Si chiama Soumaila la nostra lotta
Soumaila aveva 29 anni, era un lavoratore, uno schiavo salariato nella campagne di Gioia Tauro per la raccolta di arance, era un sindacalista, lottava per i diritti dei braccianti come lui, è stato ammazzato con un colpo di fucile da una distanza di 60 metri mentre era intento a raccogliere lamiere da una fabbrica abbandonata per allestire la sua baracca nel campo di San Ferdinando dove sono ammassati 4000 lavoratori immigrati.
Siamo nell’Italia del 2018, di terze repubbliche e governi del cambiamento, ma non siamo affatto lontani dal 1842 quando Marx sulla Gazzetta Renana scriveva contro la legge che aveva introdotto il furto della legna abbandonata nei boschi, raccolta dai diseredati di quel tempo per riscaldare le abitazioni o racimolare qualche spicciolo. Solo che oggi non c’è (ancora) una legge dello Stato che vieta la raccolta di lamiere, i padroni e gli sgherri mafiosi assoldati risolvono da soli il conto con i loro schiavi salariati. A colpi di fucile.
Da quando esiste la società fondata sullo sfruttamento del lavoro la storia è sempre la stessa, chi ha bisogno si vende per avere un lavoro in cambio della possibilità di poter accedere ai mezzi necessari per la propria sopravvivenza, sfamarsi, vestirsi, raccogliere lamiere per costruirsi una casa. I padroni questo ci lasciano, il diritto di raccogliere lamiere per le nostre baracche. Agli immigrati, collocati poco al di sopra degli animali e al di sotto di qualsiasi altra merce nella catena dello sfruttamento, neanche più quello. Ma l’obiettivo dei padroni non sono solo gli immigrati, oggi colpiscono loro che sono la parte più debole del proletariato per assestare un colpo a tutta la classe. La schiena di Soumaila, spezzata da un proiettile, è la stessa che tutti i proletari, di qualsiasi paese, si spezzano mentre servono il loro padrone o caporale. Per avere un salario, per sfamare la famiglia, per vestirsi, per una casa.
I padroni dichiarano guerra non a un singolo proletario, ma all’insieme dei proletari, perché le loro sorti dipendono dalla comune condizione di subordinazione e ricatto a cui tutti i proletari sono costretti. A noi non resta che organizzarci per dichiarare guerra ai padroni. La logica è tagliente quanto spietata: o c’è la dittatura del profitto capitalistico e dei padroni o sarà dittatura proletaria per espungere dalla società lo sfruttamento delle classi.
Il nuovo ministro dell’interno Salvini si è già complimentato con il democratico Minniti, continuerà sul solco già aperto dal suo predecessore. A riprova che la fascistizzazione della società non è una regressione della forma democratica, è soltanto la sua inevitabile evoluzione ed è già inscritta dentro il perimetro dello Stato democratico borghese. Il sindacato USB, con cui Soumaila lottava, ha dichiarato lo sciopero del bracciantato agricolo. Ma quando muore un lavoratore tutte le categorie dovrebbero fermarsi, non c’è operaio che non debba riconoscersi nella condizione di vita di Soumaila. Non c’è operaio che non debba sollevarsi quando un suo fratello, uno dello sua stessa classe, muore di lavoro, muore per il lavoro. Grottesco il silenzio delle altre sigle sindacali, nessuna delle quali dichiarerà un minuto di sciopero, come se il fatto non interessasse loro, perché Soumaila non era “uno di loro”. Questa concorrenza tra bande sindacali è il miglior lubrificante per i fucili dei padroni.
Come proletari non abbiamo altra scelta. I padroni ci ammazzano, i sindacati ci dividono. O saltiamo il fosso da soli, facendo fronte unito, coalizzandoci sui nostri interessi di classe, o il fosso che preparano i padroni sarà sempre abbastanza capiente per contenerci tutti.
Soumaila vive nel cuore di chi lotta.