Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Storia del movimento operaio

Lev Davidovič

Van Heijenoort e Trotsky

Il 20 ago­sto del 1940 la mano assas­si­na di Sta­lin spen­se per sem­pre l’ultima voce cri­ti­ca e la più genia­le testa pen­san­te di quel­la vec­chia guar­dia bol­sce­vi­ca che anco­ra custo­di­va e pro­pa­gan­da­va i valo­ri rivo­lu­zio­na­ri dell’Ottobre, con­trap­po­nen­do­li alla sui­ci­da e con­tro­ri­vo­lu­zio­na­ria poli­ti­ca del san­gui­na­rio dit­ta­to­re geor­gia­no. Ben­ché iso­la­to, esi­lia­to in Tur­chia e suc­ces­si­va­men­te pro­fu­go attra­ver­so la Fran­cia, la Nor­ve­gia, fino al Mes­si­co, León Tro­tsky era comun­que il rap­pre­sen­tan­te più auto­re­vo­le del bol­sce­vi­smo dopo la mor­te di Lenin e l’esponente del­la rivo­lu­zio­ne del 1917 più ascol­ta­to nel cri­ti­ca­re e denun­cia­re inter­na­zio­nal­men­te la buro­cra­tiz­za­zio­ne dell’Unione Sovie­ti­ca e l’abbandono dei prin­ci­pi che ave­va­no por­ta­to al pote­re il movi­men­to ope­ra­io: in quan­to tale, egli era un osta­co­lo per Sta­lin, che inviò per­ciò un suo sica­rio per assas­si­nar­lo. Tro­tsky morì il gior­no dopo l’attentato subito.
Nel 79° anni­ver­sa­rio del­la sua mor­te inten­dia­mo ricor­da­re il gran­de rivo­lu­zio­na­rio rus­so attra­ver­so le paro­le di uno dei suoi più stret­ti col­la­bo­ra­to­ri dal 1932 al 1939: Jean Van Hei­je­noort, che fu fede­le segre­ta­rio e guar­dia del cor­po di Tro­tsky duran­te il perio­do d’esilio, dall’isola di Prin­ki­po (Tur­chia) fino a Coyoa­cán (Mes­si­co). Un perio­do che Van Hei­je­noort ha rac­con­ta­to nel bel libro “In esi­lio con Tro­tsky: da Prin­ki­po a Coyoa­cán”.
Il testo che pre­sen­tia­mo tra­dot­to in ita­lia­no ven­ne pub­bli­ca­to per la pri­ma vol­ta nel nume­ro di ago­sto 1941 della rivi­sta Fourth Inter­na­tio­nal, vol. II, n. 7 (pp. 207–209), con lo pseu­do­ni­mo di Karl Mayer, e poi ripub­bli­ca­to col vero nome dell’autore sul­la stes­sa rivi­sta (n. 7, autun­no 1959, pp. 27–29), con una nota del­la reda­zio­ne che dava con­to dell’abbandono del movi­men­to tro­tski­sta da par­te di Van Hei­je­noort. Non­di­me­no, colui che gli fu fede­le e devo­to segre­ta­rio con­ti­nuò l’opera di rac­col­ta e siste­ma­zio­ne del­le ope­re del rivo­lu­zio­na­rio rus­so. E in mas­si­ma par­te è pro­prio meri­to suo se oggi cono­scia­mo i lavo­ri di Trotsky.
Buo­na lettura.
La redazione

Lev Davidovič


Jean Van Heijenoort

 

Quan­do Engels, rive­ri­to patriar­ca del­la social­de­mo­cra­zia inter­na­zio­na­le, si spen­se tran­quil­la­men­te e cari­co d’anni a Lon­dra, giun­ge­va al suo ter­mi­ne il seco­lo che sepa­ra­va le rivo­lu­zio­ni bor­ghe­si dal­le rivo­lu­zio­ni pro­le­ta­rie e il gia­co­bi­ni­smo dal bol­sce­vi­smo. La tra­sfor­ma­zio­ne del mon­do annun­cia­ta da Marx era sul pun­to di con­ver­tir­si in un com­pi­to imme­dia­to e i rivo­lu­zio­na­ri si appre­sta­va­no a vive­re avve­ni­men­ti sen­za ugua­li. E infat­ti, le teste dei tre più gran­di diri­gen­ti rivo­lu­zio­na­ri dopo Engels subi­ro­no i col­pi del­la rea­zio­ne. Lo sto­ri­co del futu­ro non potrà non vede­re in que­sto fat­to uno dei segni carat­te­ri­sti­ci del­la nostra epo­ca. Così come non potrà fare a meno di nota­re da chi quei col­pi ven­ne­ro infer­ti. La testa di Lenin ven­ne rag­giun­ta dal­la pal­lot­to­la del­la “socia­li­sta rivo­lu­zio­na­ria” Fan­ny Kaplan. La testa di Rosa Luxem­burg fu schiac­cia­ta sot­to gli sti­va­li del­la sol­da­ta­glia del “social­de­mo­cra­ti­co” Noske. La testa di Tro­tsky fu fra­cas­sa­ta dai col­pi di pic­coz­za di uno dei mer­ce­na­ri del “comu­ni­sta” Stalin.
Con i suoi bru­schi sal­ti e i suoi acces­si feb­bri­li, la nostra epo­ca di cri­si divo­ra sem­pre più rapi­da­men­te gli uomi­ni e i par­ti­ti. Colo­ro che solo ieri rap­pre­sen­ta­va­no la rivo­lu­zio­ne diven­ta­no oggi gli stru­men­ti del­la più buia rea­zio­ne. Que­sta bat­ta­glia all’ultimo san­gue tra la testa del pro­ces­so sto­ri­co e la sua coda, pesan­te e che tira nell’altra dire­zio­ne, ha rap­pre­sen­ta­to uno dei suoi aspet­ti più dram­ma­ti­ci nel duel­lo fra Tro­tsky e Sta­lin, pro­prio per­ché que­sta lot­ta si svi­lup­pa­va sul­lo sce­na­rio di uno Sta­to ope­ra­io già crea­to. Tro­tsky, por­ta­to al ver­ti­ce del pote­re dall’esplosione rivo­lu­zio­na­ria del­le mas­se, per­se­gui­ta­to e brac­ca­to quan­do si sono sus­se­gui­te le scon­fit­te del pro­le­ta­ria­to, è diven­ta­to egli stes­so l’incarnazione del­la rivoluzione.

Da sini­stra: Rudolf Kle­ment, Tro­tsky, Yvan Crai­peau, Jean­ne Mar­tin des Pal­lie­res, Sara Weber. In bas­so: Van Hei­je­noort (1933)

Era dota­to di un fisi­co sor­pren­den­te. Ciò che innan­zi­tut­to impres­sio­na­va era la sua fron­te (ecce­zio­nal­men­te alta, ver­ti­ca­le e sen­za un mini­mo di cal­vi­zie). Poi, i suoi occhi, d’un azzur­ro pro­fon­do, deno­tan­ti uno sguar­do poten­te e sicu­ro del suo pote­re. Duran­te il suo sog­gior­no in Fran­cia, Lev Davi­do­vič era costret­to mol­to spes­so a viag­gia­re in inco­gni­to per sem­pli­fi­ca­re i pro­ble­mi rela­ti­vi alla sua sicu­rez­za. Allo­ra si rasa­va il piz­zet­to e pet­ti­na­va i capel­li con la riga a lato. Ma quan­do si pre­pa­ra­va ad usci­re e a con­fon­der­si tra la fol­la, io ero sem­pre mol­to pre­oc­cu­pa­to: «No, non è pos­si­bi­le … il pri­mo pas­san­te la rico­no­sce­rà, non può cam­bia­re que­sto sguar­do …». Poi, quan­do Lev Davi­do­vič ini­zia­va a par­la­re, ciò che richia­ma­va l’attenzione era la sua boc­ca. Che par­las­se in rus­so o in una lin­gua stra­nie­ra, le sue lab­bra si sfor­za­va­no di for­ma­re le paro­le chia­ra­men­te. Lo irri­ta­va ascol­ta­re i discor­si con­fu­si e pre­ci­pi­to­si degli altri, e si impo­ne­va sem­pre di espri­mer­si in modo per­fet­ta­men­te chia­ro. Solo quan­do si rivol­ge­va in rus­so a Nata­lia Iva­no­v­na il suo lin­guag­gio diven­ta­va più rapi­do e meno arti­co­la­to, fino a diven­ta­re, a vol­te, un bisbi­glio. Quan­do nel suo stu­dio par­la­va a un ospi­te, le sue mani, dap­pri­ma pog­gia­te sul bor­do del­la scri­va­nia, ini­zia­va­no mol­to pre­sto a dise­gna­re nell’aria lar­ghi e fer­mi gesti, come se aiu­tas­se­ro le lab­bra nell’espressione del suo pen­sie­ro. Il viso cir­con­da­to dai capel­li, il por­ta­men­to del­la testa e di tut­to il cor­po, era­no sem­pre fie­ri e mae­sto­si. La sua sta­tu­ra supe­ra­va la media, il suo tron­co era for­te, le spal­le lar­ghe e robu­ste, men­tre inve­ce le gam­be sem­bra­va­no un po’ pic­co­le. Era indub­bia­men­te più faci­le per chi fos­se venu­to a far­gli occa­sio­nal­men­te visi­ta dare le sue impres­sio­ni sul viso di Tro­tsky, che per colui che gli era sta­to vici­no per anni nel­le più diver­se circostanze.
La sola espres­sio­ne che non gli ho mai visto era quel­la del­la sia pur mini­ma vol­ga­ri­tà. Allo stes­so modo, nep­pu­re era pos­si­bi­le coglie­re qual­co­sa di simi­le all’ingenuità. Ma non gli face­va difet­to una cer­ta dol­cez­za, indub­bia­men­te pro­ve­nien­te dal­la for­mi­da­bi­le intel­li­gen­za, la cui faci­li­tà di coglie­re qua­lun­que cosa era sem­pre per­cet­ti­bi­le. Lo si pote­va vede­re por­ta­re avan­ti con gio­va­ni­le entu­sia­smo qual­sia­si com­pi­to aves­se intra­pre­so e, allo stes­so tem­po, era abba­stan­za for­te da tra­sci­nar­si altri die­tro a col­la­bo­ra­re per la riu­sci­ta di quell’impresa. Quan­do si trat­ta­va di pren­der­se­la con un avver­sa­rio, quel­la spe­cie di alle­gria si tra­sfor­ma­va rapi­da­men­te in iro­nia, mor­da­ce e mali­zio­sa, che alter­na­va a un’espressione di disprez­zo, e quan­do l’avversario era par­ti­co­lar­men­te abiet­to si sareb­be potu­to coglie­re per un atti­mo come un’ombra di osti­li­tà. Ma subi­to gli tor­na­va la viva­ci­tà. «Siste­mia­mo­lo per le feste!», dice­va allo­ra, ani­ma­ta­men­te. Nel­la soli­tu­di­ne del suo esi­lio, le cir­co­stan­ze più dram­ma­ti­che in cui ho potu­to vede­re Lev Davi­do­vič furo­no i suoi con­flit­ti con la poli­zia o inci­den­ti con avver­sa­ri in mala­fe­de. In quei momen­ti l’espressione del suo viso si indu­ri­va e i suoi occhi lan­cia­va­no fuo­co e fiam­me, come se in essi si fos­se all’improvviso con­cen­tra­to quell’immenso pote­re di volon­tà che non pote­va di soli­to misu­rar­si se non attra­ver­so i lavo­ri del­la sua inte­ra vita. Diven­ta­va evi­den­te, allo­ra, che nul­la al mon­do avreb­be potu­to smuo­ver­lo di un millimetro.

Come lavo­ra­va Trotsky
Nel­la vita quo­ti­dia­na que­sta for­za di carat­te­re si mani­fe­sta­va in un lavo­ro stret­ta­men­te orga­niz­za­to. Qual­sia­si distur­bo immo­ti­va­to lo irri­ta­va enor­me­men­te: odia­va le con­ver­sa­zio­ni sen­za costrut­to, le visi­te impre­vi­ste e gli impe­gni non man­te­nu­ti o rifiu­ta­ti. Ma cer­ta­men­te in que­sto non v’era la più pic­co­la trac­cia di pedan­te­ria. Quan­do si pre­sen­ta­va una que­stio­ne impor­tan­te, egli non dubi­ta­va un solo istan­te nel cam­bia­re tut­ti i suoi pia­ni, ma dove­va trat­tar­si di qual­co­sa per cui vales­se la pena. Se la cosa aves­se avu­to il sia pur mini­mo inte­res­se per il movi­men­to, le dedi­ca­va il suo tem­po e le sue ener­gie sen­za pen­sar­ci su due vol­te, ma si mostra­va assai ava­ro quan­do la negli­gen­za, l’indifferenza o la cat­ti­va orga­niz­za­zio­ne degli altri minac­cia­va di disper­de­re l’impegno che egli pro­fon­de­va. Eco­no­miz­za­va ogni pic­co­lo fram­men­to di tem­po, la mate­ria più pre­zio­sa di cui è fat­ta la vita. L’intera sua vita per­so­na­le era rigi­da­men­te orga­niz­za­ta alla luce di una qua­li­tà det­ta uni­tà di obiet­ti­vo. Ave­va sta­bi­li­to una gerar­chia di dove­ri e por­ta­va a ter­mi­ne qual­sia­si cosa aves­se iniziato.

Da sini­stra: Die­go Rive­ra, Tro­tsky, André Bre­ton, Van Heijenoort

Ave­va come rego­la il non lavo­ra­re per meno di dodi­ci ore al gior­no, e a vol­te, se neces­sa­rio, mol­to di più. Resta­va a tavo­la il meno pos­si­bi­le, e dopo aver con­di­vi­so i pasti con lui per mol­ti anni non potrei dire di aver mai nota­to sul suo viso il mini­mo segno di godi­men­to per ciò che ave­va man­gia­to o bevu­to. «Man­gia­re, vestir­si, tut­te que­ste mise­ra­bi­li pic­co­le cose che biso­gna ripe­te­re tut­ti i gior­ni …», mi dis­se una volta.
Tro­va­va un diver­si­vo sol­tan­to in un’intensa atti­vi­tà fisi­ca. Le sem­pli­ci pas­seg­gia­te era­no per lui appe­na una distra­zio­ne. Cam­mi­na­va atti­va­men­te e in silen­zio, e si sareb­be potu­to vede­re che la sua men­te era sem­pre al lavo­ro. Di tan­to in tan­to pone­va una doman­da: «Quan­do ha rispo­sto a que­sta let­te­ra?». «Mi può tro­va­re que­sta cita­zio­ne?». Solo un inten­so eser­ci­zio fisi­co lo distrae­va. In Tur­chia era la cac­cia e spe­cial­men­te la pesca in pro­fon­di­tà, dif­fi­ci­le e movi­men­ta­ta, in cui le ener­gie fisi­che dove­va­no con­su­mar­si sen­za rispar­mio. Quan­do la pesca era sta­ta buo­na, cioè dav­ve­ro fati­co­sa, al suo ritor­no a casa ripren­de­va a lavo­ra­re con rad­dop­pia­to entu­sia­smo. In Mes­si­co, dove la pesca non era pra­ti­ca­bi­le, si inven­tò la rac­col­ta di enor­mi e pesan­ti cac­tus sot­to un sole infernale.
Natu­ral­men­te, le neces­si­tà del­la sua sicu­rez­za crea­va­no cer­ti obbli­ghi. Negli undi­ci anni e mez­zo del­la sua ter­za emi­gra­zio­ne, solo duran­te alcu­ni mesi, in cer­ti momen­ti del­la sua per­ma­nen­za in Fran­cia e Nor­ve­gia, Lev Davi­do­vič poté pas­seg­gia­re libe­ra­men­te, cioè sen­za guar­die del cor­po, per la cam­pa­gna cir­co­stan­te la sua abi­ta­zio­ne. Di rego­la, ogni sua pas­seg­gia­ta diven­ta­va una pic­co­la spe­di­zio­ne mili­ta­re. Era neces­sa­rio pren­de­re in anti­ci­po tut­te le pre­cau­zio­ni e sta­bi­li­re meti­co­lo­sa­men­te il suo iti­ne­ra­rio. «Mi trat­ta­te come se fos­si un ogget­to», dice­va spes­so dis­si­mu­lan­do die­tro una bat­tu­ta tut­ta l’impazienza con­te­nu­ta in quest’osservazione.
Esi­ge­va dai com­pa­gni che lo aiu­ta­va­no lo stes­so spi­ri­to meto­di­co che met­te­va nel suo lavo­ro. Quan­to più pros­si­mi era­no i suoi col­la­bo­ra­to­ri più pre­ten­de­va da loro e meno si pre­oc­cu­pa­va del­le for­ma­li­tà. Vole­va la pre­ci­sio­ne in ogni cosa: una let­te­ra non data­ta, un docu­men­to non fir­ma­to, lo irri­ta­va­no sem­pre allo stes­so modo di qual­sia­si cosa tra­scu­ra­ta, tra­san­da­ta e alla car­lo­na. «Rea­liz­za­te bene ogni com­pi­to che ave­te ini­zia­to e por­ta­te­lo a ter­mi­ne». E, in gene­ra­le, non face­va alcu­na dif­fe­ren­za tra gli insi­gni­fi­can­ti lavo­ri quo­ti­dia­ni e il lavo­ro intel­let­tua­le: «por­ta­te i vostri ragio­na­men­ti fino alle loro con­clu­sio­ni», era l’espressione che spes­so gli usci­va dal­la pen­na. Era sem­pre mol­to atten­to alla salu­te di colo­ro che lo cir­con­da­va­no. La salu­te è un capi­ta­le rivo­lu­zio­na­rio che non deve esse­re spre­ca­to. Si arrab­bia­va veden­do che qual­cu­no leg­ge­va con poca luce. «È neces­sa­rio met­te­re a rischio la vostra vita per la rivo­lu­zio­ne sen­za esi­ta­re, ma per­ché rovi­nar­vi la vista se pote­te leg­ge­re in modo con­for­te­vo­le e sen­za pro­ble­mi?».

Le con­ver­sa­zio­ni di Trotsky
Nei loro col­lo­qui con Lev Davi­do­vič, i visi­ta­to­ri resta­va­no col­pi­ti soprat­tut­to dal­la sua capa­ci­tà di orien­tar­si rispet­to a una situa­zio­ne nuo­va. Era in gra­do di inte­grar­la nel­la sua pro­spet­ti­va gene­ra­le e, al con­tem­po, dava sem­pre un’opinione imme­dia­ta e pra­ti­ca. Nel cor­so del­la sua ter­za emi­gra­zio­ne ebbe spes­so occa­sio­ne di intrat­te­ner­si con visi­ta­to­ri venu­ti da Pae­si dei qua­li egli non ave­va una cono­scen­za diret­ta, maga­ri dai Bal­ca­ni o dall’America Lati­na. Non sem­pre cono­sce­va la loro lin­gua, né ne segui­va la stam­pa, e non ave­va mai avu­to un par­ti­co­la­re inte­res­se per i loro spe­ci­fi­ci pro­ble­mi. Innan­zi­tut­to, lascia­va par­la­re il suo inter­lo­cu­to­re, di tan­to in tan­to pren­den­do del­le bre­vi note su un foglio di car­ta che ave­va davan­ti, e a vol­te chie­den­do qual­che chia­ri­men­to: «Quan­ti mili­tan­ti ha que­sto par­ti­to?», «Que­sto poli­ti­co non è un avvo­ca­to?».
In segui­to par­la­va lui, e la con­ge­rie di infor­ma­zio­ni che gli era­no sta­te for­ni­te veni­va­no orga­niz­za­te. Ben pre­sto pote­va­no distin­guer­si i movi­men­ti del­le diver­se clas­si e dei dif­fe­ren­ti set­to­ri al loro inter­no e poi, lega­to a que­sti movi­men­ti, appa­ri­va il gio­co dei par­ti­ti, dei grup­pi e del­le orga­niz­za­zio­ni; e alla fine il posto e le atti­vi­tà di varie figu­re poli­ti­che in fun­zio­ne del­la loro pro­fes­sio­ne e dei loro trat­ti per­so­na­li fini­va­no per tro­var­si logi­ca­men­te inte­gra­ti nel qua­dro. Il natu­ra­li­sta fran­ce­se Cuvier era soli­to van­tar­si di esse­re capa­ce di rico­strui­re un ani­ma­le inte­ro a par­ti­re da un sin­go­lo osso. Con la sua vasta cono­scen­za del­le real­tà socia­li e poli­ti­che, Tro­tsky pote­va dedi­car­si a un lavo­ro simi­le. Il suo inter­lo­cu­to­re resta­va sem­pre mera­vi­glia­to nel vede­re come egli fos­se capa­ce di pene­tra­re a fon­do nel­la real­tà di un par­ti­co­la­re pro­ble­ma, e alla fine lascia­va lo stu­dio di Tro­tsky con una cono­scen­za un po’ più appro­fon­di­ta del pro­prio Paese.

Tro­tsky, nel­la sua casa di Coyoa­cán, a col­lo­quio con un redat­to­re del gior­na­le mes­si­ca­no El Universal

In ogni momen­to si avver­ti­va in Tro­tsky un enor­me patri­mo­nio d’esperienza, non solo impres­sa nel­la sua memo­ria, ben­sì orga­niz­za­ta e a lun­go pon­de­ra­ta e orga­niz­za­ta. Allo stes­so modo, si vede­va che l’organizzazione di quest’esperienza si basa­va su incrol­la­bi­li prin­ci­pi. Ben­ché Lev Davi­do­vič odias­se la rou­ti­ne, ben­ché fos­se sem­pre ansio­so di sco­pri­re nuo­ve vie, il mini­mo ten­ta­ti­vo di inno­va­zio­ne nel cam­po dei prin­ci­pi lo met­te­va in allar­me. «Taglia­re la bar­ba a Marx», era que­sta la sua espres­sio­ne per tut­ti quei ten­ta­ti­vi di uni­for­ma­re il mar­xi­smo alle ten­den­ze in voga, e non dis­si­mu­la­va il suo disprez­zo ver­so di essi.

Lo sti­le e la scrit­tu­ra di Trotsky
Lo sti­le di Tro­tsky è uni­ver­sal­men­te ammi­ra­to. È indub­bia­men­te con quel­lo di Marx che può meglio esse­re para­go­na­to. Tut­ta­via, le fra­si di Tro­tsky sono meno ampie di quel­le di Marx, nel­le qua­li chiun­que può ren­der­si con­to del­la ric­chez­za del­le qua­li­tà intel­let­tua­li, spe­cie nei lavo­ri gio­va­ni­li. Lo sti­le di Tro­tsky rag­giun­ge i suoi effet­ti con mez­zi estre­ma­men­te sem­pli­ci. Il suo voca­bo­la­rio, spe­cial­men­te nei suoi scrit­ti più pro­pria­men­te poli­ti­ci, è sem­pre piut­to­sto limi­ta­to. Le fra­si sono bre­vi, con poche subor­di­na­te. La loro for­za deri­va da una robu­sta arti­co­la­zio­ne, il più del­le vol­te attra­ver­so con­trap­po­si­zio­ni for­te­men­te mar­ca­te ma sem­pre ben equi­li­bra­te. Que­sta sobrie­tà di mez­zi con­fe­ri­sce al suo sti­le una gran­de fre­schez­za e, si può dire, gio­vi­nez­za. Per­ciò, la scrit­tu­ra di Tro­tsky è deci­sa­men­te più gio­va­ne di quel­la di Marx.
Tro­tsky sape­va come appro­fit­ta­re di quel­la sin­tas­si rus­sa le cui infles­sio­ni per­met­to­no di cam­bia­re l’ordine del­le paro­le in una fra­se dan­do all’espressione del pen­sie­ro una for­za e un’enfasi dif­fi­ci­li da rag­giun­ge­re con i mez­zi limi­ta­ti del­le lin­gue occi­den­ta­li moder­ne. Ma anche dif­fi­ci­li da tra­dur­re. Lev Davi­do­vič esi­ge­va dai suoi tra­dut­to­ri una fedel­tà mate­ma­ti­ca, e al con­tem­po era insof­fe­ren­te alle rego­le del­la gram­ma­ti­ca del­la lin­gua stra­nie­ra che impe­di­va­no una tra­du­zio­ne tan­to con­ci­sa e diret­ta del suo pen­sie­ro. Para­go­na­to a quel­lo di Lenin, lo sti­le di Tro­tsky è di gran lun­ga miglio­re quan­to a luci­di­tà ed ele­gan­za, sen­za alcu­na per­di­ta di poten­za espres­si­va. Le fra­si di Lenin sono di quan­do in quan­do invo­lu­te, trop­po pesan­ti, disor­ga­niz­za­te. Come se a vol­te il pen­sie­ro para­liz­zas­se la sua espres­sio­ne. Tro­tsky dis­se un gior­no che in Lenin si pote­va sco­pri­re il mugik rus­so, però ele­va­to a livel­lo di genio.
Anche se il padre di Lenin era un fun­zio­na­rio pro­vin­cia­le e quel­lo di Tro­tsky un agri­col­to­re, era Tro­tsky ad abi­ta­re in cit­tà, al con­tra­rio di Lenin, indub­bia­men­te a cau­sa del­la sua etnia. Ciò può esse­re subi­to nota­to nel­la dif­fe­ren­za di sti­li, sen­za che sia neces­sa­rio qual­sia­si altro ten­ta­ti­vo per sco­pri­re que­sta con­trap­po­si­zio­ne in altri aspet­ti di que­ste due gigan­te­sche personalità.

Da sini­stra: il depu­ta­to Anto­nio Vil­la­lo­bos, Tro­tsky, Fri­da Kahlo, Van Hei­je­noort e il colon­nel­lo José Escu­de­ro Andra­de (1937)

Quan­do Tro­tsky fu depor­ta­to in Tur­chia, sul pas­sa­por­to rila­scia­to dal­le auto­ri­tà sovie­ti­che era indi­ca­ta come sua pro­fes­sio­ne quel­la di scrit­to­re. E in real­tà, egli era un gran­de scrit­to­re, estre­ma­men­te gran­de. Se l’annotazione dei buro­cra­ti fa sor­ri­de­re, è per­ché Tro­tsky era mol­to più di uno scrit­to­re. Scri­ve­va con gran­de faci­li­tà e pote­va det­ta­re per parec­chie ore di segui­to sen­za fer­mar­si. Ma poi rive­de­va il mano­scrit­to e lo cor­reg­ge­va con gran­de atten­zio­ne. Per alcu­ne del­le sue gran­di ope­re, come la Sto­ria del­la Rivo­lu­zio­ne rus­sa, furo­no pre­pa­ra­te due boz­ze suc­ces­si­ve pri­ma del testo defi­ni­ti­vo, ma nel­la mag­gior par­te dei casi una sol­tan­to. La sua enor­me pro­du­zio­ne let­te­ra­ria – in cui si rin­ven­go­no libri, sag­gi, innu­me­re­vo­li arti­co­li, let­te­re, bre­vi comu­ni­ca­ti stam­pa e note d’ogni sor­ta – è, inu­ti­le sot­to­li­near­lo, diso­mo­ge­nea. Alcu­ne par­ti sono sta­te più ela­bo­ra­te di altre, ma nean­che una sola fra­se dei suoi scrit­ti è tra­scu­ra­ta. Basta sof­fer­mar­si su cin­que righe qual­sia­si di quest’enorme pro­du­zio­ne let­te­ra­ria per rico­no­sce­re sem­pre l’inimitabile Trotsky.
Il volu­me di que­sti scrit­ti è impres­sio­nan­te, tan­to da rap­pre­sen­ta­re, da solo, la testi­mo­nian­za d’una assai rara volon­tà e capa­ci­tà di lavo­ro. Le ope­re com­ple­te di Lenin sono sta­te rac­col­te in tren­ta volu­mi, oltre a cin­que volu­mi di cor­ri­spon­den­za e note diver­se. Tro­tsky ha vis­su­to set­te anni più di Lenin, ma i suoi scrit­ti, dai suoi libri più volu­mi­no­si fino alle sue bre­vi note per­so­na­li, arri­ve­reb­be­ro cer­ta­men­te al tri­plo. Negli undi­ci anni e mez­zo del­la sua ter­za emi­gra­zio­ne ha accu­mu­la­to un lavo­ro tale da riem­pi­re ono­re­vol­men­te un’intera vita. Si può dire che la pen­na non ha mai abban­do­na­to la sua mano, e che mano è stata!

Vive nei suoi scritti
Tro­tsky ha mes­so tut­to se stes­so nei suoi scrit­ti. Il rap­por­to per­so­na­le con l’uomo non modi­fi­ca­va l’immagine che emer­ge­va dai suoi testi, anzi l’approfondiva e la ren­de­va più pre­ci­sa: pas­sio­ne e ragio­ne, intel­li­gen­za e volon­tà, tut­te por­ta­te a un gra­do estre­mo, ma al con­tem­po fuse tra loro. In ogni azio­ne di Lev Davi­do­vič si pote­va per­ce­pi­re che egli met­te­va tut­to se stes­so. Ripe­te­va spes­so le paro­le di Hegel: «In que­sto mon­do nul­la di gran­de è sta­to fat­to sen­za pas­sio­ne»; e non nutri­va altro che disprez­zo per i fili­stei che si oppo­ne­va­no al “fana­ti­smo” dei rivo­lu­zio­na­ri. Ma l’intelligenza era sem­pre pre­sen­te, in mira­co­lo­sa armo­nia con la pas­sio­ne. Inim­ma­gi­na­bi­le pen­sa­re di sco­pri­re in ciò un con­flit­to: la volon­tà era indo­ma­bi­le per­ché lo spi­ri­to vede­va mol­to lon­ta­no. Si potreb­be cita­re anco­ra una vol­ta Hegel: «Der Wil­le ist eine beson­de­re Wei­se des Den­kens». La volon­tà è una fun­zio­ne spe­ci­fi­ca del pensiero.

(Tra­du­zio­ne di Vale­rio Torre)