Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Lotta di classe

Violenze poliziesche. “Ti stupriamo, veniamo a casa tua, veniamo alla Sorbona a sterminare te e i tuoi colleghi”

parigi

Pub­bli­chia­mo, dal vivo del­le pro­te­ste in Fran­cia con­tro la leg­ge Khom­ri (l’equivalente del nostra­no Jobs Act), que­sta inte­res­san­te e impor­tan­te testi­mo­nian­za — ripre­sa dal sito DinamoPress.it — sul­la ten­den­za di tut­ti gli Sta­ti a tra­sfor­ma­re i regi­mi demo­cra­ti­co-bor­ghe­si in regi­mi via via più rea­zio­na­ri, fino alla soglia di veri e pro­pri Sta­ti di poli­zia, nel momen­to in cui le mas­se popo­la­ri ten­do­no ad oppor­si all’applicazione del­le con­tro­ri­for­me neces­sa­rie al capi­ta­li­smo per far fron­te alla cri­si eco­no­mi­ca che accen­tua la cadu­ta del sag­gio di profitto.

Violenze poliziesche. “Ti stupriamo, veniamo a casa tua, veniamo alla Sorbona a sterminare te e i tuoi colleghi”

di Ita­lia­ni a Parigi

Pub­bli­ca­to Lune­dì, 26 Set­tem­bre 2016 12:00, sul sito DinamoPress.it

 

In Fran­cia vige anco­ra il regi­me di état d’urgence e que­sto vuol dire che la poli­zia ha il pie­no pote­re di fare ciò che vuo­le. Soprat­tut­to in ban­lieu, dove le vio­len­ze nei con­fron­ti di chi non è bian­co e fran­ce­se da tre gene­ra­zio­ni avven­go­no tut­ti i gior­ni con l’avallo del­le istituzioni.
Pro­po­nia­mo que­sta tra­du­zio­ne di un arti­co­lo mol­to duro usci­to su diver­si siti e social media fran­ce­si. Cre­dia­mo che la vio­len­za poli­zie­sca di cui par­la sia oggi “nor­ma­le” in Fran­cia, in par­ti­co­lar modo ver­so le per­so­ne raz­zia­liz­za­te, e che la deri­va auto­ri­ta­ria sem­pre più evi­den­te non abbia biso­gno del Front Natio­nal per affer­mar­si, ma anzi sia del tut­to effi­cien­te gra­zie al roda­to siste­ma di pote­re del Par­ti­to Socia­li­sta.

Usci­vo da una sta­zio­ne del­la ban­lieue con un’amica, a fine gior­na­ta. Sul pun­to di pas­sa­re i tor­nel­li, sen­tia­mo del­le urla. Non un gri­do nor­ma­le, un gri­do di dolo­re, inten­so. Capia­mo imme­dia­ta­men­te che sta suc­ce­den­do qual­co­sa. L’attenzione nostra e del­la gen­te che ci sta attor­no è atti­ra­ta da una sce­na che si svol­ge alla nostra sini­stra. Una don­na nera di una cin­quan­ti­na d’anni è amma­net­ta­ta, e urla che le manet­te le taglia­no i pol­si, che non ne può più. Tra lei e il pic­co­lo capan­nel­lo di per­so­ne che si è for­ma­to, una tren­ti­na di poli­ziot­ti equi­pag­gia­ti, con un cane d’assalto. C’è la sicu­rez­za fer­ro­via­ria e la poli­zia nazionale.
Le per­so­ne sono inquie­te, l’atmosfera tesa, tut­ti doman­da­no cosa stia suc­ce­den­do e per­ché que­sta don­na vie­ne tor­tu­ra­ta nel mez­zo del­la stra­da. La sce­na col­pi­sce, ricor­da quel­la che è segui­ta all’assassinio di Ada­ma, ricor­da le imma­gi­ni del­le mobi­li­ta­zio­ni negli Sta­ti Uni­ti: una fila di poli­ziot­ti, di fron­te a un’altra fila di abi­tan­ti neri del­la cit­tà. Que­sti ulti­mi sono bian­chi e com­ple­ta­men­te dif­fi­den­ti. Un uomo rac­con­ta come suo fra­tel­lo fos­se sta­to fer­ma­to sen­za ragio­ne, pre­so in custo­dia e mal­me­na­to. La poli­zia ci dice di “levar­ci di torno”.
Ave­vo pau­ra. Per la vit­ti­ma del fer­mo, per que­sta sce­na raz­zi­sta. Mi sem­bra­va che la poli­zia potes­se anda­re fuo­ri con­trol­lo in qual­sia­si istan­te. Ho pre­so il tele­fo­no per fil­ma­re la sce­na, dicen­do­mi che que­sto avreb­be potu­to con­te­ne­re la situa­zio­ne, far scen­de­re il livel­lo di impu­ni­tà. Ma non è dura­to che un minu­to. Uno dei poli­ziot­ti mi pren­de per la spal­la sini­stra e mi fa gira­re: “A que­sto fac­cia­mo un con­trol­lo di iden­ti­tà”. Doman­do per­ché, mi strap­pa il tele­fo­no. Gli dico che non ha il dirit­to di con­sul­tar­lo sen­za un man­da­to di perquisizione.
Tut­to acce­le­ra: appe­na rie­sco­no a tirar­mi dal loro lato del cor­do­ne for­ma­to dagli altri sbir­ri, si met­to­no in due sopra di me, ognu­no tor­cen­do­mi un brac­cio. Un dolo­re enor­me mi attra­ver­sa le arti­co­la­zio­ni. Ho le due brac­cia tor­te con­tro la schie­na, con que­sti due uomi­ni mes­si in posi­zio­ne stra­te­gi­ca, a pre­me­re con tut­ta la loro for­za per schiac­ciar­mi con­tro il muro. A più ripre­se, mi libe­ra­no appe­na e poi mi spin­go­no di nuo­vo, per far­mi sbat­te­re con­tro la pare­te. All’inizio, ho pen­sa­to che si trat­tas­se giu­sto di inti­mi­dir­mi e tener­mi buo­no. Ma non mol­la­no. Ho il fia­to cor­to e non pro­te­sto più, mi dico­no che mi rin­chiu­de­ran­no per “oltrag­gio” o “resi­sten­za”, e cer­ca­no di crea­re accu­se dal nulla.
Il peg­gio in real­tà non è il dolo­re. I due poli­ziot­ti che mi stan­no addos­so sono sovraec­ci­ta­ti. E si lascia­no anda­re. Cra­ni rasa­ti, occhi che bril­la­no, fac­cio fati­ca a cre­de­re che la situa­zio­ne sia rea­le. “Ti ammaz­zia­mo, sei mor­to, ti disfia­mo, ti distrug­go qui sul posto in die­ci minu­ti”. E man mano le car­ti­la­gi­ni si tira­no sot­to la loro pre­sa, mi spin­go­no le mani sul­la schie­na, e fan­no aumen­ta­re la tor­sio­ne. La guar­dia che sta alla mia sini­stra mi met­te la mano sul sede­re. “Cre­de­vi di gio­ca­re con la poli­zia? Guar­da come gio­chia­mo noi con te”. E mi sfer­ra un pri­mo cal­cio. Poi mi rimet­te la mano sul sede­re. Con le brac­cia mes­se così, non pos­so respi­ra­re nor­mal­men­te. Un altro cal­cio. “Ti vio­len­tia­mo, ti pia­ce l’idea? Ti stu­pro e vedia­mo quan­ta voglia ti rima­ne di fil­ma­re la polizia”.
E con­ti­nua. “Sostie­ni Daesh, è così?” “Quan­do arri­ve­ran­no tu cosa farai? Glie­lo suc­chi?” “A quel pun­to non ci sarà da pian­ge­re ma da chie­de­re che ti si pro­teg­ga”. Ho rea­liz­za­to solo in un secon­do momen­to, che par­la­va­no di Daesh per giu­sti­fi­ca­re il loro com­por­ta­men­to ver­so una don­na raz­zia­liz­za­ta, che ave­va dimen­ti­ca­to il pro­prio abbo­na­men­to metro.
Mi apro­no lo zai­no e mi pren­do­no il por­ta­fo­gli, me lo svuo­ta­no sul­la schie­na. Mi pren­do­no le siga­ret­te, e mi dico­no di seder­mi­ci sopra. Tro­va­no la mia car­ta di inse­gnan­te uni­ver­si­ta­rio pre­ca­rio. “Sei pro­fes­so­re? Quan­do lo Sta­to Isla­mi­co ver­rà alla Sor­bo­na, li sta­rai a guar­da­re men­tre ti fai una sega?” E la guar­dia a sini­stra: “Guar­da­mi, spor­co fro­cio. Put­ta­na. Abi­ti lì eh? (indi­ca il mio palaz­zo). Ven­go da te, con un pas­sa­mon­ta­gna, e ti stu­pro”. Sono com­ple­ta­men­te scioc­ca­to, pen­so abbia ripe­tu­to le stes­se minac­ce una ven­ti­na di vol­te in tut­to. Sto aven­do a che fare con del­le guar­die poli­ti­ciz­za­te, del­le guar­die del­lo sta­to d’emergenza per­ma­nen­te, che si sen­to­no in guer­ra con­tro Daesh, un Daesh che asso­cia­no a qual­sia­si per­so­na raz­zia­liz­za­ta, un Daesh con cui io mi sarei allea­to nel momen­to in cui ho soli­da­riz­za­to con la loro vit­ti­ma giornaliera.
Rin­ca­ra­no anco­ra un po’ la dose. “Ora ti fac­cia­mo un po’ pro­va­re il taser, vedi un po’ come piz­zi­ca”. E sem­pre la guar­dia di sini­stra, mi dà una sca­ri­ca nel brac­cio. Sob­bal­zo, e mi met­to a tre­ma­re. Cer­co di non mostrar­lo, non dico nul­la, ma il pen­sie­ro che mi vie­ne in quel momen­to è che la situa­zio­ne rischia di anda­re ulte­rior­men­te fuo­ri con­trol­lo. Che mi tor­ce­ran­no anco­ra il brac­cio, o che mi col­pi­ran­no col ton­fa pri­ma di cari­car­mi e por­tar­mi via. “Tu muo­ri”. “Ti incu­lo”. Paro­le sem­pre segui­te da pal­pa­te. E il male nel­le brac­cia, nel­le spal­le, nel­la schie­na è così for­te che mi dico che mi devo pre­pa­ra­re men­tal­men­te a una frattura.
Die­tro, sen­to la mia ami­ca che urla, che gli dice di lasciar­mi anda­re. Vor­rei dir­le di lasciar per­de­re. Ho il peso sul­lo sto­ma­co di cosa le potreb­be­ro fare se la fer­ma­no. Ma nel frat­tem­po il capan­nel­lo di gen­te è for­se aumen­ta­to, e il grup­po di poli­ziot­ti sa di non poter far dura­re la situa­zio­ne per sem­pre. La guar­dia che mi tor­ce il brac­cio destro mi dice: “Biso­gna che pren­dia­mo la tizia, la accu­sia­mo di resistenza”.
Sen­to che discu­to­no tra loro. Uno dei due uomi­ni mi mol­la il brac­cio e mi dice: “Guar­da il muro. Se ti giri, se ti muo­vi, ti apro il cra­nio”. Non mi muo­vo. “Ver­re­mo alla Sor­bo­na, ster­mi­nia­mo te e i tuoi col­le­ghi, spor­co sini­stroi­de”. Poi mi gira­no e mi tro­vo davan­ti gli occhi spor­gen­ti del­la guar­dia che mi tene­va il brac­cio sini­stro. “Sei a con­trat­to, bastar­do? Ti fac­cia­mo un rap­por­to pesan­te, la tua posi­zio­ne te la puoi infi­la­re nel culo”. Non dico nien­te. Mi pre­mo­no sul pet­to. “Ora sbloc­chi il tele­fo­no e can­cel­li il video”. Ese­guo, dicen­do­mi che è nel­la testa e non in que­ste imma­gi­ni fer­me di un assem­bra­men­to, che è inci­so quel­lo che è appe­na suc­ces­so. Mi strap­pa il tele­fo­no, apre la car­tel­la del­le foto, e ini­zia a guar­da­re tutto.
Poi di col­po, il resto del loro grup­po cari­ca gli abi­tan­ti che si era­no rag­grup­pa­ti. Rapi­di ed estre­ma­men­te vio­len­ti. Vedo i loro cani che si lan­cia­no sul­le per­so­ne, le guar­die con lo spray e i man­ga­nel­li. Tutt* scap­pa­no, in pani­co, com­pre­se le per­so­ne anzia­ne. Le due guar­die che mi han­no aggre­di­to mi lan­cia­no il por­ta­fo­glio e il suo con­te­nu­to, e par­to­no cor­ren­do. Ho pau­ra per la mia ami­ca, non la vedo. Ma final­men­te noto che sta tor­nan­do ver­so di me, è riu­sci­ta a scap­pa­re. Non c’è altro da fare che tor­na­re a casa, la rab­bia che man­gia lo sto­ma­co, il tor­so anchi­lo­sa­to e dolo­ran­te. Mi dico che que­sta poli­zia raz­zi­sta si sareb­be spin­ta mol­to oltre se fos­si sta­to una per­so­na raz­zia­liz­za­ta. Un uomo ci spie­ga che è così in tut­ta la cit­tà da que­sta mat­ti­na. “Vede­te non ci si fa nul­la, mole­sta­no la gen­te a caso per far nasce­re dei pro­ble­mi”. Ci con­for­tia­mo a vicen­da, augu­ran­do­ci buo­na for­tu­na. Ce ne sarà biso­gno, ma non ne sia­mo cer­to privi.

Ritor­nan­do a casa, ho pen­sa­to al pez­zo di D’ de Kabal, che rac­con­ta esat­ta­men­te la stes­sa scena.