa desi­de­ra­te?».
«Infor­mo voi tut­ti, mem­bri del gover­no prov­vi­so­rio», dis­se Anto­nov, «che sie­te trat­ti in arre­sto».
Pri­ma del­la rivo­lu­zio­ne – era pas­sa­ta una vita poli­ti­ca – uno dei mini­stri pre­sen­ti, Malian­to­vich, ave­va dato rifu­gio nel­la sua casa ad Anto­nov. I due si scam­bia­ro­no uno sguar­do, ma non dis­se­ro nulla.

Il bol­sce­vi­co Vla­di­mir Anto­nov-Ovseyen­ko, che dires­se l’assalto al Palaz­zo d’Inverno

Le Guar­die ros­se diven­ne­ro furi­bon­de quan­do sco­pri­ro­no che Keren­sky era da tem­po anda­to via. Infe­ro­ci­to, uno gri­dò: «Fac­cia­mo fuo­ri tut­ti que­sti figli di put­ta­na a col­pi di baio­net­ta!».
«Non tol­le­re­rò alcu­na vio­len­za con­tro di loro», repli­cò con mol­ta cal­ma Antonov.
Subi­to dopo con­dus­se via i mini­stri, lascian­do­si die­tro som­ma­rie boz­ze di pro­cla­mi, can­cel­la­te, incro­ci sen­za sen­so come far­ne­ti­ca­zio­ni di dit­ta­tu­ra in fan­ta­sio­si pro­get­ti. Comin­ciò a squil­la­re un telefono.
Sine­gub guar­da­va dal cor­ri­do­io. Quan­do tut­to fu fini­to, spa­ri­to il suo gover­no, il suo dove­re com­piu­to, si vol­tò in silen­zio e andò via, uscen­do sot­to la luce dei riflettori.
Dei ladri rovi­sta­ro­no nel deda­lo di stan­ze. Igno­ra­ro­no le ope­re d’arte e pre­se­ro vesti­ti e nin­no­li, cal­pe­stan­do fogli spar­si sul pavi­men­to. Quan­do usci­ro­no, furo­no per­qui­si­ti dai sol­da­ti rivo­lu­zio­na­ri che con­fi­sca­ro­no i loro sou­ve­nir. «Que­sto palaz­zo appar­tie­ne al popo­lo», li rim­pro­ve­rò un tenen­te bol­sce­vi­co. «Que­sto è il nostro palaz­zo. Non deru­ba­te il popo­lo».
L’elsa di una spa­da spez­za­ta, una can­de­la di cera. I ladrun­co­li abban­do­na­ro­no il loro bot­ti­no. Una coper­ta, un cusci­no di un divano.
Anto­nov fece usci­re gli ex mini­stri. Li accol­se una fol­la vio­len­ta, ecci­ta­ta e infu­ria­ta. Per pro­teg­ger­li, egli stet­te in pie­di davan­ti a loro. «Non li toc­ca­te», dis­se orgo­glio­sa­men­te insie­me ad altri esper­ti bol­sce­vi­chi. «È da bar­ba­ri».
Ma il rug­gi­to rab­bio­so del­la fol­la non si sareb­be pla­ca­to così facil­men­te se non ci fos­se sta­to un col­po di for­tu­na. Dopo alcu­ni atti­mi di ten­sio­ne, il cre­pi­tio di mitra­glia­tri­ci vici­ne indus­se la gen­te a disper­der­si in pre­da al pani­co, sic­ché Anto­nov col­se al volo l’opportunità per attra­ver­sa­re di cor­sa il pon­te, spin­gen­do e tra­sci­nan­do i pri­gio­nie­ri ver­so le car­ce­ri del­la for­tez­za di Pie­tro e Paolo.
Pri­ma che la por­ta del­la sua cel­la si chiu­des­se, il mini­stro degli Inter­ni, il men­sce­vi­co Niki­tin, estras­se dal­la tasca un tele­gram­ma invia­to­gli dal­la Rada ucraina.
«Ieri ho rice­vu­to que­sto», dis­se con­se­gnan­do­lo ad Anto­nov. «Ora è affar vostro».

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Allo Smol­ny, fu quell’ostinato pes­si­mi­sta di Kame­nev a dare la noti­zia ai dele­ga­ti: «I diri­gen­ti con­tro­ri­vo­lu­zio­na­ri inse­dia­ti nel Palaz­zo d’Inverno sono sta­ti cat­tu­ra­ti dal­la guar­ni­gio­ne rivo­lu­zio­na­ria». Sca­te­nò un caos festante.
Era­no pas­sa­te le tre del mat­ti­no, ma c’era anco­ra lavo­ro da svol­ge­re. Per altre due ore il con­gres­so ascol­tò i reso­con­ti che arri­va­va­no: di uni­tà che pas­sa­va­no dal­la loro par­te, di gene­ra­li che rico­no­sce­va­no l’autorità del Cmr. C’era anco­ra qual­che dis­sen­zien­te. A qual­cu­no che ave­va chie­sto il rila­scio dal­la pri­gio­ne dei mini­stri social­ri­vo­lu­zio­na­ri Tro­tsky rispo­se rim­pro­ve­ran­do­lo di non esse­re un vero compagno.
Intor­no alle quat­tro, l’uscita del grup­po di Mar­tov regi­strò un inde­co­ro­so epi­lo­go, con una dele­ga­zio­ne rien­tra­ta a testa bas­sa per cer­ca­re di ripre­sen­ta­re la mozio­ne per un gover­no socia­li­sta di col­la­bo­ra­zio­ne. Kame­nev ricor­dò all’assemblea che Mar­tov ave­va cal­deg­gia­to un com­pro­mes­so con chi ave­va poi vol­ta­to le spal­le alla sua pro­po­sta. Eppu­re, mode­ra­to come sem­pre, pose all’ordine del gior­no la mozio­ne pre­sen­ta­ta da Tro­tsky di con­dan­na dei social­ri­vo­lu­zio­na­ri e dei men­sce­vi­chi infi­lan­do­la con discre­zio­ne in un lim­bo pro­ce­du­ra­le per poter­si rispar­mia­re imba­raz­zi nel caso fos­se­ro ripre­se le trattative.
Lenin non avreb­be fat­to ritor­no alla riu­nio­ne quel­la not­te. Sta­va pre­pa­ran­do dei pia­ni. Ma ave­va scrit­to un docu­men­to che fu Luna­char­sky a presentare.
Indi­riz­zan­do­lo «Agli ope­rai, ai sol­da­ti e ai con­ta­di­ni», Lenin pro­cla­ma­va il pote­re dei soviet e si impe­gna­va a pro­por­re imme­dia­ta­men­te una pace demo­cra­ti­ca. La ter­ra sareb­be sta­ta tra­sfe­ri­ta ai con­ta­di­ni. Alle cit­tà sareb­be sta­to assi­cu­ra­to il pane, alle nazio­ni dell’impero sareb­be sta­to garan­ti­to il dirit­to all’autodeterminazione. Ma Lenin avver­ti­va pure che la rivo­lu­zio­ne era anco­ra in peri­co­lo, minac­cia­ta dall’esterno e dall’interno.

«I kor­ni­lo­vi­sti […] ten­ta­no di con­dur­re le trup­pe con­tro Pie­tro­gra­do. […] Sol­da­ti, oppo­ne­te un’attiva resi­sten­za al kor­ni­lo­vi­sta Keren­sky! […] Fer­ro­vie­ri, fer­ma­te tut­ti i con­vo­gli di trup­pe che Keren­sky diri­ge con­tro Pie­tro­gra­do! Sol­da­ti, ope­rai, impie­ga­ti! Le sor­ti del­la rivo­lu­zio­ne e del­la pace demo­cra­ti­ca sono nel­le vostre mani!».

Occor­se mol­to tem­po a Luna­char­sky per leg­ge­re l’intero docu­men­to ad alta voce, dato che veni­va spes­so inter­rot­to da for­ti gri­da di appro­va­zio­ne. Una lie­ve modi­fi­ca ver­ba­le assi­cu­rò il con­sen­so del­la sini­stra social­ri­vo­lu­zio­na­ria. Una minu­sco­la fra­zio­ne dei men­sce­vi­chi si asten­ne, pre­pa­ran­do la stra­da per una ricon­ci­lia­zio­ne tra mar­to­via­ni di sini­stra e bol­sce­vi­chi. Poco male. Alle cin­que del mat­ti­no del 26 otto­bre, una schiac­cian­te mag­gio­ran­za appro­vò il mani­fe­sto di Lenin.
Ci fu un boa­to. Quan­do se ne spen­se l’eco, la por­ta­ta di quel­la riso­lu­zio­ne let­ta urlan­do diven­ne len­ta­men­te chia­ra a tut­ti. Uomi­ni e don­ne si guar­da­va­no intor­no gli uni con gli altri. Era sta­ta appro­va­ta. Era fatta.
Fu pro­cla­ma­to il gover­no rivoluzionario.
Il gover­no rivo­lu­zio­na­rio era sta­to pro­cla­ma­to, ed era già abba­stan­za per quel­la not­te. Sareb­be sta­to già mol­to per una pri­ma sedu­ta. Certamente.
Esau­sti, ubria­chi di sto­ria, con i ner­vi anco­ra tesi come cavi elet­tri­ci, i dele­ga­ti al secon­do Con­gres­so dei soviet usci­ro­no vacil­lan­do dal­lo Smol­ny. Abban­do­na­ro­no quel col­le­gio fem­mi­ni­le per entra­re in un nuo­vo momen­to del­la sto­ria, un pri­mo gior­no del tut­to nuo­vo, quel­lo del gover­no degli ope­rai, in un mat­ti­no di una cit­tà nuo­va, la capi­ta­le del­lo Sta­to dei lavoratori.

Mar­cia­ro­no nell’aria inver­na­le, sot­to un cie­lo neb­bio­so ma che si sta­va rischiarando.


[*] Chi­na Mié­vil­le è l’autore di Octo­ber: The Sto­ry of the Rus­sian Revo­lu­tion, non­ché di This Cen­sus-TakerThree Momen­ts of an Explo­sionRail­seaEmbas­sy­to­wnKra­kenThe City & The City, e Per­di­do Street Sta­tion. Le sue ope­re han­no vin­to il World Fan­ta­sy Award, l‘Hugo Award, e l’Arthur C. Clar­ke Award (tre vol­te). Vive e lavo­ra a Londra.

 

(Tra­du­zio­ne di Vale­rio Torre)