Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Carlo Cafiero — Compendio del Capitale

COMPENDIO DEL CAPITALE

Il Capi­ta­le di Car­lo Marx bre­ve­men­te com­pen­dia­to da Car­lo Cafiero

Car­lo Cafiero

L’operaio ha fat­to tutto;
e l’operaio può distrug­ge­re tutto,
per­ché può tut­to rifare.
(Un lavo­ra­to­re italiano)

 

CAPITOLO I

MERCE, MONETA, RICCHEZZA E CAPITALE

La mer­ce è un ogget­to che ha un dop­pio valo­re: valo­re di uso e valo­re di scam­bio, o valo­re pro­pria­men­te det­to. Se pos­seg­go, per esem­pio, 20 chi­li di caf­fè, io pos­so, sia con­su­mar­li per mio pro­prio uso, sia scam­biar­li con 20 metri di tela, o con un abi­to, o con 250 gram­mi di argen­to, se, inve­ce di caf­fè, ho biso­gno di una di que­ste tre mer­ci. Il valo­re di uso del­la mer­ce è basa­to sul­le qua­li­tà pro­prie del­la mer­ce stes­sa, la qua­le è, da quel­le sue qua­li­tà, desti­na­ta a sod­di­sfa­re il tale, e non il tal altro biso­gno nostro. Il valo­re d’u­so dei 20 chi­li di caf­fè è basa­to sul­le qua­li­tà che il caf­fè pos­sie­de; le qua­li qua­li­tà sono tali, che lo ren­do­no atto a dar­ci quel­la bevan­da nota a tut­ti, ma non lo ren­do­no capa­ce a vestir­ci, né a ser­vir­ci di mate­ria per una cami­cia. È per­ciò che noi pos­sia­mo pro­fit­ta­re del valo­re d’u­so dei 20 chi­li di caf­fè, sola­men­te se sen­tia­mo biso­gno di bere il caf­fè; ma se inve­ce sen­tia­mo il biso­gno di una cami­cia, o di vesti­re un abi­to del valo­re d’u­so dei 20 chi­li di caf­fè, non sap­pia­mo che far­ne; o, per meglio dire, non saprem­mo che far­ne, se accan­to al valo­re d’u­so, non vi fos­se, nel­la mer­ce, il valo­re di scam­bio. Noi infat­ti tro­via­mo un altro che pos­sie­de un abi­to, ma che non ne ha biso­gno, ed ha biso­gno inve­ce di caf­fè. Allo­ra si fa subi­to uno scam­bio. Noi gli dia­mo i 20 chi­li di caf­fè ed egli ci dà l’a­bi­to. Ma suc­ce­de che le mer­ci, men­tre dif­fe­ri­sco­no tut­te fra loro per le loro qua­li­tà diver­se, cioè per il loro valo­re di uso, si pos­sa­no poi tut­te scam­bia­re fra di loro in date pro­por­zio­ni? Noi lo abbia­mo già det­to. Per­ché, accan­to al valo­re di uso, tro­va­si nel­la mer­ce il valo­re di scam­bio. Ora, la base del valo­re di scam­bio, o valo­re pro­pria­men­te det­to, è il lavo­ro uma­no richie­sto per la pro­du­zio­ne. La mer­ce è pro­crea­ta dal lavo­ra­to­re; il lavo­ro uma­no è la sostan­za gene­ra­ti­va che le dà l’e­si­sten­za. Tut­te le mer­ci adun­que, ben­ché diver­se fra loro per le qua­li­tà, sono per­fet­ta­men­te simi­li nel­la sostan­za, per­ché, figlie di un mede­si­mo padre, han­no tut­te il mede­si­mo san­gue nel­le loro vene. Se 20 chi­li di caf­fè si scam­bia­no con un abi­to, o con 20 metri di tela, egli è appun­to per­ché per pro­dur­re 20 chi­li di caf­fè ci vuo­le tan­to lavo­ro uma­no, quan­to ce ne vuo­le per pro­dur­re un abi­to, o 20 metri di tela. La sostan­za dun­que del valo­re è il lavo­ro uma­no, e la gran­dez­za del valo­re è deter­mi­na­ta dal­la gran­dez­za del­lo stes­so lavo­ro uma­no. La sostan­za del valo­re è la stes­sa in tut­te le mer­ci; dun­que non resta che egua­gliar­ne la gran­dez­za, per­ché le mer­ci sia­no, come espres­sio­ne di valo­re, tut­te ugua­li fra loro, tut­te scam­bia­bi­li cioè l’u­na con l’al­tra. La gran­dez­za del valo­re dipen­de dal­la gran­dez­za del lavo­ro; in 12 ore di lavo­ro si pro­du­ce un valo­re dop­pio di quel­lo che si pro­du­ce in sei ore sola­men­te. Dun­que, direb­be alcu­no, più un ope­ra­io è lun­go a lavo­ra­re, per ina­bi­li­tà o per pigri­zia, più valo­re pro­du­ce. Nien­te di più fal­so. Il lavo­ro, che for­ma la sostan­za del valo­re, non è il lavo­ro di Pie­tro o di Pao­lo, ma un lavo­ro medio, che è sem­pre ugua­le, e che è det­to pro­pria­men­te lavo­ro socia­le. Esso è quel lavo­ro, che, in un dato cen­tro di pro­du­zio­ne, può far­si in media da un ope­ra­io, il qua­le lavo­ri con una media abi­li­tà ed una media inten­si­tà. Cono­sciu­to il dop­pio carat­te­re del­la mer­ce, di esse­re, cioè, un valo­re di uso e un valo­re di scam­bio, si com­pren­de­rà che la mer­ce può nasce­re sola­men­te per ope­ra del lavo­ro, e di un lavo­ro uti­le a tut­ti. L’a­ria per esem­pio, le pra­te­rie natu­ra­li, la ter­ra ver­gi­ne ecc. sono uti­li all’uo­mo, ma non costi­tui­sco­no per lui alcun valo­re, per­ché non sono il pro­dot­to del suo lavo­ro e, per con­se­guen­za, non sono mer­ci. Noi pos­sia­mo fab­bri­car­ci ogget­ti per i nostri pro­pri usi, ma che non pos­so­no esse­re uti­li per gli altri; in tal caso non pro­du­cia­mo mer­ci; come ancor meno ne pro­du­cia­mo quan­do lavo­ria­mo intor­no ad ogget­ti, che non han­no alcu­na uti­li­tà né per noi né per gli altri. Le mer­ci, dun­que, si scam­bia­no tra loro; l’u­na, cioè, si pre­sen­ta come l’e­qui­va­len­te del­l’al­tra. Per la mag­gio­re como­di­tà degli scam­bi si comin­cia a ser­vir­si sem­pre di una data mer­ce come equi­va­len­te; la qua­le esce così dal ran­go di tut­te le altre, per met­ter­si di fron­te ad esse qua­le equi­va­len­te gene­ra­le, cioè mone­ta. La mone­ta per­ciò è quel­la mer­ce che, per la con­sue­tu­di­ne e per la san­zio­ne lega­le, ha mono­po­liz­za­to il posto di equi­va­len­te gene­ra­le. Così è avve­nu­to da noi per l’ar­gen­to. Men­tre pri­ma 20 chi­li di caf­fè, un abi­to, 20 metri di tela e 250 gram­mi di argen­to era­no quat­tro mer­ci, che si scam­bia­va­no indi­stin­ta­men­te fra loro, oggi inve­ce si ha che 20 chi­li di caf­fè, 20 metri di tela ed un abi­to sono tre mer­ci, che val­go­no 250 gram­mi di argen­to, cioè 50 lire. Però, sia che lo scam­bio si fac­cia imme­dia­ta­men­te da mer­ce a mer­ce, sia che lo scam­bio si fac­cia median­te la mone­ta, la leg­ge degli scam­bi resta sem­pre la stes­sa. Una mer­ce non si può mai scam­bia­re con un’al­tra, se il lavo­ro che ci vuo­le per pro­dur­re l’u­na non è ugua­le al lavo­ro che ci vuo­le per pro­dur­re l’al­tra. Que­sta leg­ge biso­gna tener­la bene in men­te, per­ché sopra di essa è fon­da­to tut­to ciò che ver­re­mo a dire in segui­to. Venu­ta la mone­ta, gli scam­bi diret­ti od imme­dia­ti, da mer­ce a mer­ce, fini­sco­no. Gli scam­bi devo­no far­si tut­ti, d’o­ra in poi, median­te la mone­ta; dimo­do­ché una mer­ce che voglia tra­sfor­mar­si in un’al­tra, deve, pri­ma, da mer­ce tra­sfor­mar­si in mone­ta, poi da mone­ta ritra­sfor­mar­si in mer­ce. La for­mu­la degli scam­bi, dun­que, non sarà più una cate­na di mer­ci, ma una cate­na di mer­ci e mone­ta. Ecco­la: Mer­ce-Mone­ta-Mer­ce-Mone­ta-Mer­ce-Mone­ta. Ora, se in que­sta for­mu­la tro­via­mo indi­ca­ti i giri che fa la mer­ce, nel­le sue suc­ces­si­ve tra­sfor­ma­zio­ni, tro­via­mo egual­men­te segna­ti i giri del­la mone­ta. È da que­sta stes­sa for­mu­la dun­que che rica­ve­re­mo la for­mu­la del capi­ta­le. Quan­do noi ci tro­via­mo in pos­ses­so di un cer­to cumu­lo di mer­ci, o di mone­ta, che è la stes­sa cosa, noi sia­mo pos­ses­so­ri di una cer­ta ric­chez­za. Se noi a que­sta ric­chez­za pos­sia­mo far pren­de­re un cor­po, cioè un orga­ni­smo capa­ce di svi­lup­par­si, avre­mo un capi­ta­le. Pren­de­re un cor­po, od un orga­ni­smo capa­ce di svi­lup­par­si, vuol dire nasce­re e cre­sce­re; e infat­ti l’es­sen­za del capi­ta­le è ripo­sta appun­to nel­la natu­ra pos­si­bil­men­te pro­li­fi­ca del­la mone­ta. La riso­lu­zio­ne del pro­ble­ma (tro­va­re il modo di far nasce­re il capi­ta­le) è con­te­nu­ta nel­la riso­lu­zio­ne del­l’al­tro pro­ble­ma: tro­va­re il modo di far aumen­ta­re il dana­ro pro­gres­si­va­men­te. Nel­la for­mu­la, che segna i giri del­le mer­ci e del­la mone­ta, aggiun­gia­mo, al ter­mi­ne mone­ta, un segno di aumen­to pro­gres­si­vo indi­can­do­lo, per esem­pio, con un nume­ro e avre­mo: Mone­ta-Mer­ce-Mone­ta1-Mer­ce-Mone­ta2-Mer­ce-Mone­ta3 Ecco la for­mu­la del capitale.

CAPITOLO II

COME NASCE IL CAPITALE

Esa­mi­nan­do atten­ta­men­te la for­mu­la del capi­ta­le, rile­va che in ulti­ma ana­li­si la que­stio­ne del­la nasci­ta del capi­ta­le si risol­ve nel­l’al­tra que­stio­ne seguen­te: tro­va­re una mer­ce che ci dia più di quan­to ci è costa­ta; tro­va­re una mer­ce la qua­le, nel­le nostre mani, pos­sa cre­sce­re di valo­re, dimo­do­ché, ven­den­do­la, noi venis­si­mo a pren­de­re più dena­ro di quan­to ne spen­dem­mo per com­prar­la. Deve esse­re insom­ma una mer­ce ela­sti­ca che, nel­le nostre mani, sti­ra­ta alquan­to, pos­sa ingran­di­re il volu­me del suo valo­re. Que­sta mer­ce tan­to sin­go­la­re esi­ste dav­ve­ro e si chia­ma poten­za del lavo­ro, o for­za del lavoro.

Ecco l’uo­mo del dena­ro, l’uo­mo che pos­sie­de un cumu­lo di ric­chez­za, dal­la qua­le vuol far par­to­ri­re un capi­ta­le. Egli vie­ne sul mer­ca­to, in cer­ca appun­to di for­za di lavo­ro. Seguia­mo­lo. Egli gira per il mer­ca­to, ed incon­tra il pro­le­ta­rio, venu­to­vi appun­to per ven­de­re la sua uni­ca mer­ce, la for­za del lavo­ro. Il pro­le­ta­rio però non ven­de la sua for­za di lavo­ro in bloc­co, non la ven­de tut­ta, ma sola­men­te in par­te, per un dato tem­po, cioè per un gior­no, per una set­ti­ma­na, per un mese, ecc. Se egli la ven­des­se inte­ra­men­te, allo­ra, da mer­can­te, diven­te­reb­be egli stes­so una mer­ce; non sareb­be più il sala­ria­to, ma lo schia­vo del suo padrone.

Il prez­zo del­la for­za del lavo­ro si cal­co­la nel modo seguen­te. Si pren­da il prez­zo dei vive­ri, abi­ti, abi­ta­zio­ne e di quan­to altro occor­re in un anno al lavo­ra­to­re per man­te­ne­re la sua for­za di lavo­ro, sem­pre nel suo sta­to nor­ma­le; si aggiun­ga, a que­sta pri­ma som­ma, il prez­zo di quan­to occor­re in un anno al lavo­ra­to­re per pro­crea­re, alle­va­re ed edu­ca­re, secon­do la sua con­di­zio­ne, i suoi figli; si divi­da il tota­le per 365, quan­ti sono i gior­ni del­l’an­no, e si avrà quan­to, cia­scun gior­no, si richie­de per man­te­ne­re la for­za del lavo­ro, il suo prez­zo gior­na­lie­ro, che è il sala­rio gior­na­lie­ro del lavoratore.

Se fa par­te di que­sto cal­co­lo anche ciò che occor­re al lavo­ra­to­re per pro­crea­re, alle­va­re ed edu­ca­re i suoi figli, è per­ché que­sti sono la con­ti­nua­zio­ne del­la sua for­za lavo­ro. Se il pro­le­ta­rio ven­des­se non in par­te ma in tut­to la sua for­za lavo­ro, allo­ra, dive­nu­to egli stes­so una mer­ce, cioè schia­vo del suo padro­ne, i figli che egli pro­cree­reb­be sareb­be­ro ezian­dio una mer­ce, cioè schia­vi, al pari di lui, del suo padro­ne; ma, alie­nan­do il pro­le­ta­rio sola­men­te una par­te del­la sua for­za lavo­ro, egli ha dirit­to a con­ser­va­re tut­to il resto, che si tro­va par­te in lui e par­te nei suoi figli.

Con que­sto cal­co­lo noi otte­nia­mo l’e­sat­to prez­zo del­la for­za lavo­ro. La leg­ge degli scam­bi, espo­sta nel pre­ce­den­te capi­to­lo, dice che una mer­ce non si può scam­bia­re che con un’al­tra del suo stes­so valo­re, cioè che una mer­ce non si può scam­bia­re con un’al­tra se il lavo­ro che ci vuo­le per pro­dur­re l’u­na non è ugua­le al lavo­ro che ci vuo­le per pro­dur­re l’al­tra. Ora, il lavo­ro che ci vuo­le per pro­dur­re la for­za lavo­ro è ugua­le al lavo­ro che ci vuo­le per pro­dur­re le cose neces­sa­rie al lavo­ra­to­re, e per con­se­guen­za il valo­re del­le cose neces­sa­rie al lavo­ra­to­re è ugua­le al valo­re del­la sua for­za lavo­ro. Se dun­que il lavo­ra­to­re ha biso­gno di 3 lire al gior­no per tut­te le cose che gli sono neces­sa­rie, è chia­ro che 3 lire sarà il prez­zo del­la sua for­za lavo­ro per una giornata.

Ora sup­po­nia­mo — e il sup­po­sto in nul­la ci nuo­ce — che il sala­rio gior­na­lie­ro di un ope­ra­io, ricer­ca­to nel modo testé espo­sto, ammon­ti a 3 lire. Sup­po­nia­mo ezian­dio che, in 6 ore di lavo­ro, si pos­sa­no pro­dur­re 15 gram­mi d’ar­gen­to, il cui equi­va­len­te è 3 lire. L’uo­mo del dena­ro ha intan­to stret­to il con­trat­to col pro­le­ta­rio, pagan­do­gli la sua for­za lavo­ro al suo giu­sto prez­zo di 3 lire al gior­no. Egli è un bor­ghe­se per­fet­ta­men­te one­sto ed anche reli­gio­so, per cui si guar­de­reb­be bene di defrau­da­re la mer­ce­de all’o­pe­ra­io. Né si potrà fare l’ap­pun­to che il sala­rio vie­ne paga­to all’o­pe­ra­io alla fine del­la gior­na­ta o del­la set­ti­ma­na, cioè dopo che egli ha già pro­dot­to il suo lavo­ro; per­ché que­sto è quan­to si pra­ti­ca anche con altre mer­ci, il cui valo­re si rea­liz­za nel­l’u­so, come è per esem­pio il fit­to di una casa, o di un pode­re, il cui prez­zo si può paga­re allo spi­ra­re del termine.

Tre sono gli ele­men­ti del pro­ces­so del lavo­ro: 1° for­za del lavo­ro, 2° mate­ria del lavo­ro e 3 mez­zo del lavo­ro. Il nostro uomo del dena­ro, dopo la for­za del lavo­ro, ha com­pra­to sul mer­ca­to anche la mate­ria del lavo­ro, cioè bam­ba­gia; il mez­zo di lavo­ro, cioè l’o­pi­fi­cio con tut­ti gli stru­men­ti, è bel­lo e pron­to; e, per con­se­guen­za, altro non gli resta a fare che met­ter­si la via fra le gam­be per dare tosto prin­ci­pio all’opera.

“Una cer­ta tra­sfor­ma­zio­ne ci sem­bra esser­si ope­ra­ta nel­la fisio­no­mia dei per­so­nag­gi del nostro dram­ma. L’uo­mo del dena­ro pren­de la pre­ce­den­za e, in qua­li­tà di capi­ta­li­sta, cam­mi­na per il pri­mo; il pos­ses­so­re del­la for­za lavo­ro gli tien die­tro, come lavo­ra­to­re che gli appar­tie­ne; que­gli, dal­lo sguar­do fur­bo e dal­l’a­spet­to alte­ro e affac­cen­da­to; que­sti, timi­do, esi­tan­te, restìo, come chi, aven­do por­ta­ta la sua pro­pria pel­le al mer­ca­to, non può aspet­tar­si ormai che una sola cosa: esse­re con­cia­to” (K. Marx).

I nostri due per­so­nag­gi giun­go­no all’o­pi­fi­cio, dove il padro­ne si affret­ta a met­te­re il suo ope­ra­io al lavo­ro, con­se­gnan­do­gli 10 chi­li di bam­ba­gia, essen­do que­sti un fila­to­re di cotone.

Il lavo­ro si risol­ve in un con­su­mo degli ele­men­ti che lo com­pon­go­no; con­su­mo di for­za lavo­ro, con­su­mo del­la mate­ria del lavo­ro e con­su­mo dei mez­zi del lavo­ro. Il con­su­mo dei mez­zi del lavo­ro si cal­co­la nel seguen­te modo. Dal­la som­ma del valo­re di tut­ti i mez­zi del lavo­ro, fab­bri­ca­to, istru­men­ti calo­ri­fe­ri, car­bo­ne, ecc., si sot­trag­ga la som­ma del valo­re di tut­ti i mate­ria­li che potran­no rima­ne­re dei mez­zi di lavo­ro mes­si dal con­su­mo fuo­ri d’u­so; si divi­da il risul­ta­to di que­sta sot­tra­zio­ne per il nume­ro di gior­ni che i mez­zi di lavo­ro pos­so­no dura­re, e si avrà il con­su­mo gior­na­lie­ro dei mez­zi del lavoro.

Il nostro ope­ra­io lavo­ra per tut­ta una gior­na­ta di 12 ore. Com­piu­ta la qua­le, egli ha tra­sfor­ma­to i 10 chi­li di bam­ba­gia in 10 chi­li di filo, che con­se­gna al suo padro­ne, e lascia l’o­pi­fi­cio per ridur­si a casa. Stra­da facen­do, però, per quel brut­to vizio che han­no gli ope­rai, di voler sem­pre fare i con­ti alle spal­le dei loro padro­ni, egli va ricer­can­do nel­la sua men­te quan­to il suo padro­ne potrà gua­da­gna­re su quei 10 chi­li di filo. Non so vera­men­te quan­to si paghi il filo, dice fra sé, ma il con­to è pre­sto fat­to. La bam­ba­gia l’ho visto io quan­do l’ha com­pra­ta al mer­ca­to a 3 lire al chi­lo. Tut­ti i suoi mez­zi del lavo­ro pos­so­no ave­re un con­su­mo di 4 lire al gior­no. Dunque:

Per 10 chi­li di bam­ba­gia L. 30,00

Per con­su­mo di mez­zi di lavo­ro L. 4,00

Per sala­rio del­la gior­na­ta L. 3,00

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Tota­le L. 37,00

I 10 chi­li di filo val­go­no 37 lire. Ora sul­la bam­ba­gia non ci ha gua­da­gna­to nul­la cer­ta­men­te, per­ché l’ha paga­ta al suo giu­sto prez­zo, né un cen­te­si­mo di più né un cen­te­si­mo di meno; tale qua­le ha agi­to con me, pagan­do la mia for­za lavo­ro al suo giu­sto prez­zo di 3 lire al gior­no; dun­que, il suo gua­da­gno egli lo deve tro­va­re ven­den­do il suo filo per più di quel­lo che vale. Deve esse­re asso­lu­ta­men­te così; se no egli avreb­be spe­so 37 lire per pren­de­re giu­sto 37 lire, sen­za con­ta­re il tem­po che ha per­du­to ed il fasti­dio che si è preso.

Guar­da mò come son fat­ti i padro­ni! Han­no un bel voler fare gli one­sti con l’o­pe­ra­io dal qua­le com­pra­no la for­za lavo­ro, col mer­can­te dal qua­le com­pra­no la mate­ria, ma il loro pun­to debo­le ce lo han­no sem­pre, e noial­tri ope­rai, che cono­scia­mo le cose del mestie­re, lo sco­pria­mo subi­to. Ma ven­de­re una mer­ce per più di quel­lo che vale è come ven­de­re coi pesi fal­si, il che è proi­bi­to dal­l’au­to­ri­tà. Dun­que, se gli ope­rai sve­las­se­ro le fro­di dei padro­ni, que­sti sareb­be­ro costret­ti a chiu­de­re i loro opi­fi­ci; e per far pro­dur­re le mer­ci richie­ste dai biso­gni, for­se si apri­reb­be­ro gran­di sta­bi­li­men­ti gover­na­ti­vi; il che sareb­be mol­to meglio.

Così fan­ta­sti­can­do l’o­pe­ra­io è giun­to a casa; e là, cena­to, si è mes­so a let­to e si è addor­men­ta­to pro­fon­da­men­te, sognan­do la scom­par­sa dei padro­ni e la fon­da­zio­ne del­le offi­ci­ne governative.

Dor­mi, pove­ro ami­co, dor­mi in pace, frat­tan­to che ti resta anco­ra una spe­ran­za. Dor­mi in pace, ché il gior­no del disin­gan­no non tar­de­rà a venire.

Pre­sto impa­re­rai come il tuo padro­ne pos­sa ven­de­re la sua mer­ce con pro­fit­to, sen­za defrau­da­re alcu­no. Egli stes­so ti farà vede­re come si diven­ti capi­ta­li­sta, e gros­so capi­ta­li­sta, rima­nen­do per­fet­ta­men­te onesto.

Allo­ra i tuoi son­ni non saran­no più così tran­quil­li. Tu vedrai nel­le tue not­ti il capi­ta­le, come un incu­bo, che ti pre­me e minac­cia di schiac­ciar­ti. Con occhio spa­ven­ta­to lo vedrai ingros­sar­si, come un mostro dal­le cen­to pro­bo­sci­di, che avi­da­men­te ricer­ca­no i pori del tuo cor­po per suc­chiar­ne il san­gue. E final­men­te lo vedrai assu­me­re pro­por­zio­ni smi­su­ra­ta­men­te gigan­te­sche, nero e ter­ri­bi­le nel­l’a­spet­to, con occhi e boc­ca di fuo­co, tra­smu­ta­re le sue pro­bo­sci­di in lar­ghis­si­me trom­be aspi­ran­ti, entro le qua­li vedrai scom­pa­ri­re miglia­ia di esse­ri uma­ni: uomi­ni, don­ne, fan­ciul­li. Dal­la tua fron­te cole­rà allo­ra il sudo­re del­la mor­te, per­ché la vol­ta tua, del­la tua moglie e dei tuoi figli sta­rà per arri­va­re. Ed il tuo ulti­mo gemi­to sarà coper­to dal­lo sghi­gnaz­za­re alle­gro del mostro, feli­ce del suo sta­to, tan­to più pro­spe­ro, tan­to più inumano.

Tor­nia­mo al nostro uomo del dena­ro. Que­sto bor­ghe­se, model­lo di esat­tez­za e di ordi­ne, ha rego­la­to tut­ti i suoi con­ti del­la gior­na­ta; ed ecco come ha ricer­ca­to il prez­zo dei suoi 10 chi­li di filo:

Per 10 chi­li di bam­ba­gia a 3 lire il chi­lo L. 30,00

Per con­su­mo di mez­zi del lavo­ro L. 4,00

Ma cir­ca il ter­zo ele­men­to, entra­to nel­la for­ma­zio­ne del­la sua mer­ce, egli non ha segna­to il sala­rio paga­to all’o­pe­ra­io. Egli cono­sce mol­to bene che pas­sa una gran­de dif­fe­ren­za tra il prez­zo del lavo­ro ed il pro­dot­to del­la for­za lavo­ro. Il sala­rio di una gior­na­ta rap­pre­sen­ta quan­to ci vuo­le per man­te­ne­re l’o­pe­ra­io per 24 ore, ma non rap­pre­sen­ta affat­to ciò che l’o­pe­ra­io pro­du­ce in una gior­na­ta di lavoro.

Il nostro uomo del dena­ro sa benis­si­mo che le 3 lire di sala­rio da lui paga­te rap­pre­sen­ta­no il man­te­ni­men­to per 24 ore del suo ope­ra­io, ma non ciò che que­sti ha pro­dot­to nel­le 12 ore che ha lavo­ra­to nel suo opi­fi­cio. Egli sa tut­to que­sto, pre­ci­sa­men­te come l’a­gri­col­to­re sa la dif­fe­ren­za che pas­sa fra ciò che il man­te­ni­men­to di una vac­ca gli costa per stal­la, nutri­men­to, ecc., e ciò che essa gli ren­de in lat­te, cacio, bur­ro, ecc. La for­za lavo­ro ha la qua­li­tà sin­go­la­re di ren­de­re più di quan­to costa ed è per que­sto, appun­to, che l’uo­mo del dena­ro è anda­to a com­prar­la al mercato.

Né in ciò l’o­pe­ra­io ha nien­te da ridi­re. Egli ha riti­ra­to il giu­sto prez­zo del­la sua mer­ce; la leg­ge degli scam­bi è sta­ta per­fet­ta­men­te osser­va­ta; ed egli non ha il dirit­to di inge­rir­si del­l’u­so che il com­pra­to­re ne farà, come non ne ha il dro­ghie­re d’in­ge­rir­si del­l’u­so che il suo avven­to­re farà del­lo zuc­che­ro e del pepe com­pra­to nel­la sua bottega.

Noi abbia­mo sup­po­sto di sopra che, in 6 ore di lavo­ro, si pro­du­co­no 15 gram­mi d’ar­gen­to, equi­va­len­ti a 3 lire. Dun­que, se in 6 ore la for­za lavo­ro pro­du­ce un valo­re di 3 lire, in 12 ore ne pro­dur­rà uno di 6 lire. Ecco dun­que il con­to, che ci indi­ca il valo­re dei 10 chi­li di filo:

Per 10 chi­li di bam­ba­gia a 3 lire il chi­lo L. 30,00

Per con­su­mo di mez­zi del lavo­ro L. 4,00

Per 12 ore di for­za lavo­ro L. 6,00

________

Tota­le L. 40,00

L’uo­mo del dena­ro ha quin­di spe­so 37 lire ed ha otte­nu­to una mer­ce che vale 40 lire; ha gua­da­gna­to così 3 lire; il suo dena­ro ha figliato.

Il pro­ble­ma è sciol­to. È nato il capitale.

CAPITOLO III

LA GIORNATA DI LAVORO

Il capi­ta­le, nato appe­na, sen­te tosto il biso­gno di nutri­men­to per svi­lup­par­si; ed il capi­ta­li­sta, il qua­le non vive ora che del­la vita del capi­ta­le, si pre­oc­cu­pa atten­ta­men­te dei biso­gni di que­st’es­se­re, dive­nu­to il suo cuo­re e la sua ani­ma, e tro­va il modo di soddisfarli.

Il pri­mo mez­zo, impie­ga­to dal capi­ta­li­sta a pro’ del suo capi­ta­le, è il pro­lun­ga­men­to del­la gior­na­ta di lavo­ro. Cer­ta­men­te che la gior­na­ta di lavo­ro ha i suoi limi­ti. Anzi­tut­to un gior­no non con­sta che di 24 ore; poi biso­gna da que­ste 24 ore toglier­ne un cer­to nume­ro, per­ché l’o­pe­ra­io pos­sa sod­di­sfa­re tut­ti i suoi biso­gni fisi­ci e mora­li: dor­mi­re, nutrir­si, ripo­sa­re le sue for­ze, ecc.

“Ma que­sti limi­ti sono per loro stes­si mol­to ela­sti­ci e lascia­no la più gran­de lati­tu­di­ne. Così noi tro­via­mo gior­na­te di lavo­ro di 10, 12, 14, 16 e 18 ore, cioè del­le più sva­ria­te lun­ghez­ze. Il capi­ta­li­sta ha com­pra­to la for­za lavo­ro per il suo valo­re gior­na­lie­ro. Egli ha dun­que acqui­sta­to il dirit­to di fare lavo­ra­re, duran­te tut­to il gior­no, il lavo­ra­to­re al suo ser­vi­zio. Ma che cosa è un gior­no di lavo­ro? In ogni caso esso è mino­re di un gior­no natu­ra­le. Di quan­to? Il capi­ta­li­sta ha la sua pro­pria manie­ra di vede­re su que­sto limi­te neces­sa­rio del­la gior­na­ta di lavo­ro. Il tem­po nel qua­le l’o­pe­ra­io lavo­ra è il tem­po nel qua­le il capi­ta­li­sta con­su­ma la for­za lavo­ro che egli ha com­pra­to dal­l’o­pe­ra­io. Se il sala­ria­to con­su­ma per se mede­si­mo il tem­po che ha dispo­ni­bi­le, egli ruba al capi­ta­li­sta. Il capi­ta­li­sta se ne appel­la dun­que alla leg­ge del­lo scam­bio del­le mer­ci. Egli cer­ca, come ogni altro com­pra­to­re, di tira­re dal valo­re d’u­so del­la mer­ce la più gros­sa par­te pos­si­bi­le. Ma ecco che si leva la voce del lavo­ra­to­re, e dice:

‘La mer­ce che io ti ho ven­du­to si distin­gue dal­la tur­ba di tut­te le altre mer­ci, per­ché il suo uso crea valo­re, e un valo­re più gran­de del suo costo stes­so. È per­ciò che tu l’hai com­pra­ta. Ciò che a te sem­bra accre­sci­men­to di capi­ta­le, è per me ecce­den­za di lavo­ro. Tu ed io non cono­scia­mo sul mer­ca­to che una leg­ge, quel­la degli scam­bi del­le mer­ci. Il con­su­mo del­la mer­ce appar­tie­ne non al ven­di­to­re che l’a­lie­na, ma al com­pra­to­re che l’ac­qui­sta. L’u­so del­la mia for­za di lavo­ro ti appar­tie­ne dun­que. Ma col prez­zo quo­ti­dia­no del­la sua ven­di­ta io devo ogni gior­no poter­la ripro­dur­re e ven­de­re di nuo­vo. Astra­zio­ne fat­ta dal­l’e­tà e dal­le altre cau­se natu­ra­li di depe­ri­men­to, io devo esse­re tan­to vigo­ro­so e destro dima­ni come oggi, per ripren­de­re il mio lavo­ro con la mede­si­ma for­za. Tu mi pre­di­chi costan­te­men­te il van­ge­lo del rispar­mio, del­l’a­sti­nen­za e del­l’e­co­no­mia. Benis­si­mo! Io voglio, da ammi­ni­stra­to­re savio e intel­li­gen­te, eco­no­miz­za­re la mia uni­ca for­tu­na, la mia for­za lavo­ro, ed aste­ner­mi da ogni fol­le pro­di­ga­li­tà. Io voglio cia­scun gior­no met­ter­ne in movi­men­to, con­ver­tir­ne in lavo­ro, spen­der­ne, in una paro­la, sola­men­te tan­to quan­to sarà com­pa­ti­bi­le con la sua dura­ta nor­ma­le e col suo svi­lup­po rego­la­re. Con un pro­lun­ga­men­to oltre misu­ra del­la gior­na­ta di lavo­ro tu puoi in un sol gior­no mobi­liz­za­re una così gran­de quan­ti­tà del­la mia for­za lavo­ro che io non la pos­so sosti­tui­re nem­me­no con tre gior­na­te. Ciò che tu gua­da­gni in lavo­ro io lo per­do in sostan­za. Ora, l’im­pie­go del­la mia for­za ed il suo sfrut­ta­men­to sono due cose inte­ra­men­te dif­fe­ren­ti. Se l’or­di­na­rio perio­do del­la vita di un ope­ra­rio, data una media ragio­ne­vo­le di lavo­ro, è di tren­t’an­ni, e tu con­su­mi in die­ci anni la mia for­za lavo­ro, tu non mi paghi che un ter­zo del suo valo­re gior­na­lie­ro, tu mi rubi ogni gior­no due ter­zi del­la mia mer­ce. Tu paghi una for­za lavo­ro di un gior­no, men­tre ne con­su­mi una di tre. Io doman­do dun­que una gior­na­ta di lavo­ro di una dura­ta nor­ma­le, e la doman­do sen­za fare appel­lo al tuo cuo­re, per­ché in affa­ri non v’ha posto per il sen­ti­men­to. Tu puoi esse­re un bor­ghe­se model­lo, for­se anche mem­bro del­la Socie­tà pro­tet­tri­ce degli ani­ma­li, e per sopram­mer­ca­to in odo­re di san­ti­tà; poco impor­ta. Ciò che tu rap­pre­sen­ti di fron­te a me è affat­to estra­neo a ciò che può inte­res­sa­re il mio cuo­re. Io esi­go la gior­na­ta di lavo­ro nor­ma­le, per­ché voglio il valo­re del­la mia mer­ce come ogni altro venditore.’

Come si vede, sia­mo entro limi­ti mol­to ela­sti­ci e la natu­ra stes­sa del­lo scam­bio del­le mer­ci non impo­ne alcun limi­te alla gior­na­ta di lavo­ro. Il capi­ta­li­sta sostie­ne il suo dirit­to come com­pra­to­re, quan­do cer­ca di pro­lun­ga­re que­sta gior­na­ta il più che gli è pos­si­bi­le e di fare di due gior­ni uno solo. D’al­tra par­te la natu­ra spe­cia­le del­la mer­ce ven­du­ta esi­ge che il suo con­su­mo per il com­pra­to­re non sia illi­mi­ta­to, e il lavo­ra­to­re sostie­ne il suo dirit­to come ven­di­to­re, quan­do vuo­le restrin­ge­re la gior­na­ta di lavo­ro ad una dura­ta nor­mal­men­te deter­mi­na­ta. V’ha dun­que dirit­to con­tro dirit­to, tut­ti due por­tan­ti il sigil­lo del­la leg­ge che rego­la gli scam­bi del­le mer­ci. Fra due dirit­ti ugua­li chi deci­de? la For­za” (K. Marx).

Come agi­sca la for­za, oggi tut­ta del capi­ta­le e per il capi­ta­le, ce lo diran­no i fat­ti, che ora ver­re­mo espo­nen­do. I fat­ti cita­ti in que­sto libro sono pre­si tut­ti dal­l’In­ghil­ter­ra: pri­mie­ra­men­te, per­ché que­sto è il pae­se dove la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta ha rag­giun­to il mas­si­mo suo svi­lup­po, ver­so il qua­le, del resto, ten­do­no tut­ti i pae­si civi­li; e, in secon­do luo­go, per­ché sola­men­te in Inghil­ter­ra si ha un con­fa­cen­te mate­ria­le di docu­men­ti, riguar­dan­ti le con­di­zio­ni del lavo­ro, e rac­col­ti per ope­ra di rego­la­ri Com­mis­sio­ni gover­na­ti­ve. I mode­sti limi­ti di que­sto com­pen­dio non con­sen­to­no, però, che la ripro­du­zio­ne di una sola pic­co­la par­te dei ric­chi mate­ria­li rac­col­ti nel­l’o­pe­ra di Marx.

Ecco alcu­ni dati pre­si dal­le inchie­ste fat­te­si nel 1860 e 1863 nel­l’in­du­stria cera­mi­ca. W. Wood, di nove anni, ave­va 7 anni e 10 mesi quan­do comin­ciò a lavo­ra­re. Egli lavo­ra­va tut­ti i gior­ni del­la set­ti­ma­na, dal­le 6 del mat­ti­no sino alle 9 di sera, cioè 15 ore al gior­no. J. Mur­ray, di 12 anni, lavo­ra­va a por­ta­re le for­me e a gira­re la ruo­ta. Egli comin­cia­va a lavo­ra­re alle 6, qual­che vol­ta per­fi­no alle 4 del mat­ti­no; e il suo lavo­ro era pro­lun­ga­to, tal­vol­ta, sino al gior­no sus­se­guen­te. E non era solo, ma in com­pa­gnia di altri 8 o 9 ragaz­zi, che era­no trat­ta­ti come lui. Il chi­rur­go Char­les Piar­son così scri­ve ad un Com­mis­sa­rio gover­na­ti­vo: ‘Io non pos­so par­la­re che basa­to sul­le mie osser­va­zio­ni per­so­na­li e non sul­la sta­ti­sti­ca; e cer­ti­fi­co che sono sta­to spes­so immen­sa­men­te nau­sea­to dal­la vista di que­sti pove­ri fan­ciul­li, la cui salu­te è sacri­fi­ca­ta per sod­di­sfa­re con un lavo­ro ecces­si­vo la cupi­di­gia dei loro geni­to­ri e di quel­li che li impie­ga­no’. Egli enu­me­ra le cau­se di malat­tia dei vasai e chiu­de la lista con la cau­sa prin­ci­pa­le, cioè, le lun­ghe ore di lavo­ro. Nel­le fab­bri­che di fiam­mi­fe­ri la metà dei lavo­ra­to­ri sono fan­ciul­li al di sot­to di 13 anni e ado­le­scen­ti al di sot­to di 18. È sola­men­te la par­te più pove­ra del­la popo­la­zio­ne, che pre­sta i suoi figli a que­sta indu­stria tan­to mal­sa­na e ripu­gnan­te. Fra i testi­mo­ni che il Com­mis­sa­rio Whi­te inte­se nel 1863 ve n’e­ra­no 270 al di sot­to di 18 anni, 40 al di sot­to di 10 anni, 12 di 8 anni e per­fi­no 5 di soli 6 anni. La gior­na­ta di lavo­ro varia­va fra le 12, 14 e 15 ore. Essi lavo­ra­va­no la not­te, pren­den­do il cibo ad ore irre­go­la­ri, e qua­si sem­pre nel mede­si­mo loca­le del­la fab­bri­ca, tut­to impe­sta­to dal fosforo.

Nel­le fab­bri­che di tap­pez­ze­rie, duran­te il tem­po dei mag­gio­ri affa­ri, che è da otto­bre ad apri­le, il lavo­ro dura qua­si sen­za inter­ru­zio­ne dal­le 6 di mat­ti­no sino alle 10 del­la sera; è pro­trat­to tal­vol­ta anche nel­la not­te. Nel ver­no 862, su 19 fan­ciul­le, 6 non si vide­ro più a cau­sa di malat­tie cau­sa­te dal­l’ec­ces­so di lavo­ro. Le altre per tener­le deste biso­gna­va scuo­ter­le. I fan­ciul­li era­no tan­to stan­chi, che non pote­va­no tene­re gli occhi aper­ti. Un ope­ra­io depo­ne innan­zi alla Com­mis­sio­ne d’in­chie­sta, in que­sti ter­mi­ni: ‘Il mio pic­co­lo figlio che vede­te, io sole­va por­tar­me­lo sul­le spal­le, quan­do egli ave­va 7 anni, per anda­re e veni­re dal­la fab­bri­ca, a cau­sa del­la neve, ed egli lavo­ra­va ordi­na­ria­men­te 16 ore!… Ben soven­te io mi sono acco­scia­to vici­no a lui per far­lo man­gia­re men­tr’e­gli era alla mac­chi­na, per­ché non dove­va abban­do­nar­la, né inter­rom­pe­re il suo lavoro’.

Ver­so la fine di giu­gno 1863, i gior­na­li di Lon­dra mena­ro­no gran rumo­re per la mor­te, cau­sa­ta sem­pli­ce­men­te da ecces­so di lavo­ro, di una modi­sta di 20 anni, impie­ga­ta in una casa che ser­vi­va la Cor­te. Essa, che d’or­di­na­rio lavo­ra­va 16 ore e mez­za al gior­no, tem­po nor­ma­le del­le modi­ste, avea dovu­to, per un bal­lo di Cor­te, lavo­ra­re straor­di­na­ria­men­te per ben 26 ore e mez­za sen­za inter­ru­zio­ne, con altre 60 fan­ciul­le. Ma pri­ma di com­pie­re il suo lavo­ro era mor­ta. Il medi­co, giun­to trop­po tar­di al suo let­to, la dichia­rò mor­ta per lun­ghe ore di lavo­ro in un labo­ra­to­rio trop­po pie­no di gen­te ed in una came­ra da let­to trop­po stret­ta e sen­za ventilazione.

In uno dei quar­tie­ri più popo­la­ri di Lon­dra, la mor­ta­li­tà dei fab­bri, ogni anno, è di 31 su 1000. Que­st’ar­te, che pur tan­to con­cor­da con la strut­tu­ra uma­na, in cau­sa del­la esa­ge­ra­zio­ne del lavo­ro diven­ta distrut­ti­va dell’uomo.

Ecco come il capi­ta­le sfer­za il lavo­ro, il qua­le, dopo mol­to sof­fri­re, cer­ca alla fine di resi­ster­gli. I lavo­ra­to­ri si coa­liz­za­no e diman­da­no, al pote­re socia­le, la deter­mi­na­zio­ne di una gior­na­ta nor­ma­le di lavo­ro. Quan­to da ciò pos­sa­no otte­ne­re, si com­pren­de facil­men­te, con­si­de­ran­do che la leg­ge deve esse­re fat­ta ed appli­ca­ta dagli stes­si capi­ta­li­sti, con­tro i qua­li gli ope­rai vor­reb­be­ro far­la valere.

CAPITOLO IV

IL PLUSVALORE RELATIVO

La for­za lavo­ro, pro­du­cen­do un valo­re mag­gio­re di quan­to essa vale, cioè un plu­sva­lo­re, ha gene­ra­to il capi­ta­le; ingros­san­do poi que­sto plu­sva­lo­re col pro­lun­ga­men­to del­la gior­na­ta di lavo­ro, ha pro­cu­ra­to al capi­ta­le nutri­men­to suf­fi­cien­te per la sua pri­ma età. Il capi­ta­le cre­sce, ed il plu­sva­lo­re deve aumen­ta­re per sod­di­sfa­re il cre­sciu­to biso­gno. Aumen­to di plu­sva­lo­re, però, altro non vuol dire, come abbia­mo già visto, che pro­lun­ga­men­to del­la gior­na­ta di lavo­ro, la qua­le ha pure infi­ne il suo limi­te neces­sa­rio, per quan­to essa sia una lun­ghez­za mol­to ela­sti­ca. Per poco che sia il tem­po che il capi­ta­li­sta lascia all’o­pe­ra­rio per la sod­di­sfa­zio­ne dei suoi più stret­ti biso­gni, la gior­na­ta di lavo­ro sarà sem­pre mino­re del­le 24 ore. La gior­na­ta di lavo­ro incon­tra dun­que un limi­te natu­ra­le, e il plu­sva­lo­re, per con­se­guen­za, un osta­co­lo insor­mon­ta­bi­le. Indi­chia­mo una gior­na­ta di lavo­ro con la linea A B.

A——-D——-C——-B

La let­te­ra A ne indi­chi il prin­ci­pio e B la fine, quel ter­mi­ne natu­ra­le, cioè, oltre il qua­le non è pos­si­bi­le anda­re. Sia A C la par­te del­la gior­na­ta in cui l’o­pe­ra­io pro­du­ce il valo­re del sala­rio rice­vu­to e C B la par­te del­la gior­na­ta in cui l’o­pe­ra­io pro­du­ce il plu­sva­lo­re. Il nostro fila­to­re di coto­ne, infat­ti, vedem­mo che, rice­ven­do 3 lire di sala­rio, con una metà del­la sua gior­na­ta ripro­du­ce­va il valo­re del suo sala­rio, e con l’al­tra metà pro­du­ce­va 3 lire di plu­sva­lo­re. Il lavo­ro A C, con cui si pro­du­ce il valo­re del sala­rio, dice­si lavo­ro neces­sa­rio, men­tre il lavo­ro C B, che pro­du­ce il plu­sva­lo­re, chia­ma­si sopralavoro.

Il capi­ta­li­sta è asse­ta­to di sopra­la­vo­ro, per­ché è que­sto che gene­ra il plu­sva­lo­re. Il sopra­la­vo­ro pro­lun­ga­to pro­lun­ga la gior­na­ta di lavo­ro, la qua­le fini­sce per incon­tra­re il suo limi­te natu­ra­le B, che pre­sen­ta un osta­co­lo insor­mon­ta­bi­le al sopra­la­vo­ro ed al plu­sva­lo­re. Che fare allo­ra? Il capi­ta­li­sta tro­va pre­sto il rime­dio. Egli osser­va che il sopra­la­vo­ro ha due limi­ti, l’u­no B, fine del­la gior­na­ta di lavo­ro, l’al­tro C, fine del lavo­ro neces­sa­rio; se il limi­te B è irre­mo­vi­bi­le, non sarà così del limi­te C. Riu­scen­do a tra­spor­ta­re il pun­to C sino al pun­to D, si avreb­be il sopra­la­vo­ro C B cre­sciu­to del­la lun­ghez­za D C, pro­prio in quan­to dimi­nui­reb­be il lavo­ro neces­sa­rio A C. Il plu­sva­lo­re tro­ve­reb­be così il modo di con­ti­nua­re a cre­sce­re, non nel modo asso­lu­to come pri­ma, cioè pro­lun­gan­do sem­pre la gior­na­ta di lavo­ro, ma in rela­zio­ne del cre­sce­re del sopra­la­vo­ro sul cor­ri­spon­den­te dimi­nui­re del lavo­ro neces­sa­rio. Il pri­mo era plu­sva­lo­re asso­lu­to, que­sto è plu­sva­lo­re rela­ti­vo. Il plu­sva­lo­re rela­ti­vo si fon­da sul­la dimi­nu­zio­ne del lavo­ro neces­sa­rio; la dimi­nu­zio­ne del lavo­ro neces­sa­rio si fon­da sul­la dimi­nu­zio­ne del sala­rio; la dimi­nu­zio­ne del sala­rio si fon­da sul­la dimi­nu­zio­ne del prez­zo del­le cose, che sono neces­sa­rie all’o­pe­ra­io; dun­que il plu­sva­lo­re rela­ti­vo è fon­da­to sul ribas­so del­le mer­ci che ser­vo­no all’operaio.

E ci sareb­be pure un mez­zo più spic­cio per pro­dur­re il plu­sva­lo­re rela­ti­vo, dirà qual­cu­no, e sareb­be di paga­re al lavo­ra­to­re un sala­rio mino­re di quel­lo che gli spet­ta, cioè non pagar­gli il giu­sto prez­zo del­la sua mer­ce, la for­za lavo­ro. Que­sto espe­dien­te, mol­to usa­to infat­ti, non può esse­re da noi meno­ma­men­te con­si­de­ra­to, per­ché non ammet­tia­mo che la più per­fet­ta osser­van­za del­la leg­ge degli scam­bi, secon­do la qua­le tut­te le mer­ci, e per con­se­guen­za anche la for­za del lavo­ro, devo­no esse­re ven­du­te e com­pra­te al loro giu­sto valore.

Il nostro capi­ta­li­sta, come già vedem­mo, è un bor­ghe­se asso­lu­ta­men­te one­sto; egli non use­rà mai, per ingros­sa­re il suo capi­ta­le, un mez­zo che non sia inte­ra­men­te degno di lui.

Sup­po­nia­mo che, in una gior­na­ta di lavo­ro, un ope­ra­io pro­du­ca 6 arti­co­li di una mer­ce, che il capi­ta­li­sta ven­de per il prez­zo di L. 7,50, per­ché nel valo­re di que­sta mer­ce la mate­ria ed i mez­zi di lavo­ro ci entra­no per L. 1,50 e la for­za del lavo­ro di 12 ore per 6 lire: tut­ti tre gli ele­men­ti, quin­di, per L. 7,50. Il capi­ta­li­sta tro­va sul valo­re di L. 7,50, che ha la sua mer­ce, un plu­sva­lo­re di 3 lire e sopra ogni arti­co­lo un plu­sva­lo­re di L. 0,50, per­ché spen­de L. 0,75 e rica­va L. 1,25 da ognu­no di essi. Sup­po­nia­mo che con un nuo­vo siste­ma di lavo­ro, o sola­men­te con un per­fe­zio­na­men­to del vec­chio, si giun­ga a rad­dop­pia­re la pro­du­zio­ne, e che, inve­ce di 6 arti­co­li al gior­no, il capi­ta­li­sta rie­sca ad otte­ner­ne 12. Se in 6 arti­co­li entra­va­no per L. 1,50 la mate­ria ed i mez­zi di lavo­ro, in 12 vi entre­ran­no per 3 lire, sem­pre cioè per L. 0,25 in ogni arti­co­lo. Que­ste 3 lire uni­te alle 6 lire pro­dot­te dal­la for­za lavo­ro in 12 ore, for­ma­no 9 lire, cioè quan­to costa­no i 12 arti­co­li, cia­scu­no dei qua­li vie­ne per­ciò al prez­zo di L. 0,75.

Il capi­ta­li­sta ha oggi biso­gno di far­si un posto più lar­go sul mer­ca­to per ven­de­re una quan­ti­tà dop­pia del­la sua mer­ce; e vi rie­sce restrin­gen­do­ne alquan­to il prez­zo. In altri ter­mi­ni il capi­ta­li­sta ha biso­gno di far sor­ge­re una ragio­ne, per la qua­le i suoi arti­co­li si pos­sa­no ven­de­re sul mer­ca­to nel dop­pio nume­ro di pri­ma; e la ragio­ne la tro­va appun­to nel ribas­so di prez­zo. Egli ven­de­rà, dun­que, i suoi arti­co­li ad un prez­zo alquan­to mino­re di L. 1,25, che era il loro prez­zo di pri­ma, ma mag­gio­re di L. 0,75 quan­to vale oggi cia­scu­no di essi. Li ven­de­rà ad una lira l’u­no, e avrà così assi­cu­ra­to il dop­pio smer­cio dei suoi arti­co­li, sui qua­li gua­da­gna oggi 6 lire; 3 lire di plu­sva­lo­re e 3 lire di dif­fe­ren­za tra il loro valo­re ed il prez­zo al qua­le sono venduti.

Come si vede, il capi­ta­li­sta rica­va un gran­de uti­le da que­sto aumen­to di pro­du­zio­ne. Tut­ti i capi­ta­li­sti sono quin­di alta­men­te inte­res­sa­ti ad aumen­ta­re i pro­dot­ti del­le loro indu­strie, ed è ciò che essi rie­sco­no a fare ogni gior­no in qual­sia­si gene­re di pro­du­zio­ne. Il loro gua­da­gno straor­di­na­rio, però, quel­lo che rap­pre­sen­ta la dif­fe­ren­za fra il valo­re del­la mer­ce ed il prez­zo al qua­le si ven­de, dura poco, per­ché pre­sto il nuo­vo od il per­fe­zio­na­to siste­ma di pro­du­zio­ne vie­ne adot­ta­to da tut­ti per neces­si­tà. Allo­ra si ha per risul­ta­to che il valo­re del­la mer­ce dimi­nui­sce del­la metà. Pri­ma ogni arti­co­lo vale­va L. 1,25; oggi inve­ce vale cen­te­si­mi 62 e mez­zo. Il capi­ta­li­sta però vie­ne sem­pre ad otte­ne­re l’i­stes­so pro­fit­to, aven­do rad­dop­pia­ta la pro­du­zio­ne. Pri­ma 3 lire di plu­sva­lo­re sopra 6 arti­co­li ed oggi 3 lire di plu­sva­lo­re sopra 12 arti­co­li; ma sic­co­me i 12 arti­co­li sono pro­dot­ti nel­lo stes­so tem­po che era­no pro­dot­ti i 6 arti­co­li, cioè in 12 ore di lavo­ro, si ha, come ulti­mo risul­ta­to sem­pre 3 lire di plu­sva­lo­re su di una gior­na­ta di 12 ore, ma il dop­pio di produzione.

Quan­do que­sto aumen­to di pro­du­zio­ne riguar­da le mer­ci neces­sa­rie al lavo­ra­to­re, por­ta per con­se­guen­za il ribas­so del prez­zo del­la for­za lavo­ro, e quin­di la dimi­nu­zio­ne del lavo­ro neces­sa­rio e l’au­men­to del sopra­la­vo­ro, che costi­tui­sce il plu­sva­lo­re relativo.

CAPITOLO V

COOPERAZIONE

È da un pez­zet­to che non ci sia­mo più occu­pa­ti dei fat­ti del nostro capi­ta­li­sta, il qua­le ha dovu­to cer­ta­men­te pro­spe­ra­re in que­sto frat­tem­po. Rechia­mo­ci al suo opi­fi­cio, dove for­se avre­mo il pia­ce­re di rive­de­re il nostro ami­co, il fila­to­re. Ecco­ci giun­ti. Entriamo.

Oh, sor­pre­sa! Non più un ope­ra­io, ma una gran­de quan­ti­tà d’o­pe­rai si tro­va­no ora al lavo­ro: tut­ti in silen­zio ed ordi­na­ti come se fos­se­ro tan­ti sol­da­ti. Né vi man­ca­no sor­ve­glian­ti ed ispet­to­ri che a gui­sa di uffi­cia­li pas­seg­gia­no fra i ran­ghi, tut­to osser­van­do, dan­do ordi­ni, o sor­ve­glian­do­ne la fede­le ese­cu­zio­ne. Del capi­ta­li­sta non se ne vede nep­pu­re l’om­bra. Si apre una por­ta a vetri che met­te nel­l’in­ter­no, for­se sarà lui; vedia­mo. È un gra­ve per­so­nag­gio, ma non è il nostro capi­ta­li­sta. I sor­ve­glian­ti gli si fan­no pre­mu­ro­sa­men­te intor­no, e rice­vo­no con la mas­si­ma atten­zio­ne i suoi ordi­ni. Ode­si il suo­no d’un cam­pa­nel­lo elet­tri­co; uno dei sor­ve­glian­ti cor­re ad appli­ca­re il suo orec­chio alla boc­ca di un tubo di metal­lo, che dal­la vol­ta scen­de lun­go il muro; e vie­ne tosto ad annun­zia­re al signor diret­to­re che il padro­ne lo chia­ma pres­so di lui a con­fe­ren­za. Cer­chia­mo nel­la fol­la degli ope­rai il fila­to­re di nostra vec­chia cono­scen­za; e final­men­te ci vie­ne fat­to tro­var­lo in un ango­lo, tut­to dedi­to al lavo­ro. Egli è dive­nu­to scar­no e pal­li­do in vol­to: sul­la sua fac­cia si leg­ge un pro­fon­do pen­sie­ro di tri­stez­za. Un gior­no lo vedem­mo sul mer­ca­to con­trat­ta­re la sua for­za lavo­ro da pari a pari con l’uo­mo del dena­ro; ma quan­to è oggi cre­sciu­ta la distan­za fra loro! Egli è oggi un ope­ra­io per­du­to nel­la fol­la dei mol­ti che popo­la­no l’o­pi­fi­cio, e oppres­so da una gior­na­ta di lavo­ro straor­di­na­ria­men­te lun­ga; men­tre l’uo­mo del dena­ro, dive­nu­to già gros­so capi­ta­li­sta, se ne sta come un dio nel­l’al­to del suo Olim­po, da dove man­da gli ordi­ni al suo popo­lo attra­ver­so una schie­ra d’in­ter­me­dia­ri. Che mai dun­que è avve­nu­to? Nien­te di più sem­pli­ce. Il capi­ta­li­sta ha pro­spe­ra­to. Il capi­ta­le è di mol­to cre­sciu­to, e, per sod­di­sfa­re i suoi nuo­vi biso­gni, il capi­ta­li­sta ha sta­bi­li­to il lavo­ro coo­pe­ra­ti­vo, che è il lavo­ro fat­to con l’u­nio­ne del­le for­ze. In quel­l’o­pi­fi­cio, dove altra vol­ta fun­zio­na­va una sola for­za lavo­ro, oggi vi fun­zio­na tut­ta una coo­pe­ra­zio­ne di for­ze lavo­ro. Il capi­ta­le è usci­to dal­la sua infan­zia, e si pre­sen­ta per la pri­ma vol­ta sot­to il suo vero aspet­to. I van­tag­gi che il capi­ta­le tro­va nel­la coo­pe­ra­zio­ne si pos­so­no ridur­re a quat­tro. Pri­mie­ra­men­te è nel­la coo­pe­ra­zio­ne che il capi­ta­le rea­liz­za la vera for­za lavo­ro socia­le. La for­za lavo­ro socia­le essen­do, come già dicem­mo, la media pre­sa in un dato cen­tro di pro­du­zio­ne fra un nume­ro di ope­rai che lavo­ra­no con un gra­do medio di abi­li­tà e d’in­ten­si­tà, è chia­ro che ogni sin­go­la for­za lavo­ro si sco­ste­rà più o meno dal­la for­za media o socia­le, la qua­le si può per­ciò otte­ne­re sola­men­te riu­nen­do nel­lo stes­so opi­fi­cio un gran nume­ro di for­ze lavo­ro; cioè nel­la cooperazione.

Il secon­do van­tag­gio è l’e­co­no­mia dei mez­zi di lavo­ro. Lo stes­so opi­fi­cio, gli stes­si calo­ri­fe­ri, ecc., che ser­vi­va­no ad uno solo, oggi ser­vo­no per mol­ti operai.

Il ter­zo van­tag­gio del­la coo­pe­ra­zio­ne è l’au­men­to del­la for­za lavoro.

“Come la for­za d’at­tac­co di uno squa­dro­ne di caval­le­ria o la for­za di resi­sten­za d’un reg­gi­men­to di fan­te­ria dif­fe­ri­sco­no essen­zial­men­te dal­la som­ma del­le for­ze indi­vi­dua­li spie­ga­te iso­la­ta­men­te da cia­scun cava­lie­re o fan­tac­ci­no, nel­la stes­sa gui­sa la som­ma del­le for­ze mec­ca­ni­che di ope­rai iso­la­ti dif­fe­ri­sce dal­la for­za mec­ca­ni­ca che si svi­lup­pa tosto che essi fun­zio­ni­no con­giun­ta­men­te e simul­ta­nea­men­te in una mede­si­ma ope­ra­zio­ne indi­vi­sa” (K. Marx).

Il quar­to van­tag­gio è la pos­si­bi­li­tà di com­bi­na­re in modo le for­ze da poter ese­gui­re lavo­ri che con le for­ze iso­la­te o non si sareb­be­ro potu­ti com­pie­re, o si sareb­be­ro com­piu­ti in modo mol­to imper­fet­to. Chi non ha isto come 50 ope­rai pos­so­no cam­bia­re di posto enor­mi mas­se in un’o­ra, men­tre una for­za lavo­ro non giun­ge­reb­be, in 50 ore di segui­to, nem­me­no a smuo­ver­le di un capel­lo? Chi non ha visto come 12 ope­rai, dispo­sti a sca­la lun­go l’im­pal­ca­tu­ra di una casa in costru­zio­ne, fac­cia­no pas­sa­re in un’o­ra una quan­ti­tà di mate­ria­li immen­sa­men­te più gran­de di quel­la che un solo ope­ra­io fareb­be pas­sa­re in 12 ore? Chi non com­pren­de come 20 mura­to­ri pos­sa­no fare in un gior­no assai più lavo­ro di quan­to ne pos­sa fare uno solo in 20 giorni?

“La coo­pe­ra­zio­ne è il modo fon­da­men­ta­le del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta” (K. Marx).

CAPITOLO VI

DIVISIONE DEL LAVORO E MANIFATTURA

Quan­do il capi­ta­li­sta riu­ni­sce nel suo opi­fi­cio gli ope­rai che ese­gui­sco­no le diver­se par­ti di lavo­ro, le qua­li com­pon­go­no tut­to il lavo­ro di una mer­ce, allo­ra egli dà alla coo­pe­ra­zio­ne sem­pli­ce un carat­te­re tut­to spe­cia­le; egli sta­bi­li­sce la divi­sio­ne del lavo­ro e la mani­fat­tu­ra; la qua­le altro non è che “un orga­ni­smo di pro­du­zio­ne, le cui mem­bra sono uomi­ni” (K. Marx).

Ben­ché la mani­fat­tu­ra sia sem­pre fon­da­ta sul­la divi­sio­ne del lavo­ro, pure essa ha una dop­pia ori­gi­ne. Infat­ti in alcu­ni casi la mani­fat­tu­ra ha riu­ni­to nel mede­si­mo opi­fi­cio le diver­se lavo­ra­zio­ni richie­ste per com­pi­men­to di una mer­ce, le qua­li pri­ma, come tan­ti mestie­ri spe­cia­li, rima­ne­va­no distin­te e divi­se tra loro; in altri casi essa ha divi­se, pur con­ser­van­do­le nel mede­si­mo opi­fi­cio, le diver­se ope­ra­zio­ni di lavo­ro, che pri­ma for­ma­va­no un tut­to nel com­pi­men­to di una merce.

“Una car­roz­za era il pro­dot­to col­let­ti­vo dei lavo­ri di un gran nume­ro di arti­gia­ni indi­pen­den­ti gli uni dagli altri, come car­ra­do­ri, sel­lai, sar­ti, chia­va­iuo­li, lavo­ran­ti di cin­tu­re, tor­ni­to­ri, spi­net­ta­ri, vetrai, dipin­to­ri, ver­ni­cia­to­ri, dora­to­ri, ecc. La mani­fat­tu­ra car­roz­zie­ra li ha riu­ni­ti tut­ti in un mede­si­mo loca­le, dove essi lavo­ra­no nel mede­si­mo tem­po e mano a mano. Non si può, è vero, dora­re una car­roz­za pri­ma che essa sia fat­ta; ma se si fan­no mol­te car­roz­ze nel­lo stes­so tem­po, le une for­ni­sco­no costan­te­men­te lavo­ro ai dora­to­ri, men­tre le altre pas­sa­no per altri pro­ces­si di fab­bri­ca­zio­ne” (K. Marx).

La lavo­ra­zio­ne del­lo spil­lo è sta­ta dal­la mani­fat­tu­ra divi­sa in più di ven­ti lavo­ra­zio­ni par­zia­li, che for­ma­no le par­ti del­la lavo­ra­zio­ne tota­le del­lo spil­lo. La mani­fat­tu­ra, dun­que, talo­ra riu­ni­sce più mestie­ri in uno solo, e talo­ra divi­de un mestie­re in più.

La mani­fat­tu­ra mol­ti­pli­ca le for­ze e gli stru­men­ti di lavo­ro, ma li ren­de emi­nen­te­men­te tec­ni­ci e sem­pli­ci, appli­can­do­li costan­te­men­te ad una sola ed uni­ca ope­ra­zio­ne elementare.

Gran­di sono i van­tag­gi che il capi­ta­le rea­liz­za nel­la mani­fat­tu­ra, desti­nan­do le diver­se for­ze lavo­ro ad ope­ra­zio­ni ele­men­ta­ri e costan­te­men­te le stes­se. La for­za lavo­ro acqui­sta mol­tis­si­mo in inten­si­tà e pre­ci­sio­ne. Tut­ti quei pic­co­li inter­val­li, che a gui­sa di pori si tro­va­no fra le diver­se fasi del­la lavo­ra­zio­ne di una mer­ce ese­gui­ta da un solo indi­vi­duo, scom­pa­io­no que­sto indi­vi­duo ese­gue sem­pre la stes­sa ope­ra­zio­ne. L’o­pe­ra­io non deve più d’o­ra in poi impa­ra­re tut­to un mestie­re ma una sem­pli­ce, un’u­ni­ca ope­ra­zio­ne del mestie­re stes­so, che egli impa­ra in mol­to meno tem­po e con mino­re spe­sa di quan­to ne abbi­so­gna­va per impa­ra­re un mestie­re inte­ro. Que­sta dimi­nu­zio­ne di spe­sa e di tem­po è una dimi­nu­zio­ne di cose occor­ren­ti all’o­pe­ra­io, cioè una dimi­nu­zio­ne di lavo­ro neces­sa­rio, ed un aumen­to cor­ri­spon­den­te di sopra­la­vo­ro e plu­sva­lo­re. Il capi­ta­li­sta, da vero paras­si­ta, s’in­gras­sa sem­pre più a spe­se del lavo­ro, ed il lavo­ra­to­re ne sof­fre grandemente.

“La mani­fat­tu­ra rivo­lu­zio­na da cima a fon­do il modo di lavo­ro indi­vi­dua­le e attac­ca nel­la sua radi­ce la for­za lavo­ro. Essa stor­pia il lavo­ra­to­re, essa fa di lui qual­che cosa di mostruo­so, atti­van­do lo svi­lup­po fat­ti­zio del­la sua abi­li­tà di det­ta­glio e sacri­fi­can­do una gran­de quan­ti­tà di dispo­si­zio­ni e d’i­stin­ti pro­dut­to­ri, nel­la stes­sa gui­sa che, negli Sta­ti del­la Pla­ta, si immo­la un toro per ave­re la sua pel­le ed il suo sego. Non è sola­men­te il lavo­ro che è divi­so, sud­di­vi­so e ripar­ti­to fra diver­si indi­vi­dui, è l’in­di­vi­duo stes­so che è smi­nuz­za­to e tra­sfor­ma­to in mol­la auto­ma­ti­ca in una ope­ra­zio­ne esclu­si­va, di gui­sa che si tro­va rea­liz­za­ta la favo­la assur­da di Mene­nio Agrip­pa, rap­pre­sen­tan­te un uomo come fram­men­to del suo pro­prio cor­po. Stewart chia­ma gli ope­rai del­le mani­fat­tu­re ‘auto­mi viven­ti impie­ga­ti nei det­ta­gli di un’o­pe­ra’. Ori­gi­na­ria­men­te l’o­pe­ra­io ven­de al capi­ta­li­sta la sua for­za lavo­ro, per­ché i mez­zi mate­ria­li del­la pro­du­zio­ne gli man­ca­no. Ora la sua for­za lavo­ro rifiu­ta ogni ser­vi­zio se non ven­du­ta. Per poter fun­zio­na­re gli abbi­so­gna quel cen­tro socia­le il qua­le non esi­ste che nel­l’o­pi­fi­cio del capi­ta­li­sta. Nel­la stes­sa gui­sa che il popo­lo elet­to por­ta­va scrit­to sul suo fron­te che egli era pro­prie­tà di Jeo­va, così l’o­pe­ra­io di mani­fat­tu­ra è mar­ca­to a fuo­co col sigil­lo del­la divi­sio­ne del lavo­ro, che lo riven­di­ca come pro­prie­tà del capi­ta­le. Storch dice: ‘L’o­pe­ra­io che por­ta nel­le sue mani tut­to un mestie­re può anda­re dap­per­tut­to ad eser­ci­ta­re la sua indu­stria, e tro­va­re i mez­zi di sus­si­ste­re; l’al­tro (quel­lo del­le mani­fat­tu­re) non è che un acces­so­rio il qua­le, sepa­ra­to dai suoi con­fra­tel­li, non ha più né capa­ci­tà né indi­pen­den­za e che si tro­va for­za­to d’ac­cet­ta­re la leg­ge, che si tro­va oppor­tu­no di impor­gli’. Le poten­ze intel­let­tua­li del­la pro­du­zio­ne si svi­lup­pa­no da un lato solo, per­ché scom­pa­io­no su tut­ti gli altri. Ciò che gli ope­rai par­ti­cel­la­ri per­do­no, si con­cen­tra di fron­te ad essi nel capi­ta­le. La divi­sio­ne mani­fat­tu­rie­ra oppo­ne loro la poten­za intel­let­tua­le del­la pro­du­zio­ne come pro­prie­tà d’al­tri e come pote­re che li domi­na. Que­sta scis­sio­ne comin­cia ad appa­ri­re nel­la coo­pe­ra­zio­ne sem­pli­ce, dove il capi­ta­li­sta rap­pre­sen­ta, di fron­te al lavo­ra­to­re iso­la­to, l’u­ni­tà e la volon­tà del lavo­ra­to­re col­let­ti­vo; essa si svi­lup­pa poi nel­la mani­fat­tu­ra, che muti­la il lavo­ra­to al pun­to di ridur­lo una par­ti­cel­la di se stes­so; essa si com­pie infi­ne nel­la gran­de indu­stria, che fa del­la scien­za una for­za pro­dut­ti­va indi­pen­den­te dal lavo­ro e arruo­la que­sto al ser­vi­zio del capi­ta­le. Nel­la mani­fat­tu­ra, l’ar­ric­chi­men­to del lavo­ra­to­re col­let­ti­vo, e per con­se­guen­za del capi­ta­le, in for­ze pro­dut­ti­ve socia­li, ha per con­di­zio­ne l’im­po­ve­ri­men­to del lavo­ra­to­re in for­ze pro­dut­ti­ve indi­vi­dua­li. ‘L’i­gno­ran­za’ dice Fer­gu­son ‘è la madre del­l’in­du­stria come lo è del­la super­sti­zio­ne. La rifles­sio­ne e l’im­ma­gi­na­zio­ne pos­so­no smar­rir­si; ma l’a­bi­tu­di­ne di muo­ve­re il pie­de o la mano non dipen­de né dal­l’u­na né dal­l’al­tra. Così potreb­be­si dire che la per­fe­zio­ne, rispet­to alle mani­fat­tu­re, con­si­ste nel poter fare a meno del­l’in­tel­li­gen­za, di manie­ra che l’of­fi­ci­na, non aven­do biso­gno di for­ze intel­let­tua­li, pos­sa esse­re con­si­de­ra­ta come una mac­chi­na le cui par­ti sono uomi­ni’. Gli è per que­sto che un cer­to nume­ro di mani­fat­tu­re, ver­so la metà del 18° seco­lo, impie­ga­va­no di pre­fe­ren­za per cer­te ope­ra­zio­ni, che for­ma­va­no un segre­to di fab­bri­ca, ope­rai mez­zo idio­ti. A. Smith dice: ‘L’in­tel­li­gen­za del­la mag­gior par­te degli uomi­ni si for­ma neces­sa­ria­men­te per mez­zo del­le loro occu­pa­zio­ni ordi­na­rie. Un uomo, che pas­sa tut­ta la vita ad ese­gui­re un pic­co­lo nume­ro d’o­pe­ra­zio­ni sem­pli­ci, non ha nes­su­na occa­sio­ne di svi­lup­pa­re la sua intel­li­gen­za, né di eser­ci­ta­re la sua imma­gi­na­zio­ne… Egli diven­ta, in gene­ra­le, tan­to igno­ran­te e tan­to stu­pi­do per quan­to è pos­si­bi­le ad una crea­tu­ra uma­na il diven­tar­lo’. Dopo aver dipin­to l’i­stu­pi­di­men­to del­l’o­pe­ra­io par­ti­cel­la­rio, A. Smith con­ti­nua così: ‘L’u­ni­for­mi­tà del­la sua vita sta­zio­na­ria cor­rom­pe natu­ral­men­te la gagliar­dia del suo spi­ri­to…, essa degra­da per­fi­no l’at­ti­vi­tà del suo cor­po e lo ren­de inca­pa­ce di spie­ga­re la sua for­za con vigo­re e per­se­ve­ran­za in un qual­sia­si altro impie­go che non sia quel­lo per il qua­le egli è sta­to edu­ca­to. Così la destrez­za del suo mestie­re è una qua­li­tà ch’e­gli pare abbia acqui­sta­to a spe­se del­le sue vir­tù intel­let­tua­li, socia­li e guer­rie­re. Ora, in ogni socie­tà indu­stria­le e civi­le, que­sto è lo sta­to nel qua­le deve neces­sa­ria­men­te cade­re l’o­pe­ra­io pove­ro, cioè la gran­de mas­sa del popo­lo’. Per rime­dia­re a que­sto dete­rio­ra­men­to com­ple­to, che risul­ta dal­la divi­sio­ne del lavo­ro, A. Smith rac­co­man­da l’i­stru­zio­ne popo­la­re obbli­ga­to­ria, pur con­si­glian­do d’am­mi­ni­strar­la con pru­den­za e a dosi omeo­pa­ti­che. Il suo tra­dut­to­re e com­men­ta­to­re fran­ce­se, G. Gar­nier, que­sto sena­to­re pre­de­sti­na­to del pri­mo Impe­ro, ha dato pro­va di logi­ca, com­bat­ten­do anche que­sto con­si­glio. L’i­stru­zio­ne del popo­lo, secon­do lui, è in con­trad­di­zio­ne con le leg­gi del­la divi­sio­ne del lavo­ro e adot­tar­la sareb­be pro­scri­ve­re tut­to il nostro siste­ma socia­le… ‘Come tut­te le altre divi­sio­ni del lavo­ro, quel­la che esi­ste tra il lavo­ro mec­ca­ni­co ed il lavo­ro intel­let­tua­le si accen­tua in una manie­ra sem­pre più for­te e più reci­sa, a misu­ra che la Socie­tà avan­za ver­so uno sta­to più opu­len­to. (Gar­nier chia­ma ‘socie­tà’ lo Sta­to col­la pro­prie­tà fon­dia­ria, il capi­ta­le, ecc.). Que­sta divi­sio­ne, come tut­te le altre, è un effet­to dei pro­gres­si pas­sa­ti ed una cau­sa dei pro­gres­si avve­ni­re… Il gover­no dovrà dun­que occu­par­si a con­tra­ria­re que­sta divi­sio­ne di lavo­ro ed a ritar­dar­la nel suo cam­mi­no natu­ra­le? Dovrà impie­ga­re una por­zio­ne del­le pub­bli­che entra­te per cer­ca­re di fon­de­re e mesco­la­re due gene­ri di lavo­ro, che ten­do­no da sé stes­si a divi­der­si?’ ” (K. Marx).

“Fer­gu­son dice: ‘L’ar­te di pen­sa­re, in un tem­po in cui tut­to è sepa­ra­to, può da sé stes­sa for­ma­re un mestie­re a par­te’ ” (K. Marx).

“Un cer­to intri­sti­men­to di cor­po e di spi­ri­to è inse­pa­ra­bi­le dal­la divi­sio­ne del lavo­ro nel­la socie­tà. E sic­co­me il perio­do mani­fat­tu­rie­ro esa­ge­ra que­sta divi­sio­ne socia­le e nel­l’i­stes­so tem­po che con la divi­sio­ne sua par­ti­co­la­re attac­ca l’in­di­vi­duo nel­la radi­ce stes­sa del­la sua vita, così è des­so che per il pri­mo for­ni­sce l’i­dea e la mate­ria d’u­na pato­lo­gia indu­stria­le. Ramaz­zi­ni, pro­fes­so­re di medi­ci­na pra­ti­ca in Pado­va, pub­bli­cò nel 1713 la sua ope­ra: ‘De mor­bis arti­fi­cum’ (sul­le malat­tie degli arti­gia­ni). Il suo cata­lo­go del­le malat­tie degli ope­rai è sta­to natu­ral­men­te mol­to aumen­ta­to dal­l’e­po­ca del­la gran­de indu­stria, come lo dimo­stra­no gli scrit­to­ri che ven­ne­ro dopo di lui: dot­to­re A.L. Fon­te­rel, Pari­gi 1858, Eduar­do Reich, Erlan­gen, 1868, ed altri; non­ché l’in­chie­sta ini­zia­ta, nel 1854, dal­la Socie­tà dei mestie­ri, in Inghil­ter­ra, e i Rap­por­ti uffi­cia­li sul­la pub­bli­ca sani­tà. D. Urqu­hart dice: ‘Sud­di­vi­de­re un uomo, vuol dire giu­sti­ziar­lo, se egli ha meri­ta­to una sen­ten­za di mor­te; vuol dire assas­si­nar­lo, se non la meri­ta. La sud­di­vi­sio­ne del lavo­ro è l’as­sas­si­nio d’un popo­lo’ ” (K. Marx).

“Hegel ave­va opi­nio­ni mol­to ere­ti­che sul­la divi­sio­ne del lavo­ro. Nel­la sua Filo­so­fia del Dirit­to dice: ‘Per uomo col­to deve­si dun­que inten­de­re colui che fa tut­to ciò che fan­no gli altri’ ”.

‘La divi­sio­ne del lavo­ro, nel­la sua for­ma capi­ta­li­sti­ca, non è che un meto­do par­ti­co­la­re di pro­dur­re il plu­sva­lo­re rela­ti­vo, o di accre­sce­re, a spe­se del lavo­ra­to­re, la ren­di­ta del capi­ta­le, ciò che chia­ma­si ric­chez­za nazio­na­le. A spe­se del lavo­ra­to­re, essa svi­lup­pa la for­za col­let­ti­va del lavo­ro a pro’ del capi­ta­li­sta. Essa crea cir­co­stan­ze nuo­ve, che assi­cu­ra­no la domi­na­zio­ne del capi­ta­le sul lavo­ro. Essa è una fase neces­sa­ria del­la for­ma­zio­ne eco­no­mi­ca del­la socie­tà, un mez­zo civi­le e raf­fi­na­to di sfrut­ta­men­to!’ ” (K. Marx).

CAPITOLO VII

MACCHINE E GRANDE INDUSTRIA

John Stuart Mill, nei suoi ‘Prin­ci­pii d’e­co­no­mia poli­ti­ca’, dice: “Resta anco­ra a sape­re se le inven­zio­ni mec­ca­ni­che, fat­te insi­no ad oggi, abbia­mo alleg­ge­ri­to il lavo­ro quo­ti­dia­no di un esse­re uma­no qua­lun­que”. Non era que­sto il loro sco­po. Come ogni altro svi­lup­po del­la for­za pro­dut­ti­va del lavo­ro, l’im­pie­go capi­ta­li­sta del­le mac­chi­ne non ten­de che a dimi­nui­re il prez­zo del­le mer­ci, a rac­cor­cia­re la par­te del­la gior­na­ta, nel­la qua­le il lavo­ra­to­re lavo­ra per se stes­so, affi­ne di allun­ga­re l’al­tra, nel­la qua­le egli non lavo­ra che per il capi­ta­li­sta. È un meto­do par­ti­co­la­re per fab­bri­ca­re plu­sva­lo­re relativo.

Ma chi è che pen­sa mai al lavo­ra­to­re? Se il capi­ta­li­sta si occu­pa di lui, è sola­men­te per stu­dia­re il modo miglio­re di sfrut­tar­lo. L’o­pe­ra­io ven­de la sua for­za lavo­ro, ed il capi­ta­li­sta la com­pra, come l’u­ni­ca mer­ce che, con il suo plu­sva­lo­re, pos­sa far­gli nasce­re e cre­sce­re il capi­ta­le. Il capi­ta­li­sta, dun­que, d’al­tro non si occu­pa che di fab­bri­ca­re sem­pre più plu­sva­lo­re. Dopo aver esau­ri­to le risor­se del plu­sva­lo­re asso­lu­to, ha tro­va­to il plu­sva­lo­re rela­ti­vo. Egli ora vede che con le mac­chi­ne si può otte­ne­re nel­lo stes­so tem­po un pro­dot­to due vol­te, quat­tro vol­te, die­ci vol­te, ecc. più gran­de di pri­ma; e adot­ta le mac­chi­ne. La coo­pe­ra­zio­ne, la mani­fat­tu­ra, si tra­sfor­ma così in gran­de indu­stria ed il suo opi­fi­cio in fab­bri­ca. Il capi­ta­li­sta, dopo aver muti­la­to e stor­pia­to l’o­pe­ra­io con la divi­sio­ne del lavo­ro, dopo di aver­lo limi­ta­to ad una sola ope­ra­zio­ne par­zia­le, ci fa assi­ste­re ad uno spet­ta­co­lo più tri­ste anco­ra. Egli strap­pa dal­le mani del lavo­ra­to­re quel­l’u­ni­co arne­se, il qua­le gli ricor­da­va anco­ra la sua arte, il suo anti­co sta­to di uomo com­ple­to, e lo affi­da alla mac­chi­na. D’o­ra in poi il capi­ta­li­sta non ha più biso­gno del lavo­ra­to­re, che come ser­vo del­le sue mac­chi­ne. Con l’in­tro­du­zio­ne del­le mac­chi­ne, il capi­ta­li­sta rea­liz­za a tut­ta pri­ma un enor­me pro­fit­to, come facil­men­te si com­pren­de, ricor­dan­do quan­to dicem­mo a pro­po­si­to del plu­sva­lo­re rela­ti­vo. Con la pro­pa­ga­zio­ne però del siste­ma di pro­du­zio­ne mec­ca­ni­ca, il gua­da­gno straor­di­na­rio ces­sa, e vi resta sola­men­te l’au­men­to di pro­du­zio­ne che, reso gene­ra­le dal­la gene­ra­liz­za­zio­ne del­le mac­chi­ne, vie­ne a dimi­nui­re il valo­re del­le cose neces­sa­rie all’o­pe­ra­io, il tem­po di lavo­ro neces­sa­rio, e i sala­rii, e ad aumen­ta­re il sopra­la­vo­ro e il plusvalore.

Il capi­ta­le si distin­gue in costan­te e varia­bi­le. Dice­si capi­ta­le costan­te quel­lo che è rap­pre­sen­ta­to dai mez­zi di lavo­ro e dal­le mate­rie di lavo­ro. Il fab­bri­ca­to, i calo­ri­fe­ri, gli stru­men­ti, le mate­rie ausi­lia­rie, come sego, car­bo­ne, olio, ecc., le mate­rie di lavo­ro, come fer­ro, bam­ba­gia, seta, argen­to, legno, ecc., sono tut­te cose che for­ma­no par­te del capi­ta­le costante.

Il capi­ta­le varia­bi­le è quel­lo che vie­ne rap­pre­sen­ta­to dal sala­rio, dal prez­zo cioè del­la for­za lavo­ro. Il pri­mo dice­si costan­te, per­ché costan­te resta il suo valo­re nel valo­re del­la mer­ce, del qua­le vie­ne a far par­te; men­tre il secon­do dice­si varia­bi­le, appun­to per­ché il suo valo­re aumen­ta entran­do a far par­te del valo­re del­la mer­ce. È il solo capi­ta­le varia­bi­le che crea plu­sva­lo­re; e la mac­chi­na non può far par­te che del capi­ta­le costante.

Il capi­ta­li­sta si pro­po­ne, nel­la gran­de indu­stria, di pro­fit­ta­re di una enor­me mas­sa di lavo­ro pas­sa­to, nel­la stes­sa gui­sa che pro­fit­te­reb­be di una mas­sa di for­ze natu­ra­li, cioè gra­tui­ta­men­te. Per riu­sci­re nel suo sco­po, però, egli ha biso­gno di ave­re tut­to un mec­ca­ni­smo, il qua­le si com­por­rà di mate­rie più o meno costo­se, ed assor­bi­rà sem­pre una cer­ta quan­ti­tà di lavo­ro. Egli non deve cer­ta­men­te com­pra­re la for­za del vapo­re, né le pro­prie­tà motri­ci del­l’ac­qua e del­l’a­ria; non deve cer­ta­men­te com­pra­re le sco­per­te e le appli­ca­zio­ni mec­ca­ni­che; né le inven­zio­ni ed i per­fe­zio­na­men­ti degli stru­men­ti di un mestie­re. Egli può avva­ler­si di tut­to ciò, sem­pre che voglia, sen­za la meno­ma spe­sa; ma ha biso­gno sola­men­te di pro­cu­rar­si tut­to un mec­ca­ni­smo atto a ciò. La mac­chi­na entra adun­que, come mez­zo di lavo­ro, a far par­te del capi­ta­le costan­te; e la pro­por­zio­ne, nel­la qua­le essa entra a com­por­re il valo­re del­la mer­ce, è in ragio­ne diret­ta del con­su­mo suo e del­le sue mate­rie ausi­lia­rie, car­bo­ne, gras­so, ecc., ed in ragio­ne inver­sa del valo­re del­la mer­ce. Cioè a dire che più si logo­ra una mac­chi­na con le sue mate­rie ausi­lia­rie nel pro­dur­re una mer­ce, più le comu­ni­ca del suo valo­re; men­tre più è gran­de il valo­re del­la mer­ce, per la qua­le la mac­chi­na lavo­ra, più è pic­co­la la par­te di valo­re che le per­vie­ne dal con­su­mo del­la macchina.

“Se il logo­ra­men­to gior­na­lie­ro di un mar­tel­lo a vapo­re, il suo con­su­mo di car­bo­ne, ecc., si distri­bui­sco­no sopra enor­mi mas­se di fer­ro mar­tel­la­to, ogni quin­ta­le di fer­ro non assor­be che una mini­ma par­te di valo­re; que­sta por­zio­ne sareb­be evi­den­te­men­te con­si­de­re­vo­le se l’i­stru­men­to ciclo­pi­co non faces­se che con­fic­ca­re pic­co­li chio­di” (K. Marx).

Quan­do, per la gene­ra­liz­za­zio­ne del siste­ma del­la gran­de indu­stria, la mac­chi­na ces­sa di esse­re fon­te diret­ta di pro­fit­to straor­di­na­rio per il capi­ta­li­sta, que­sti rie­sce a tro­va­re mol­te altre vie, per le qua­li poter con­ti­nua­re a ritrar­re gran­dis­si­ma quan­ti­tà di plu­sva­lo­re rela­ti­vo da que­sto nuo­vo modo di produzione.

“Il capi­ta­le, impos­ses­sa­to­si del­la mac­chi­na, leva tosto il gri­do: Lavo­ro di don­ne, lavo­ro di fan­ciul­li! Que­sto mez­zo poten­te di dimi­nui­re il lavo­ro del­l’uo­mo, si cam­bia tosto in mez­zo d’au­men­ta­re il nume­ro dei sala­ria­ti; egli cur­va tut­ti i mem­bri d’u­na fami­glia, sen­za distin­zio­ne d’e­tà e di ses­so, sot­to il basto­ne del capi­ta­le. Il lavo­ro for­za­to per il capi­ta­le usur­pa il posto dei giuo­chi d’in­fan­zia e del lavo­ro libe­ro per il man­te­ni­men­to del­la fami­glia; ed il soste­gno eco­no­mi­co del mora­le del­la fami­glia era appun­to que­sto lavo­ro dome­sti­co. Il valo­re del­la for­za lavo­ro era deter­mi­na­to dal­le spe­se di man­te­ni­men­to del­l’o­pe­ra­io e del­la sua fami­glia. Get­tan­do la fami­glia sul mer­ca­to, distri­buen­do così sopra diver­se for­ze il valo­re d’u­na sola, la mac­chi­na, la deprez­za. Può esse­re che le quat­tro for­ze, per esem­pio, che una fami­glia ope­ra­ia ven­de ora, le dia­no più che altra vol­ta dava la sola for­za del suo capo; ma nel­lo stes­so tem­po quat­tro gior­na­te di lavo­ro ne han­no sosti­tui­ta una sola, ed il prez­zo è ribas­sa­to in pro­por­zio­ne all’ec­ces­so del sopra­la­vo­ro di quat­tro sul sopra­la­vo­ro d’u­no solo.

Quat­tro per­so­ne devo­no ora for­ni­re non sola­men­te lavo­ro, ma anco­ra sopra­la­vo­ro al capi­ta­le, onde pos­sa vive­re una sola fami­glia. Gli è così che la mac­chi­na, aumen­tan­do la mate­ria uma­na sfrut­ta­bi­le, ele­va nel mede­si­mo tem­po il gra­do di sfrut­ta­men­to. L’im­pie­go capi­ta­li­sta del mec­ca­ni­smo alte­ra fon­da­men­tal­men­te il con­trat­to, la cui pri­ma con­di­zio­ne era che capi­ta­li­sta e ope­ra­io doves­se­ro pre­sen­tar­si in fac­cia l’u­no del­l’al­tro come per­so­ne libe­re, mer­can­ti tut­ti e due, l’u­no pos­ses­so­re di dena­ro o di mez­zi di pro­du­zio­ne, l’al­tro pos­ses­so­re di for­za lavo­ro. Tut­to ciò è rove­scia­to tosto che il capi­ta­le com­pra dei lavo­ra­to­ri. Altra vol­ta l’o­pe­ra­io ven­de­va la sua pro­pria for­za lavo­ro, del­la qua­le egli pote­va libe­ra­men­te dispor­re, ora egli ven­de moglie e figli; diven­ta mer­can­te di schia­vi” (K. Marx).

“Men­tre la mac­chi­na è il mez­zo più poten­te di accre­sce­re la pro­dut­ti­vi­tà del lavo­ro, cioè di rac­cor­cia­re il tem­po neces­sa­rio alla pro­du­zio­ne del­le mer­ci, essa divie­ne, come soste­gno del capi­ta­le, il mez­zo più poten­te di pro­lun­ga­re la gior­na­ta di lavo­ro al di là di ogni limi­te natu­ra­le. Il mez­zo di lavo­ro, dive­nu­to mac­chi­na, si leva indi­pen­den­te innan­zi al lavo­ra­to­re. Una sola pas­sio­ne ani­ma il capi­ta­li­sta: egli vuo­le for­za­re l’e­la­sti­ci­tà uma­na e stri­to­la­re tut­te le resi­sten­ze. La faci­li­tà evi­den­te del lavo­ro a mac­chi­na è l’e­le­men­to più maneg­ge­vo­le e più doci­le, che sono le don­ne e i fan­ciul­li, l’a­iu­ta­no in que­st’o­pe­ra di asservimento.

Il logo­ra­men­to mate­ria­le del­le mac­chi­ne si pre­sen­ta sot­to un dupli­ce aspet­to. Esse si con­su­ma­no da una par­te in ragio­ne del loro impie­go, come i pez­zi di mone­ta per la cir­co­la­zio­ne; d’al­tra par­te per la loro ina­zio­ne, come una spa­da che s’ir­ru­gi­ni­sce nel fode­ro. In que­st’ul­ti­mo caso diven­ta­no pre­da degli ele­men­ti. Il pri­mo gene­re di logo­ra­men­to è più o meno in ragio­ne diret­ta, l’ul­ti­mo è sino ad un cer­to pun­to in ragio­ne inver­sa del loro uso. La mac­chi­na è altre­sì sog­get­ta a ciò che potreb­be­si chia­ma­re suo logo­ra­men­to mora­le. Essa per­de di valo­re, a misu­ra che le mac­chi­ne del­la mede­si­ma costru­zio­ne sono ripro­dot­te a miglior mer­ca­to, o a misu­ra che mac­chi­ne per­fe­zio­na­te ven­go­no a far loro con­cor­ren­za” (K. Marx). Per ripa­ra­re a que­sto dan­no, il capi­ta­li­sta sen­te il biso­gno di far lavo­ra­re la sua mac­chi­na il più pos­si­bi­le, e comin­cia anzi­tut­to dal pro­lun­ga­re il lavo­ro gior­na­lie­ro, intro­du­cen­do il lavo­ro di not­te ed il siste­ma dei rilie­vi. Come lo indi­ca la paro­la stes­sa, usa­ta per indi­ca­re il cam­bio dei caval­li di posta, il siste­ma dei rilie­vi con­si­ste nel fare ese­gui­re il lavo­ro da due squa­dre di lavo­ra­to­ri, che si dan­no il cam­bio ogni dodi­ci ore, o da tre che si scam­bia­no ogni otto ore; in gui­sa che il lavo­ro pro­ce­de sem­pre sen­za la meno­ma inter­ru­zio­ne per tut­te le 24 ore. Que­sto siste­ma, tan­to pro­fi­cuo per capi­ta­le, è adot­ta­to altre­sì nel pri­mo momen­to del­la com­par­sa del­le mac­chi­ne, quan­do il capi­ta­li­sta ha mol­ta pre­mu­ra di riu­sci­re ad ammas­sa­re la mag­gior quan­ti­tà pos­si­bi­le di pro­fit­to straor­di­na­rio, che tosto dovrà ces­sa­re per la gene­ra­liz­za­zio­ne del­le mac­chi­ne stes­se. Il capi­ta­li­sta, adun­que, abbat­te col­le mac­chi­ne tut­ti gli osta­co­li di tem­po, tut­ti i limi­ti del­la gior­na­ta che nel­la mani­fat­tu­ra era­no impo­sti al lavo­ro. E quan­do egli è giun­to al limi­te del­la gior­na­ta natu­ra­le, ad assor­bi­re cioè tut­te le 24 ore del gior­no, egli tro­va il modo per fare di un gior­no solo due, tre, quat­tro e più gior­ni, inten­si­fi­can­do due, tre, quat­tro e più vol­te il lavo­ro. Infat­ti, se in una gior­na­ta di lavo­ro si tro­va modo di far ese­gui­re all’o­pe­ra­io un lavo­ro due vol­te, tre vol­te, quat­tro vol­te, ecc. più gran­de di pri­ma, è chia­ro che l’an­ti­ca gior­na­ta di lavo­ro cor­ri­spon­de­rà a due, a tre, a quat­tro e più gior­na­te di lavo­ro. Ed il capi­ta­li­sta tro­va il modo di far­lo, ren­den­do, come già abbia­mo det­to, più inten­so il lavo­ro, strin­gen­do, in altri ter­mi­ni, in una sola gior­na­ta il lavo­ro di due, tre, quat­tro e più gior­na­te. È con le mac­chi­ne che egli rie­sce a que­sto scopo.

“Per­fe­zio­nan­do la mac­chi­na a vapo­re, si rie­sce ad aumen­ta­re il nume­ro dei col­pi di stan­tuf­fo per minu­to e, gra­zie ad una sag­gia eco­no­mia di for­ze, a spin­ge­re con un moto­re del mede­si­mo volu­me un mec­ca­ni­smo più con­si­de­re­vo­le, sen­za aumen­ta­re per­tan­to il con­su­mo del car­bo­ne. Dimi­nuen­do l’at­tri­to degli orga­ni di tra­smis­sio­ne, ridu­cen­do il dia­me­tro ed il peso dei gran­di e pic­co­li albe­ri moto­ri, del­le ruo­te dei tam­bu­ri, ecc. ad un mini­mum sem­pre decre­scen­te, si arri­va a far tra­smet­te­re con più rapi­di­tà l’ac­cre­sciu­ta for­za d’im­pul­sio­ne del moto­re a tut­te le bran­che del mec­ca­ni­smo d’o­pe­ra­zio­ne. Il mec­ca­ni­smo stes­so è miglio­ra­to. Le dimen­sio­ni del­le mac­chi­ne stru­men­ti sono ridot­te, men­tre la loro mobi­li­tà e la loro effi­ca­cia sono aumen­ta­te, come nel moder­no tela­io da tes­se­re, ovve­ro le loro ossa­tu­re sono ingran­di­te con la dimen­sio­ne ed il nume­ro degli stru­men­ti che esse muo­vo­no, come nel­le mac­chi­ne da fila­re. Infi­ne, que­sti stru­men­ti subi­sco­no inces­san­ti modi­fi­ca­zio­ni di det­ta­glio, come furo­no quel­le che, cir­ca quin­di­ci anni or sono, accreb­be­ro d’un quin­to la velo­ci­tà dei fusi del­la mac­chi­na da fila­re. Un fab­bri­can­te ingle­se nel 1836 dichia­ra­va: ‘Para­go­na­to a quel­lo d’al­tra vol­ta, il lavo­ro da ese­guir­si nel­le fab­bri­che è oggi con­si­de­re­vol­men­te accre­sciu­to per l’at­ten­zio­ne e l’at­ti­vi­tà supe­rio­re che la velo­ci­tà mol­to aumen­ta­ta del­le mac­chi­ne esi­ge dal lavo­ra­to­re’. E, nel 1844, nel­la Came­ra dei Comu­ni si dis­se: ‘Il lavo­ro degli ope­rai, impie­ga­ti nel­le ope­ra­zio­ni di fab­bri­ca, è oggi tre vol­te più gran­de di quan­to lo era al momen­to in cui fu sta­bi­li­to que­sto gene­re d’o­pe­ra­zio­ni. Il siste­ma mec­ca­ni­co ha, sen­za alcun dub­bio, com­piu­to un’o­pe­ra, che richie­de­reb­be i ten­di­ni ed i musco­li di mol­ti milio­ni d’uo­mi­ni; ma egli ha pure pro­di­gio­sa­men­te aumen­ta­to il valo­re di quel­li, che sono sot­to­po­sti al suo movi­men­to ter­ri­bi­le’ ” (K. Marx).

“Nel­la fab­bri­ca la vir­tù di ado­pe­ra­re lo stru­men­to pas­sa dal­l’o­pe­ra­io alla mac­chi­na. La clas­si­fi­ca­zio­ne fon­da­men­ta­le diven­ta quel­la di lavo­ra­to­ri di mac­chi­ne stru­men­ti (com­pre­so­vi qual­che ope­ra­io inca­ri­ca­to di riscal­da­re la cal­da­ia a vapo­re) e di mano­va­li, qua­si tut­ti fan­ciul­li subor­di­na­ti ai pri­mi. In mez­zo a que­sti mano­va­li si tro­va­no più o meno tut­ti gli ali­men­ta­to­ri, che for­ni­sco­no alle mac­chi­ne le loro mate­rie pri­me. Accan­to a que­ste clas­si prin­ci­pa­li pren­de posto un per­so­na­le nume­ri­ca­men­te insi­gni­fi­can­te d’in­ge­gne­ri, di mec­ca­ni­ci, di fale­gna­mi, ecc., che sor­ve­glia­no il mec­ca­ni­smo gene­ra­le e prov­ve­do­no alle ripa­ra­zio­ni neces­sa­rie. È una clas­se supe­rio­re di lavo­ra­to­ri, gli uni for­ma­ti scien­ti­fi­ca­men­te, gli altri pos­se­den­do un mestie­re, mes­so al di fuo­ri del cir­co­lo degli ope­rai di fab­bri­ca, ai qua­li essi sono aggiun­ti come ingras­so. Ogni fan­ciul­lo impa­ra mol­to facil­men­te ad adat­ta­re i suoi movi­men­ti al movi­men­to con­ti­nuo ed uni­for­me del­l’au­to­ma. La rapi­di­tà con la qua­le i fan­ciul­li impa­ra­no il lavo­ro a mac­chi­na sop­pri­me radi­cal­men­te la neces­si­tà di con­ver­tir­lo in voca­zio­ne esclu­si­va d’u­na clas­se par­ti­co­la­re di lavo­ra­to­ri. La spe­cia­li­tà che con­si­ste a maneg­gia­re duran­te tut­ta la pro­pria vita un istru­men­to par­zia­le diven­ta la spe­cia­li­tà di ser­vi­re per tut­ta la pro­pria vita una mac­chi­na par­zia­le. Si abu­sa del mec­ca­ni­smo per tra­sfor­ma­re l’o­pe­ra­io, dal­la sua più tene­ra infan­zia, in par­ti­cel­la di una mac­chi­na, che fa essa stes­sa par­te di un’al­tra. Non sola­men­te le spe­se, che esi­ge la sua ripro­du­zio­ne, si tro­va­no in tal gui­sa con­si­de­re­vol­men­te dimi­nui­te, ma la sua dipen­den­za dal­la fab­bri­ca e per­ciò stes­so dal capi­ta­le è diven­ta­ta asso­lu­ta. Nel­la mani­fat­tu­ra e nel mestie­re, l’o­pe­ra­io si ser­ve del suo istru­men­to; nel­la fab­bri­ca, egli ser­ve la mac­chi­na. Là, il movi­men­to del­l’i­stru­men­to di lavo­ro par­te da lui; qui, egli non fa che seguir­lo. Nel­la mani­fat­tu­ra gli ope­rai for­ma­no tan­te mem­bra d’un mec­ca­ni­smo viven­te. Nel­la fab­bri­ca, essi sono incor­po­ra­ti ad un mec­ca­ni­smo mor­to, che esi­ste indi­pen­den­te­men­te da loro. La faci­li­tà stes­sa del lavo­ro diven­ta una tor­tu­ra, nel sen­so che la mac­chi­na non libe­ra l’o­pe­ra­io dal lavo­ro, ma spo­glia il lavo­ro del suo inte­res­se. Il mez­zo di lavo­ro, con­ver­ti­to in auto­ma, si driz­za innan­zi all’o­pe­ra­io, duran­te il pro­ces­so del lavo­ro, sot­to for­ma di capi­ta­le, di lavo­ro mor­to, che domi­na e inghiot­te la sua for­za viven­te. La gran­de indu­stria mec­ca­ni­ca com­pie final­men­te la sepa­ra­zio­ne tra il lavo­ro manua­le e le poten­ze intel­let­tua­li del­la pro­du­zio­ne, le qua­li essa tra­sfor­ma in pote­ri del capi­ta­le sul lavo­ro. L’a­bi­li­tà del­l’o­pe­ra­io appa­re meschi­na innan­zi alla scien­za pro­di­gio­sa, alle enor­mi for­ze natu­ra­li, alla gran­dez­za del lavo­ro socia­le incor­po­ra­to nel siste­ma mec­ca­ni­co, che costi­tui­sce la poten­za del Padro­ne. Nel cer­vel­lo di que­sto padro­ne, il suo mono­po­lio sul­le mac­chi­ne si con­fon­de con l’e­si­sten­za del­le mac­chi­ne stes­se. E, come dice Fede­ri­co Engels, in caso di con­flit­to coi suoi ope­rai egli get­ta loro in fac­cia que­ste paro­le sde­gno­se: ‘Gli ope­rai di fab­bri­ca fareb­be­ro mol­to bene a ricor­dar­si che il loro lavo­ro è dei più infe­rio­ri; che non ve n’ha un altro più faci­le ad impa­ra­re e che sia meglio paga­to, vista la sua qua­li­tà, poi­ché basta il meno­mo tem­po ed il meno­mo inse­gna­men­to per acqui­sta­re in esso tut­ta l’a­bi­li­tà volu­ta. Le mac­chi­ne del padro­ne rap­pre­sen­ta­no infat­ti una par­te ben più impor­tan­te nel­la pro­du­zio­ne, che il lavo­ro e l’a­bi­li­tà del­l’o­pe­ra­io, che recla­ma­no sola­men­te una edu­ca­zio­ne di sei mesi, e che un sem­pli­ce con­ta­di­no può impa­ra­re’. La subor­di­na­zio­ne tec­ni­ca del­l’o­pe­ra­io all’an­da­men­to uni­for­me del mez­zo di lavo­ro e la com­po­si­zio­ne par­ti­co­la­re del lavo­ra­to­re col­let­ti­vo con indi­vi­dui dei due ses­si e di ogni età, crea­no una disci­pli­na di caser­ma per­fet­ta­men­te ela­bo­ra­ta nel regi­me del­la fab­bri­ca. Là, il così det­to lavo­ro di sor­ve­glian­za e la divi­sio­ne degli ope­rai in sem­pli­ci sol­da­ti e sot­t’uf­fi­cia­li indu­stria­li sono spin­ti al loro ulti­mo gra­do di svi­lup­po. Ure, il decan­ta­to­re del­la fab­bri­ca, dice: ‘La prin­ci­pa­le dif­fi­col­tà non con­si­ste­va tan­to nel­la inven­zio­ne di un mec­ca­ni­smo auto­ma­ti­co…, la dif­fi­col­tà con­si­ste­va spe­cial­men­te nel­la disci­pli­na, neces­sa­ria per far rinun­zia­re agli uomi­ni le loro abi­tu­di­ni irre­go­la­ri nel lavo­ro, e iden­ti­fi­car­li col­la rego­la­ri­tà inva­ria­bi­le del gran­de auto­ma. Inven­ta­re e met­te­re in vigo­re con suc­ces­so un codi­ce di disci­pli­na mani­fat­tu­rie­ra con­ve­nien­te ai biso­gni ed alla cele­ri­tà del siste­ma auto­ma­ti­co, ecco un’in­tra­pre­sa degna di Erco­le’. Get­tan­do da ban­da la divi­sio­ne dei pote­ri e il siste­ma rap­pre­sen­ta­ti­vo, tan­to pre­di­let­ti dal­la bor­ghe­sia, il capi­ta­li­sta for­mu­la, da legi­sla­to­re pri­va­to e come meglio gli pia­ce, il suo pote­re auto­cra­ti­co sui suoi ope­rai, nel suo codi­ce di fab­bri­ca. La fru­sta del con­dut­to­re di schia­vi è qui sosti­tui­ta dal libro del­le puni­zio­ni, che tut­te si risol­vo­no natu­ral­men­te in ammen­de e rite­nu­te sul salario.

  1. Engels dice: ‘La schia­vi­tù alla qua­le la bor­ghe­sia ha sot­to­po­sto il pro­le­ta­ria­to, si pre­sen­ta sot­to il suo vero aspet­to nel siste­ma del­la fab­bri­ca. Qui ogni liber­tà ces­sa di fat­to e di dirit­to. L’o­pe­ra­io deve esse­re la mat­ti­na nel­la fab­bri­ca alle cin­que e mez­zo; se vie­ne due minu­ti più tar­di incor­re nel­l’am­men­da; se è in ritar­do di die­ci minu­ti, non lo si fa entra­re che dopo cola­zio­ne, e per­de il quar­to del suo sala­rio gior­na­lie­ro. Il fab­bri­can­te è legi­sla­to­re asso­lu­to. Fa rego­la­men­ti come gli sal­ta in testa, modi­fi­ca ed amplia il suo codi­ce a suo pia­ce­re, e se v’in­tro­du­ce l’ar­bi­trio più stra­va­gan­te, i tri­bu­na­li rispon­do­no ai lavo­ra­to­ri: Poi­ché voi ave­te accet­ta­to volon­ta­ria­men­te que­sto con­trat­to, dove­te sot­to­met­ter­vi­ci. Que­sti lavo­ra­to­ri sono con­dan­na­ti ad esse­re così tor­men­ta­ti fisi­ca­men­te e moral­men­te dal loro nono anno sino alla loro mor­te’. Pren­dia­mo due casi, per esem­pio, di ciò che dico­no i tri­bu­na­li. A Shef­field nel 1866 un ope­ra­io si era impe­gna­to per due anni in una fab­bri­ca metal­lur­gi­ca. Per que­re­la avu­ta col fab­bri­can­te egli lasciò la fab­bri­ca e dichia­rò di non voler­vi ritor­na­re a nes­sun costo. Accu­sa­to di rot­tu­ra di con­trat­to, è con­dan­na­to a due mesi di pri­gio­ne. (Se il fab­bri­can­te vio­la lui il con­trat­to, non può esse­re che tra­dot­to innan­zi ai tri­bu­na­li civi­li, e non rischia che un’am­men­da). Com­piu­ti i due mesi, il mede­si­mo fab­bri­can­te gl’in­ti­ma di ritor­na­re in fab­bri­ca, secon­do l’an­ti­co con­trat­to. L’o­pe­ra­io si rifiu­ta, alle­gan­do che egli ha pur­ga­to la sa pena. Tra­dot­to nuo­va­men­te in giu­di­zio, è di nuo­vo con­dan­na­to dal tri­bu­na­le, ben­ché uno dei giu­di­ci dichia­ras­se pub­bli­ca­men­te esse­re una enor­mi­tà giu­ri­di­ca, che un uomo pos­sa venir con­dan­na­to perio­di­ca­men­te duran­te tut­ta la sua vita, pel mede­si­mo delit­to. Que­sto giu­di­zio fu pro­nun­zia­to da una del­le più alte Cor­ti di giu­sti­zia di Lon­dra. Il secon­do caso avven­ne nel Wil­tshi­re, nel novem­bre 1863. Cir­ca tren­ta tes­si­to­ri a vapo­re, occu­pa­ti da un cer­to Har­rupp, fab­bri­can­te di pan­ni, si mise­ro in scio­pe­ro, per­ché il det­to Har­rupp, ave­va la gra­zio­sa abi­tu­di­ne di fare una rite­nu­ta di sala­rio per ogni ritar­do del mat­ti­no. Egli rite­ne­va dodi­ci sol­di per due minu­ti, uno scel­li­no (ven­ti­quat­tro sol­di) per tre minu­ti e uno scel­li­no e mez­zo per die­ci minu­ti. Ciò fa dodi­ci lire e un quin­to di cen­te­si­mo per ora, l. 112,50 per gior­no, men­tre che il sala­rio, in media, non sor­pas­sa­va mai dodi­ci o quat­tor­di­ci lire per set­ti­ma­na. Har­rupp ave­va appo­sta­to un ragaz­zo per suo­na­re l’o­ra del­la fab­bri­ca; il che que­sti face­va tal­vol­ta pri­ma del­le sei del mat­ti­no; e tosto ave­va fini­to, le por­te era­no chiu­se, e tut­ti gli ope­rai che si tro­va­va­no fuo­ri subi­va­no una ammen­da. Sic­co­me non vi era oro­lo­gio in que­sto sta­bi­li­men­to, i disgra­zia­ti era­no a discre­zio­ne del bric­con­cel­lo, ispi­ra­to dal padro­ne. Le madri di fami­glia e le gio­va­net­te, com­pre­se nel­lo scio­pe­ro, dichia­ra­ro­no che esse si sareb­be­ro rimes­se al lavo­ro tosto che il suo­na­to­re fos­se sosti­tui­to da un oro­lo­gio, e che la tarif­fa si ren­des­se più ragio­ne­vo­le. Har­rupp citò 19 don­ne e fan­ciul­le innan­zi al magi­stra­to per rot­tu­ra di con­trat­to. Esse furo­no con­dan­na­te cia­scu­na a mez­zo scel­li­no di ammen­da e due scel­li­ni per le spe­se, in mez­zo allo stu­po­re del­l’u­di­to­rio. Har­rupp, all’u­sci­re dal tri­bu­na­le, fu salu­ta­to dai fischi del­la fol­la” (K. Marx).

I tri­sti effet­ti del­la fab­bri­ca e del­la gran­de indu­stria sono sem­pre pre­ve­du­ti dai lavo­ra­to­ri, come lo dimo­stra l’ac­co­glien­za che essi fan­no ogno­ra alle pri­me mac­chi­ne. Nel dicias­set­te­si­mo seco­lo, in qua­si tut­ta l’Eu­ro­pa, scop­pia­ro­no sol­le­va­zio­ni ope­ra­ie con­tro una mac­chi­na tes­si­tri­ce di nastri e gal­lo­ni, chia­ma­ta Band­mue­hle o Mue­hlen­stu­hl. Essa fu inven­ta­ta in Ger­ma­nia. L’a­ba­te Lan­ce­lot­ti rac­con­ta, nel 1636, che: “Anton Muel­ler di Dan­zi­ca ha vedu­to in que­sta cit­tà, cir­ca 50 anni or sono, una mac­chi­na mol­to inge­gno­sa, che ese­gui­va con­tem­po­ra­nea­men­te da quat­tro a sei tes­su­ti. Ma il magi­stra­to, temen­do che que­sta inven­zio­ne con­ver­tis­se gran nume­ro di ope­rai in men­di­can­ti, la sop­pres­se, e fece sof­fo­ca­re o anne­ga­re l’in­ven­to­re. Nel 1629, que­sta mede­si­ma mac­chi­na fu per la pri­ma vol­ta impie­ga­ta a Lei­da, dove le som­mos­se dei spi­net­ta­ri for­za­ro­no i magi­stra­ti a pro­scri­ver­la. Box­horn dice a que­sto pro­po­si­to: ‘In que­sta cit­tà alcu­ni indi­vi­dui inven­ta­ro­no, ven­ti anni or sono, un tela­io da tes­se­re, per mez­zo del qua­le un solo ope­ra­io pote­va ese­gui­re più tes­su­ti e più facil­men­te che mol­ti altri nel mede­si­mo tem­po. Da ciò tumul­ti e que­re­le da par­te dei tes­si­to­ri, che fece­ro pro­scri­ve­re dai magi­stra­ti l’u­so di que­sto stru­men­to’ ” (K. Marx).

Dopo aver lan­cia­to con­tro que­sto tela­io da tes­se­re edit­ti più o meno proi­bi­ti­vi, nel 1632, 1639, ecc. gli Sta­ti gene­ra­li di Olan­da ne per­mi­se­ro final­men­te l’im­pie­go sot­to cer­te con­di­zio­ni, con l’e­dit­to del 15 dicem­bre 1661.

“Il Band­stu­hl fu pro­scrit­to a Colo­nia, nel 1676, men­tre la sua intro­du­zio­ne in Inghil­ter­ra, ver­so la mede­si­ma epo­ca, vi pro­vo­cò tur­bo­len­ze fra i tes­si­to­ri. Un edit­to impe­ria­le, del 19 feb­bra­io del 1685, inter­dis­se il suo uso in tut­ta la Ger­ma­nia. Ad Ambur­go fu bru­cia­to pub­bli­ca­men­te per ordi­ne del magi­stra­to. L’im­pe­ra­to­re Car­lo VI rin­no­vò, in feb­bra­io 1719, l’e­dit­to del 1685; ed è sola­men­te nel 1765 che l’u­so pub­bli­co ne fu per­mes­so nel­la Sas­so­nia elet­to­ra­le. Que­sta mac­chi­na, che scos­se l’Eu­ro­pa, fu il pre­cur­so­re del­le mac­chi­ne da fila­re e da tes­se­re, e pre­lu­diò la rivo­lu­zio­ne indu­stria­le del diciot­te­si­mo seco­lo. Essa per­met­te­va, al ragaz­zo più ine­sper­to, di far lavo­ra­re tut­to un tela­io con le sue spo­le, avan­zan­do e riti­ran­do una per­ti­ca, e for­nen­do, nel­la sua for­ma per­fe­zio­na­ta, da 40 a 50 capi alla vol­ta. Ver­so la fine del pri­mo ter­zo del dicias­set­te­si­mo seco­lo, una sega a ven­to, sta­bi­li­ta da un olan­de­se nel­le vici­nan­ze di Lon­dra, fu distrut­ta dal popo­lo. Al prin­ci­pio del diciot­te­si­mo seco­lo, le seghe ad acqua non trion­fa­ro­no che dif­fi­cil­men­te del­la resi­sten­za popo­la­re soste­nu­ta dal Par­la­men­to. Quan­do Eve­ret, nel 1758, costruì la pri­ma mac­chi­na ad acqua per tosa­re la lana, cen­to­mi­la uomi­ni, mes­si da essa fuo­ri di lavo­ro, la ridus­se­ro in cene­re. Cin­quan­ta­mi­la ope­rai, che gua­da­gna­va­no la vita car­dan­do la lana, riem­pi­ro­no il Par­la­men­to di peti­zio­ni con­tro la mac­chi­na da car­da­re. La distru­zio­ne di nume­ro­se mac­chi­ne dei distret­ti mani­fat­tu­rie­ri ingle­si duran­te i pri­mi quin­di­ci anni del dician­no­ve­si­mo seco­lo, det­te al gover­no il pre­te­sto di vio­len­ze ultra-rea­zio­na­rie. Ci vuo­le tem­po ed espe­rien­za, pri­ma che gli ope­rai impa­ri­no a distin­gue­re fra la mac­chi­na ed il suo impie­go capi­ta­li­sta, e diri­ga­no i loro attac­chi non con­tro il mez­zo mate­ria­le di pro­du­zio­ne ma con­tro il suo modo socia­le di sfrut­ta­men­to” (K. Marx).

Ecco, adun­que, qua­li sono i risul­ta­ti del­le mac­chi­ne e del­la gran­de indu­stria per i lavo­ra­to­ri. Que­sti sono, anzi­tut­to, scac­cia­ti in gran nume­ro dal­le fab­bri­che, nel­le qua­li la mac­chi­na ha pre­so il loro posto. I pochi che vi resta­no devo­no subi­re l’u­mi­lia­zio­ne di veder­si strap­pa­re di mano l’ul­ti­mo stru­men­to di lavo­ro e di esse­re ridot­ti alla con­di­zio­ne di ser­vi del­le mac­chi­ne; devo­no sop­por­ta­re il peso di una gior­na­ta di lavo­ro straor­di­na­ria­men­te cre­sciu­ta; rinun­zia­re a moglie e figli, dive­nu­ti gli schia­vi del capi­ta­le; e sof­fri­re, final­men­te, gl’in­de­scri­vi­bi­li spa­si­mi, pro­dot­ti dal­le tor­tu­re di un lavo­ro pro­gres­si­va­men­te inten­si­fi­ca­to dal­la fol­le libi­di­ne di plu­sva­lo­re, dal­la qua­le è pre­so il capi­ta­li­sta nel perio­do del­la gran­de indu­stria. Ma al dio capi­ta­le non man­ca­no i teo­lo­gi, che tut­to spie­ga­no, e tut­to giu­sti­fi­ca­no con le loro eter­ne leg­gi. Al dispe­ra­to gri­do dei lavo­ra­to­ri affa­ma­ti dal­le mac­chi­ne, essi rispon­do­no con l’an­nun­zio di una pere­gri­na leg­ge di compensazione.

“Una falan­ge di eco­no­mi­sti bor­ghe­si, James Mill, Mac Cul­loch, Tor­rens, Senior, J. St. Mill, ecc., sosten­go­no che, spo­stan­do ope­rai occu­pa­ti, la mac­chi­na disim­pe­gna, per que­sto fat­to stes­so, un capi­ta­le desti­na­to a impie­gar­li di nuo­vo in un’al­tra occu­pa­zio­ne qua­lun­que. Met­tia­mo che in una fab­bri­ca di tap­pe­ti s’im­pie­ghi un capi­ta­le di 6000 lire ster­li­ne, del­le qua­li una metà è avan­za­ta in mate­rie pri­me (si fa astra­zio­ne dai fab­bri­ca­ti, ecc.) e l’al­tra metà con­sa­cra­ta al paga­men­to di cen­to ope­rai, cia­scu­no dei qua­li rice­ve un sala­rio annua­le di 30 l. st. A un momen­to dato il capi­ta­li­sta con­ge­da 50 ope­rai, e li sosti­tui­sce con una mac­chi­na di 1500 l.st. Si disim­pe­gna un capi­ta­le per que­sta ope­ra­zio­ne? Ori­gi­na­ria­men­te la som­ma tota­le di 6000 l. st. si divi­de­va in un capi­ta­le costan­te di 3000 l.st. ed un capi­ta­le varia­bi­le di 3000 l.st. Ora essa con­si­ste in un capi­ta­le costan­te di 4500 l.st., — 3000 l.st. per mate­rie pri­me e 1500 l.st. per la mac­chi­na — e un capi­ta­le varia­bi­le di 1500 l.st. per la paga di 50 ope­rai. L’e­le­men­to varia­bi­le è cadu­to dal­la metà a un quar­to del capi­ta­le tota­le. Inve­ce di esse­re disim­pe­gna­to, un capi­ta­le di 1500 l.st. si tro­va impie­ga­to sot­to una for­ma nel­la qua­le ces­sa di esse­re scam­bia­bi­le con­tro la for­za di lavo­ro, cioè da varia­bi­le è dive­nu­to costan­te. In avve­ni­re il capi­ta­le tota­le di 6000 l. st. non occu­pe­rà mai più di 50 ope­rai e ne occu­pe­rà meno ad ogni per­fe­zio­na­men­to del­la mac­chi­na. Per com­pia­ce­re i teo­ri­ci del­la com­pen­sa­zio­ne, noi ammet­te­re­mo che il prez­zo del­la mac­chi­na sia mino­re del­la som­ma dei sala­ri sop­pres­si, che essa non costi che 1000 l.st., inve­ce di 1500 l.st. Nei nostri nuo­vi dati il capi­ta­le di 1500 l.st. altra vol­ta avan­za­to in sala­ri, si divi­de ora come segue: 1000 l.st. impe­gna­te sot­to for­ma di mac­chi­ne e 500 l.st. disim­pe­gna­te dal loro impie­go nel­la fab­bri­ca di tap­pe­ti, e che pos­so­no fun­zio­na­re come nuo­vo capi­ta­le. Se il sala­rio resta lo stes­so, ecco un fon­do che ser­vi­reb­be per occu­pa­re cir­ca sedi­ci ope­rai, men­tre ve n’ha cin­quan­ta di con­ge­da­ti; ma esso ne occu­pe­rà mol­to meno di sedi­ci, poi­ché, per tra­sfor­mar­si in capi­ta­le, le 500 l.st. devo­no in par­te esse­re spe­se in istru­men­ti, mate­rie, ecc., in una paro­la, com­pren­de­re un ele­men­to costan­te, incon­ver­ti­bi­le in sala­ri. Se la costru­zio­ne del­la mac­chi­na dà lavo­ro ad un nume­ro addi­zio­na­le di ope­rai mec­ca­ni­ci, sareb­be for­se quel­la la com­pen­sa­zio­ne dei tap­pez­zie­ri get­ta­ti sul lastri­co? In ogni caso, la sua costru­zio­ne occu­pa meno ope­rai di quan­to il suo impie­go ne spo­sta. La som­ma di 1500 l.st. che, in rap­por­to ai tap­pez­zie­ri licen­zia­ti, non rap­pre­sen­ta, in rap­por­to alla mac­chi­na, non solo il valo­re dei mez­zi di pro­du­zio­ne neces­sa­ri per la sua costru­zio­ne, ma ezian­dio il sala­rio di mec­ca­ni­ci ed il plu­sva­lo­re devo­lu­to al loro padro­ne. Di più, una vol­ta fat­ta, la mac­chi­na non si rifà che dopo la sua mor­te, e per occu­pa­re in modo per­ma­nen­te il nume­ro addi­zio­na­le dei mec­ca­ni­ci, è neces­sa­rio che le mani­fat­tu­re di tap­pe­ti, l’u­na dopo l’al­tra, spo­sti­no ope­rai con le mac­chi­ne. Ma non è a ciò che mira­no i dot­tri­na­ri del­la com­pen­sa­zio­ne. Per essi, l’af­fa­re impor­tan­te è la sus­si­sten­za degli ope­rai con­ge­da­ti. Pri­va­no di nostri 50 ope­rai del loro sala­rio di 1500 l.st. la mac­chi­na impe­di­sce loro il con­su­mo di 1500 l.st. di sostan­ze. Ecco il fat­to nel­la sua tri­ste real­tà! Affa­ma­re l’o­pe­ra­io i signo­ri dal ven­tre pie­no lo chia­ma­no ren­de­re dei vive­ri dispo­ni­bi­li per l’o­pe­ra­io, come nuo­vo fon­do d’im­pie­go in un’al­tra indu­stria. Come si vede, tut­to dipen­de dal­la manie­ra d’e­spri­mer­si. Nomi­ni­bus mol­li­re licet mala. È leci­to pal­lia­re con del­le paro­le i mali” (K. Marx).

CAPITOLO VIII

IL SALARIO

I soste­ni­to­ri del modo di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta preten­dono che il sala­rio sia il paga­men­to del lavo­ro, e il plu­svalore il pro­dot­to del capitale.

Ma che cosa è il valo­re del lavo­ro? Il lavo­ro, o si tro­va anco­ra nel lavo­ra­to­re, o ne è di già usci­to; cioè a di­re, il lavo­ro, o è la for­za, la poten­za di fare una cosa, o è la cosa stes­sa già fat­ta: insom­ma, il lavo­ro, o è la for­za di lavo­ro, o è la mer­ce. Il lavo­ra­to­re non può vende­re il lavo­ro già usci­to da lui, cioè la cosa che egli pro­duce, la mer­ce, per­ché que­sta appar­tie­ne al capi­ta­li­sta, e non a lui. Per­ché il lavo­ra­to­re potes­se ven­de­re il la­voro già usci­to da lui, cioè la mer­ce da lui pro­dot­ta, do­vrebbe pos­se­de­re i mez­zi di lavo­ro e le mate­rie di lavo­ro, e allo­ra egli sareb­be mer­can­te del­le mer­ci da lui pro­dotte. Ma egli non pos­sie­de nul­la, è un pro­le­ta­rio, che, per vive­re, ha biso­gno di ven­de­re ad altri il solo bene che gli resta, che è la sua poten­za o for­za di lavo­ra­re, la for­za di lavo­ro. Il capi­ta­li­sta dun­que altro non può com­pra­re che la for­za di lavo­ro; la qua­le, come tut­te le altre mer­ci, ha un valo­re di uso e un valo­re di scam­bio. Il capi­ta­li­sta paga il valo­re pro­pria­men­te det­to, che è il valo­re di scam­bio, al lavo­ra­to­re per la mer­ce, che uni­sti gli ven­de. Ma la for­za di lavo­ro ha pure un valo­re di uso, il qua­le appar­tie­ne al capi­ta­li­sta che l’ha com­pra­ta. Ora, il valo­re d’u­so di que­sta mer­ce sin­go­la­re lui una dop­pia qua­li­tà. La pri­ma è quel­la che essa ha in comu­ne con il valo­re d’u­so di tut­te le altre mer­ci, cioè, di sod­di­sfa­re un biso­gno; la secon­da è quel­la, tut­ta sua spe­cia­le, di crea­re valo­re, che distin­gue que­sta mer­ce da tut­te le altre.

Dun­que, il sala­rio altro non può rap­pre­sen­ta­re che il prez­zo del­la for­za di lavo­ro. E il plu­sva­lo­re non può es­sere pro­dot­to dal capi­ta­le, per­ché il capi­ta­le è mate­ria iner­te, che tro­va­si nel­la mer­ce sem­pre nel­la stes­sa quan­ti­tà di valo­re nel­la qua­le ci è entra­to; è mate­ria che non ha vita alcu­na, e che, rima­nen­do da sé sola, sen­za la for­za di lavo­ro, non potreb­be mai aver­ne. È la for­za di lavo­ro che sola­men­te può pro­dur­re plu­sva­lo­re. È des­sa che por­ta il pri­mo ger­me di vita al capi­ta­le. È des­sa che man­tie­ne tut­ta la vita del capi­ta­le. Que­sto, altro non fa che, dap­pri­ma, suc­chia­re, poscia assor­bi­re da tut­ti i pori, e final­men­te pom­pa­re gagliar­da­men­te plusva­lore dal lavoro.

Le due for­me prin­ci­pa­li di sala­rio sono: sala­rio a tem­po e sala­rio a cot­ti­mo, a fat­tu­ra, o a capo, che dir si voglia.

Il sala­rio a tem­po è quel­lo che vie­ne paga­to per un da­to tem­po; come per una gior­na­ta, per una set­ti­ma­na, per un mese, ecce­te­ra, di lavo­ro. Esso non è che una trasfor­mazione del prez­zo del­la for­za di lavo­ro. Inve­ce di dire che l’o­pe­ra­io ha ven­du­to la sua for­za di lavo­ro di una gior­na­ta per 3 lire, si dice che l’o­pe­ra­io va a lavo­ra­re per un sala­rio di 3 lire al giorno.

Il sala­rio di 3 lire al gior­no è dun­que il prez­zo del­la for­za di lavo­ro per una gior­na­ta. Ma que­sta gior­na­ta può es­sere più o meno lun­ga. Se è di 10 ore, per esem­pio, la for­za di lavo­ro vie­ne paga­ta a 30 cen­te­si­mi l’o­ra, men­tre, se i è di 12 ore, la for­za di lavo­ro vie­ne paga­ta a 25 centesi­mi l’o­ra. Dun­que, il capi­ta­li­sta, pro­lun­gan­do la gior­na­ta di lavo­ro, vie­ne a paga­re all’o­pe­ra­io un prez­zo mino­re per la sua for­za di lavo­ro. Il capi­ta­li­sta può anche aumen­ta­re il sala­rio, pur con­ti­nuan­do a paga­re all’o­pe­ra­io, per la sua for­za di lavo­ro, lo stes­so prez­zo di pri­ma, e anche me­no. Se un capi­ta­li­sta aumen­ta il sala­rio del suo ope­ra­io da 3 lire a 3,60 al gior­no, e nel­lo stes­so tem­po la giorna­ta la pro­lun­ga da 10 ore che era pri­ma, sino a 12 ore, egli, pur aumen­tan­do di L.0,60 il sala­rio gior­na­lie­ro, ver­rà sem­pre a paga­re all’o­pe­ra­io L. 0,30 all’o­ra per la sua for­za di lavo­ro. Se poi il capi­ta­li­sta aumen­ta il sala­rio da L. 3 a L. 3,60, ma, nel­lo stes­so tem­po, pro­lun­ga la gior­nata da 10 a 15 ore, egli, pur aumen­tan­do il sala­rio gior­naliero, riu­sci­rà a paga­re all’o­pe­ra­io per la sua for­za di la­voro meno di pri­ma, cioè 24 cen­te­si­mi inve­ce di 30 cen­tesimi l’o­ra. Lo stes­so effet­to ottie­ne il capi­ta­li­sta, se, in­vece di aumen­ta­re il lavo­ro in lun­ghez­za, l’au­men­ta in ispes­sez­za; come già abbia­mo visto poter egli fare con le mac­chi­ne. Insom­ma, il capi­ta­li­sta, aumen­tan­do il lavo­ro, rie­sce a fro­da­re one­sta­men­te l’o­pe­ra­io; e può far­lo an­che pro­cu­ran­do­si fama di gene­ro­so, con l’au­men­ta­re il suo sala­rio giornaliero.

Quan­do il capi­ta­li­sta paga l’o­pe­ra­io a ore, tro­va ancor modo di dan­neg­giar­lo, aumen­tan­do o dimi­nuen­do il la­voro, ma pagan­do sem­pre one­sta­men­te il mede­si­mo prez­zo per ogni ora di lavo­ro. Sia, infat­ti, 25 cen­te­si­mi il sa­lario di un’o­ra di lavo­ro. Se il capi­ta­li­sta fa lavo­ra­re l’o­pe­ra­io per 8 ore, inve­ce di 12, gli paghe­rà L. 2, inve­ce di L. 3; gli farà per­de­re, cioè, una lira, con la qua­le l’o­pe­ra­io deve sod­di­sfa­re la ter­za par­te dei suoi biso­gni gior­na­lie­ri. Inver­sa­men­te, se il capi­ta­li­sta fa lavo­ra­re l’o­pe­ra­io per 14 o 16 ore, inve­ce di 12, pur pagan­do­gli L. 3,50 o L. 4 inve­ce di L. 3, egli vie­ne a pren­de­re dal­l’o­pe­ra­io 2 o 4 ore di lavo­ro a un prez­zo mino­re di quel­lo che vale. Dopo 12 ore di lavo­ro le for­ze dell’ope­raio han­no già subi­to un con­su­mo; e le altre 2 o 4 ore di lavo­ro, fat­te in più, costa­no più del­le pri­me 12. Que­sta ragio­ne, pre­sen­ta­ta dai lavo­ra­to­ri, la si vede infat­ti accet­ta­ta in diver­se indu­strie, dove si paga­no a un prez­zo mag­gio­re le ore fat­te in più di quel­le stabilite.

Quan­to mino­re è il prez­zo del­la for­za di lavo­ro, rap­presentata dal sala­rio a tem­po, tan­to più il tem­po del la­voro è lun­go. E ciò è chia­ro. Se il sala­rio è di L. 0,25 l’o­ra, inve­ce di L. 0,30, il lavo­ra­to­re ha biso­gno di fare una gior­na­ta di 12 ore, inve­ce di far­ne una di 10, per pro­cacciarsi le L. 3 richie­ste dai suoi biso­gni gior­na­lie­ri. Se il sala­rio è di L. 2 al gior­no, il lavo­ra­to­re ha biso­gno di fare 3 gior­na­te, inve­ce di 2, per pro­cu­rar­si quan­to gli bi­sogna in 2 gior­ni soli. Qui la dimi­nu­zio­ne del sala­rio fa aumen­ta­re il lavo­ro; ma avvie­ne altre­sì che l’au­men­to del lavo­ro fa dimi­nui­re il sala­rio. Per l’in­tro­du­zio­ne del­le mac­chi­ne, per esem­pio, un ope­ra­io vie­ne a pro­dur­re il dop­pio di pri­ma; allo­ra il capi­ta­li­sta dimi­nui­sce il nume­ro del­le brac­cia; per con­se­guen­za si aumen­ta­no le doman­de di lavo­ro, e i sala­ri calano.

Il sala­rio a cot­ti­mo, a fat­tu­ra o a capo, che dir si voglia, altro non è che una tra­sfor­ma­zio­ne del sala­rio a tem­po; come ce lo mostra anche il fat­to che que­ste due for­me di sala­rio si tro­va­no usa­te indif­fe­ren­te­men­te, non solo nel­le diver­se indu­strie, ma tal­vol­ta anche in una mede­si­ma industria.

Un ope­ra­io lavo­ra 12 ore al gior­no per un sala­rio di L. 3 e pro­du­ce un valo­re di L. 6. Qui è indif­fe­ren­te dire che l’o­pe­ra­io pro­du­ce, nel­le pri­me 6 ore del suo lavo­ro, le L. 3 del suo sala­rio, e, nel­le altre 6 ore, le L. 3 di plu­svalore; il che equi­va­le a dire che l’o­pe­ra­io pro­du­ce, in ogni pri­ma mez­z’o­ra, L. 0,25, una dodi­ce­si­ma par­te del suo sala­rio, e, in ogni secon­da mez­z’o­ra, L. 0,25, una do­dicesima par­te del plu­sva­lo­re. Nel­la stes­sa gui­sa, se l’ope­raio pro­du­ce, in 12 ore di lavo­ro, 24 capi, e per­ce­pi­sce cen­te­si­mi 12,5 per capo, in tut­to L. 3, è per­fet­ta­men­te come dire che l’o­pe­ra­io pro­du­ce 12 capi per ripro­dur­re le L. 3 a lui toc­ca­te in paga­men­to, e 12 capi per pro­dur­re L. 3 di plu­sva­lo­re; ovve­ro che l’o­pe­ra­io pro­du­ce, in ogni ora di lavo­ro, un capo per il suo paga­men­to, e un capo per il gua­da­gno del suo padrone.

«Nel lavo­ro a capo, la qua­li­tà del lavo­ro è con­trol­la­ta dal­l’o­pe­ra mede­si­ma, che deve esse­re di una bon­tà me­dia, affin­ché il capo sia paga­to al prez­zo con­ve­nu­to. Sot­to que­sto rap­por­to, il sala­rio a capo diven­ta una sorgen­te infi­ni­ta di pre­te­sti per fare del­le rite­nu­te sul paga­mento del­l’o­pe­ra­io. Esso for­ni­sce, nel tem­po stes­so, al capi­ta­li­sta una misu­ra esat­ta del­l’in­ten­si­tà del lavo­ro. Il solo tem­po di lavo­ro che con­ti come social­men­te neces­sario, e che sia per con­se­guen­za paga­to, è quel­lo che si è incor­po­ra­to in una mas­sa di pro­dot­ti deter­mi­na­ta e sta­bilita spe­ri­men­tal­men­te. Nei gran­di labo­ra­to­ri di sar­ti, a Lon­dra, un cer­to capo, un pan­ciot­to, per esem­pio, si chia­ma, un’o­ra, una mez­z’o­ra, ecce­te­ra, e l’o­ra è paga­ta 12 sol­di. Si sa per pra­ti­ca qual è il pro­dot­to di un’o­ra in media. Quan­do ven­go­no le nuo­ve mode, si ele­va sem­pre una discus­sio­ne fra padro­ne e ope­ra­io per sape­re se il ta­le capo equi­va­le a un’o­ra, sino a che l’e­spe­rien­za non de­cida. Lo stes­so suc­ce­de nei labo­ra­to­ri di fale­gna­mi, eba­nisti, ecce­te­ra. Se poi l’o­pe­ra­io non pos­sie­de la capa­ci­tà media di ese­cu­zio­ne, se egli non può con­se­gna­re un cer­to mini­mum di lavo­ro nel­la gior­na­ta, lo si congeda.»

«La qua­li­tà e l’in­ten­si­tà del lavo­ro essen­do così assicura­te dal­la for­ma stes­sa del sala­rio, una gran par­te del lavo­ro di sor­ve­glian­za diven­ta super­flua. E su di ciò fon­da­to, non sola­men­te il lavo­ro moder­no a domi­ci­lio, ma ezian­dio tut­to un siste­ma di oppres­sio­ne e di sfrut­ta­men­to gerarchica­mente costi­tui­to. Da una par­te, il sala­rio a capo faci­li­ta l’in­ter­ven­to dei paras­si­ti fra il capi­ta­li­sta e l’o­pe­ra­io, il mer­can­teg­gia­men­to. Il gua­da­gno degli inter­me­dia­ri, dei mer­can­teg­gia­to­ri, pro­vie­ne esclu­si­va­men­te dal­la differen­za fra il prez­zo del lavo­ro, tal qua­le il capi­ta­li­sta lo paga, e la por­zio­ne di que­sto prez­zo che essi accor­da­no all’operaio.

D’al­tra par­te, il sala­rio a capo per­met­te al capi­ta­li­sta di fa­re un con­trat­to di tan­to al capo con l’o­pe­ra­io prin­ci­pa­le (nel­la mani­fat­tu­ra con il capo­grup­po, nel­le minie­re con il mina­to­re pro­pria­men­te det­to, ecce­te­ra) e que­st’o­pe­ra­io prin­ci­pa­le s’in­ca­ri­ca, per il prez­zo sta­bi­li­to, di tro­va­re egli stes­so i suoi aiu­tan­ti e di pagar­li. Lo sfrut­ta­men­to, che il capi­ta­le fa sui lavo­ra­to­ri, diven­ta qui un mez­zo di sfrut­ta­men­to del lavo­ra­to­re sul lavoratore.»

«Sta­bi­li­to­si il sala­rio a capo, l’in­te­res­se per­so­na­le spin­ge l’o­pe­ra­io ad atti­va­re il più pos­si­bi­le la sua for­za; la qual cosa per­met­te al capi­ta­li­sta di ele­va­re più facil­men­te il gra­do del­l’in­ten­si­tà del lavo­ro. Ben­ché que­sto risul­ta­to si pro­du­ca da se stes­so (dice Dun­ning, segre­ta­rio d’u­na Socie­tà di resi­sten­za) s’im­pie­ga­no spes­so mez­zi per pro­durlo arti­fi­cial­men­te. A Lon­dra, per esem­pio, fra i mec­canici, l’ar­ti­fi­cio in uso è “che il capi­ta­li­sta sce­glie per capo d’un cer­to nume­ro d’o­pe­rai un uomo di for­za fisi­ca supe­rio­re e svel­to nel lavo­ro. Tut­ti i tri­me­stri, o come si vuo­le, gli paga un sala­rio sup­ple­men­ta­re, a con­di­zio­ne che egli fac­cia tut­to il pos­si­bi­le di spin­ge­re i suoi colla­boratori, che non rice­vo­no che il sala­rio ordi­na­rio, a ga­reggiare di zelo con lui”. L’o­pe­ra­io è ugual­men­te interes­sato a pro­lun­ga­re la gior­na­ta di lavo­ro, come mez­zo per accre­sce­re il suo sala­rio quo­ti­dia­no o set­ti­ma­na­le. Quin­di ne segue una rea­zio­ne, simi­le a quel­la che noi abbia­mo descrit­ta a pro­po­si­to del sala­rio a tem­po, sen­za con­tare che la pro­lun­ga­zio­ne del­la gior­na­ta, anche quan­do il sala­rio a capo resta costan­te, impli­ca per se stes­sa un ribas­so nel prez­zo del lavoro.»

«Il sala­rio a capo è uno dei due prin­ci­pa­li appog­gi del siste­ma già men­zio­na­to, di paga­re cioè il lavo­ro a ore, sen­za che il padro­ne s’im­pe­gni di occu­pa­re l’o­pe­ra­io rego­lar­men­te duran­te la gior­na­ta o la settimana.»

«Negli sta­bi­li­men­ti sot­to­po­sti alle leg­gi di fab­bri­ca, il sala­rio a capo diven­ta rego­la gene­ra­le, per­ché là il capi­talista non può ingran­di­re il lavo­ro quo­ti­dia­no che sot­to il rap­por­to del­la intensità.»

L’au­men­to di pro­du­zio­ne è segui­to dal­la dimi­nu­zio­ne pro­por­zio­na­le del sala­rio. Quan­do l’o­pe­ra­io pro­du­ce­va 12 capi in 12 ore, il capi­ta­li­sta gli paga­va, per esem­pio, un sala­rio di L. 0,25 al capo. Rad­dop­pia­ta­si la pro­du­zio­ne, l’o­pe­ra­io pro­du­ce 24 capi, inve­ce di 12, e il capi­ta­li­sta ri­bassa il sala­rio del­la metà, cioè, a cen­te­si­mi 12,5 al capo.

«Que­sta varia­zio­ne di sala­rio, ben­ché pura­men­te no­minale, pro­vo­ca lot­te con­ti­nue fra il capi­ta­li­sta e l’ope­raio; sia per­ché il capi­ta­li­sta se ne fa un pre­te­sto per ribas­sa­re real­men­te il prez­zo del lavo­ro; sia per­ché l’au­mento di pro­dut­ti­vi­tà del lavo­ro cagio­na un aumen­to del­la sua inten­si­tà; sia per­ché l’o­pe­ra­io, pren­den­do sul serio que­st’ap­pa­ren­za crea­ta dal sala­rio a capo (cioè che sia il suo pro­dot­to e non la sua for­za di lavo­ro ciò che gli si paga), si rivol­ta con­tro una ridu­zio­ne di sala­rio, alla qua­le non cor­ri­spon­de una ridu­zio­ne pro­por­zio­na­le dei prez­zi di ven­di­ta del­le mer­ci. Il capi­ta­le respin­ge giusta­mente simi­li pre­ten­sio­ni pie­ne di erro­ri gros­so­la­ni sul­la natu­ra del sala­rio. Egli le qua­li­fi­ca come un’u­sur­pa­zio­ne, ten­den­te a pre­le­va­re impo­ste sul pro­gres­so del­l’in­du­stria; e dichia­ra spiat­tel­la­ta­men­te che la pro­dut­ti­vi­tà del la­voro non riguar­da per nul­la l’operaio.»

CAPITOLO IX

ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE

Se osser­via­mo la for­mu­la del capi­ta­le, com­pren­dia­mo fa­cilmente che la sua con­ser­va­zio­ne è tut­ta ripo­sta nel­la sua suc­ces­si­va e con­ti­nua riproduzione.

Infat­ti, il capi­ta­le si divi­de, come noi già sap­pia­mo, in due: in costan­te, cioè, e varia­bi­le. Il capi­ta­le costan­te, rap­pre­sen­ta­to dai mez­zi di lavo­ro e dal­le mate­rie di la­voro, sof­fre un con­ti­nuo logo­ra­men­to duran­te il proces­so del lavo­ro. Si con­su­ma­no gli stru­men­ti, si consuma­no le mac­chi­ne, il car­bo­ne, il sego, ecce­te­ra, che abbi­sogna alle mac­chi­ne, e si con­su­ma infi­ne il fab­bri­ca­to. Nel­lo stes­so tem­po però che il lavo­ro vie­ne in sif­fat­ta gui­sa logo­ran­do il capi­ta­le costan­te, esso lo vie­ne ezian­dio ripro­du­cen­do nel­le stes­se pro­por­zio­ni nel­le qua­li lo con­su­ma. Il capi­ta­le costan­te tro­va­si ripro­dot­to nel­la mer­ce nel­le pro­por­zio­ni in cui è sta­to con­su­ma­to du­rante la sua fab­bri­ca­zio­ne. Il valo­re con­su­ma­to dei mez­zi di lavo­ro e del­le mate­rie di lavo­ro è sem­pre esatta­mente ripro­dot­to nel valo­re del­la mer­ce, come noi ab­biamo già vedu­to altro­ve. Se, dun­que, il capi­ta­le co­stante si vie­ne ripro­du­cen­do par­zial­men­te in ogni mer­ce, è chia­ro che, nel valo­re di un cer­to nume­ro di mer­ci pro­dot­te, si tro­ve­rà tut­to il capi­ta­le costan­te, consu­mato nel­la loro fabbricazione.

Com’è del capi­ta­le costan­te, così è del capi­ta­le varia­bile. Il capi­ta­le varia­bi­le, quel­lo rap­pre­sen­ta­to dal valo­re del­la for­za di lavo­ro, cioè dal sala­rio, si ripro­du­ce anch’es­so esat­ta­men­te nel valo­re del­la mer­ce. Noi lo ab­biamo già visto. L’o­pe­ra­io, nel­la pri­ma par­te del suo la­voro, pro­du­ce il suo sala­rio, e nel­la secon­da il plusvalo­re. Sic­co­me il sala­rio all’o­pe­ra­io non è paga­to che a la­voro fini­to, così avvie­ne che egli riscuo­te il suo sala­rio dopo aver­ne già ripro­dot­to l’e­qui­va­len­te nel­la mer­ce del capitalista.

L’as­sie­me dei sala­ri paga­ti ai lavo­ra­to­ri è dun­que da que­sti ripro­dot­to inces­san­te­men­te. Que­sta inces­san­te ri­produzione del fon­do dei sala­ri per­pe­tua la sog­ge­zio­ne del lavo­ra­to­re al capi­ta­li­sta. Quan­do il pro­le­ta­rio vie­ne sul mer­ca­to a ven­de­re la sua for­za di lavo­ro, egli vie­ne a pren­de­re il posto asse­gna­to­gli dai modo di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta, e a con­tri­bui­re alla pro­du­zio­ne socia­le per la par­te di lavo­ro che gli spet­ta, riti­ran­do, pel suo mante­nimento, quel­la par­te dei fon­di dei sala­ri, che egli dovrà, pri­ma, con il suo lavo­ro riprodurre.

È sem­pre l’e­ter­no vin­co­lo di sog­ge­zio­ne uma­na, sia es­so sot­to la for­ma del­la schia­vi­tù, del­la ser­vi­tù, o del salariato.

L’os­ser­va­to­re super­fi­cia­le cre­de che lo schia­vo lavo­ri per nul­la. Ei non pen­sa che lo schia­vo deve anzi­tut­to ri­fare il suo padro­ne di quan­to que­sti spen­de pel suo man­tenimento: e si osser­vi che il man­te­ni­men­to del­lo schia­vo è tal­vol­ta di gran lun­ga miglio­re di quel­lo del salaria­to, essen­do il suo padro­ne alta­men­te inte­res­sa­to alla sua con­ser­va­zio­ne, come alla con­ser­va­zio­ne di una par­te del pro­prio capi­ta­le. Il ser­vo, che, insie­me con la ter­ra, alla qua­le è attac­ca­to, appar­tie­ne al suo signo­re, è, per l’os­servatore super­fi­cia­le, un esse­re che ha fat­to dei progres­si in con­fron­to del­lo schia­vo, per­ché il ser­vo si vede chia­ra­men­te che dà una par­te sola del suo lavo­ro al suo signo­re, men­tre impie­ga l’al­tra par­te sul­la poca ter­ra as­segnatagli, per cam­pa­re la vita. E il sala­ria­to, alla sua vol­ta, appa­ri­sce al super­fi­cia­le osser­va­to­re, uno sta­to mol­to più pro­gre­di­to a para­go­ne del­la ser­vi­tù, per­ché il lavora­tore sem­bra in esso per­fet­ta­men­te libe­ro, per­ce­pen­do il valo­re del pro­prio lavoro.

Stra­na illu­sio­ne! Se il lavo­ra­to­re potes­se rea­liz­za­re per sé il valo­re del pro­prio lavo­ro, il modo di pro­du­zio­ne ca­pitalista non potreb­be allo­ra più esi­ste­re. Noi l’ab­bia­mo già visto. Il lavo­ra­to­re altro non può otte­ne­re che il va­lore del­la sua for­za di lavo­ro, che è la sola cosa che può ven­de­re, per­ché è il solo bene che pos­sie­da al mon­do. Il pro­dot­to del lavo­ro appar­tie­ne al capi­ta­li­sta, il qua­le pa­ga al pro­le­ta­rio il sala­rio, cioè il suo man­te­ni­men­to. Nel­la stes­sa gui­sa, il pez­zo di ter­ra, non che il tem­po e gli stru­men­ti neces­sa­ri a lavo­rar­lo, lascia­ti dal signo­re al suo ser­vo, sono la som­ma dei mez­zi che que­sti ha per vive­re, men­tre deve lavo­ra­re tut­to il resto del tem­po per il suo signore.

Lo schia­vo, il ser­vo e l’o­pe­ra­io lavo­ra­no tut­ti tre in par­te per pro­dur­re il loro man­te­ni­men­to, e in par­te as­solutamente per il gua­da­gno dei loro padro­ni. Essi rap­presentano tre for­me diver­se del­l’i­stes­sis­si­mo vin­co­lo di sog­ge­zio­ne e sfrut­ta­men­to uma­no. È sem­pre la soggezio­ne del­l’uo­mo pri­vo di qual­sia­si accu­mu­la­zio­ne pri­mi­ti­va (cioè dei mez­zi di pro­du­zio­ne, che sono i mez­zi di vita) all’uo­mo che pos­sie­de un’ac­cu­mu­la­zio­ne pri­mi­ti­va, i mez­zi di pro­du­zio­ne, le sor­gen­ti del­la vita. La conserva­zione, cioè la ripro­du­zio­ne del capi­ta­le, è appun­to, nel modo di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta, la con­ser­va­zio­ne di que­sto vin­co­lo di sog­ge­zio­ne e sfrut­ta­men­to umano.

Ma il lavo­ro non sola­men­te ripro­du­ce il capi­ta­le, ma pro­du­ce ezian­dio plu­sva­lo­re, il qua­le for­ma ciò che chia­masi ‘ren­di­ta del capi­ta­le’. Se il capi­ta­li­sta fon­de ogni anno tut­ta o par­te del­la sua ren­di­ta con il capi­ta­le, noi avre­mo un’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le, che ver­rà pro­gressivamente cre­scen­do. Con la ripro­du­zio­ne sem­pli­ce il lavo­ro con­ser­va il capi­ta­le; con l’ac­cu­mu­la­zio­ne del plu­sva­lo­re il lavo­ro ingros­sa il capitale.

Quan­do la ren­di­ta si rifon­de con il capi­ta­le, si vie­ne a impie­ga­re que­sta ren­di­ta, par­te in mez­zi di lavo­ro, par­te in mate­rie di lavo­ro e par­te in for­za di lavo­ro. Allo­ra si ha che il pas­sa­to sopra­la­vo­ro, il pas­sa­to lavo­ro non paga­to, vie­ne a ingros­sa­re l’in­te­ro capi­ta­le. Una par­te del lavo­ro non paga­to del­lo scor­so anno vie­ne a paga­re il la­voro neces­sa­rio di que­sto anno. Ecco ciò che rie­sce a fa­re il capi­ta­li­sta, gra­zie all’in­ge­gno­so mec­ca­ni­smo del­la pro­du­zio­ne moderna.

Una vol­ta ammes­so il siste­ma di pro­du­zio­ne moder­na, tut­to basa­to sul­la pro­prie­tà indi­vi­dua­le e sul sala­ria­to, nul­la si può tro­va­re a ridi­re sul­le con­se­guen­ze che ne de­rivano, una del­le qua­li è l’ac­cu­mu­la­zio­ne capi­ta­li­sta. Che impor­ta all’o­pe­ra­io Anto­nio, se le 3 lire, che gli si paga­no di sala­rio, rap­pre­sen­ta­no il lavo­ro non paga­to all’o­pe­ra­io Pie­tro? Ciò che egli ha dirit­to di sape­re è se le 3 lire sono il giu­sto prez­zo del­la sua for­za di lavo­ro, se sono cioè l’e­sat­to equi­va­len­te del­le cose a lui neces­sa­rie in un gior­no, se la leg­ge degli scam­bi, in una paro­la, è sta­ta rigo­ro­sa­men­te osservata.

Quan­do il capi­ta­li­sta inco­min­cia ad accu­mu­la­re capi­tale a capi­ta­le, una nuo­va vir­tù, tut­ta sua pro­pria, si svi­luppa in lui; la così det­ta ‘vir­tù del­l’a­sti­nen­za’, che con­siste a limi­ta­re tut­te le pro­prie spe­se, per impie­ga­re la par­te mag­gio­re del­la sua ren­di­ta nel­l’ac­cu­mu­la­zio­ne. «La volon­tà del capi­ta­li­sta e la sua coscien­za altro non ri­flettendo che i biso­gni del capi­ta­le che egli rap­pre­sen­ta, il capi­ta­li­sta non sapreb­be vede­re nel suo con­su­mo per­sonale che una spe­cie di fur­to, o alme­no di pre­sti­to, fat­to all’ac­cu­mu­la­zio­ne; e, infat­ti, la tenu­ta dei libri in par­tita dop­pia met­te le spe­se pri­va­te al pas­si­vo come dovu­te dal capi­ta­li­sta al capi­ta­le. Infi­ne, accu­mu­la­re è con­quistare il mon­do del­la ric­chez­za socia­le, sten­de­re la sua domi­na­zio­ne per­so­na­le, aumen­ta­re il nume­ro dei suoi sud­di­ti, cioè sacri­fi­car­si a una ambi­zio­ne insaziabile.»

«Lute­ro mostra mol­to bene (con l’e­sem­pio dell’usu­raio, que­sto capi­ta­li­sta di for­ma fuo­ri di moda, ma sem­pre rina­scen­te) che il desi­de­rio di domi­na­re è un mo­vente del­la sete di ric­chez­ze. “La sem­pli­ce ragio­ne” egli dice “ha per­mes­so ai paga­ni di tene­re l’u­su­ra­io come un assas­si­no e ladro quat­tro vol­te. Ma noi, cri­stia­ni, lo te­niamo in tan­to ono­re, che l’a­do­ria­mo qua­si a cau­sa del suo dena­ro. Colui che nascon­de, ruba e divo­ra il nutri­mento di un altro è (per quan­to può esser­lo) ugualmen­te assas­si­no di colui il qua­le lo fa mori­re di fame o lo ro­vina a fon­do. E que­sto è quan­to fa l’u­su­ra­io, eppu­re egli resta assi­so in tut­ta sicur­tà sul suo seg­gio, men­tre sareb­be mol­to più giu­sto che, sospe­so alla for­ca, egli fos­se di­vorato da tan­ti cor­vi quan­ti furo­no gli scu­di che ha ru­bato; sem­pre­ché in lui vi fos­se tan­ta car­ne, di cui tut­ti quei cor­vi potes­se­ro cia­scu­no pren­der­ne un pez­zo. S’im­piccano i pic­co­li ladri…, i pic­co­li ladri sono mes­si ai fer­ri; i gran­di ladri si van­no pavo­neg­gian­do nel­l’o­ro e nel­la seta. Non v’ha sul­la ter­ra (tol­to­ne il dia­vo­lo) un più gran­de nemi­co del gene­re uma­no che l’a­va­ro e l’u­su­ra­io, per­ché egli vuo­le esse­re Dio sopra tut­ti gli uomi­ni. Tur­chi, gen­te di guer­ra, tiran­ni sono cer­ta­men­te una catti­va genia; pure essi sono obbli­ga­ti a lasciar vive­re la po­vera gen­te e a con­fes­sa­re che essi sono scel­le­ra­ti e nemi­ci; suc­ce­de loro per­fi­no d’in­te­ne­rir­si loro mal­gra­do. Ma un usu­ra­io, que­sto sac­co d’a­va­ri­zia, vor­reb­be che il mon­do inte­ro fos­se in pre­da alla fame, alla sete, alla tri­stez­za e alla mise­ria; egli vor­reb­be ave­re tut­to per sé solo, af­finché ognu­no doves­se rice­ve­re da lui come da un Dio e resta­re il suo ser­vo in per­pe­tuo. Egli por­ta cate­ne e anel­li d’o­ro, e si fa pas­sa­re per un uomo pio e mite. L’u­su­ra­io e un mostro enor­me, peg­gio­re di un orco divo­ra­to­re… E se si arruo­ta­no e si deca­pi­ta­no gli assas­si­ni e i ladri da stra­da, quan­to più non si dovreb­be­ro cac­cia­re, male­di­re, e arruo­ta­re tut­ti gli usu­rai e taglia­re loro la testa!”» (Marx, pagg. 259–260.)

L’ac­cu­mu­la­zio­ne capi­ta­li­sta richie­de un aumen­to di brac­cia. Il nume­ro dei lavo­ra­to­ri deve esse­re aumen­ta­to, se si vuo­le con­ver­ti­re una par­te del­la ren­di­ta in capi­ta­le varia­bi­le. L’or­ga­ni­smo stes­so del­la ripro­du­zio­ne capitali­sta fa in modo che il lavo­ra­to­re pos­sa con­ser­va­re la sua for­za di lavo­ro nel­la nuo­va gene­ra­zio­ne, dal­la qua­le il capi­ta­le la pren­de per con­ti­nua­re il suo pro­ces­so di ri­produzione inces­san­te. Ma il lavo­ro che si richie­de oggi dal capi­ta­le è supe­rio­re a quel­lo che si richie­de­va ieri; e per con­se­guen­za il suo prez­zo dovreb­be natu­ral­men­te au­mentare. E aumen­te­reb­be­ro infat­ti i sala­ri, se nel­la stes­sa accu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le non ci fos­se una ragio­ne per far­li inve­ce diminuire.

E vero che la ren­di­ta dovreb­be esse­re con­ver­ti­ta, par­te in capi­ta­le costan­te, e par­te in capi­ta­le varia­bi­le; par­te, cioè, in mez­zi e mate­rie di lavo­ro, e par­te in for­za di lavo­ro, ma biso­gna con­si­de­ra­re che con l’accumulazio­ne del capi­ta­le ven­go­no i per­fe­zio­na­men­ti dei vec­chi si­stemi di pro­du­zio­ne, i nuo­vi siste­mi di pro­du­zio­ne e le mac­chi­ne; tut­te cose che fan­no aumen­ta­re la produzio­ne, e dimi­nui­re il prez­zo del­la for­za di lavo­ro, come già sap­pia­mo. A misu­ra che cre­sce l’ac­cu­mu­la­zio­ne del ca­pitale, la sua par­te varia­bi­le dimi­nui­sce, men­tre la sua par­te costan­te aumen­ta. Si aumen­ta­no, cioè, i fabbrica­ti, le mac­chi­ne con le loro mate­rie ausi­lia­rie, si aumen­tano le mate­rie di lavo­ro, ma, nel­lo stes­so tem­po e in pro­por­zio­ne di que­sto aumen­to, con l’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le si dimi­nui­sce il biso­gno del­la for­za di lavo­ro, il biso­gno del­le brac­cia. Dimi­nuen­do il biso­gno del­la for­za di lavo­ro, ne dimi­nui­sce la richie­sta, e final­mente ne dimi­nui­sce anche il prez­zo. Si ha, quin­di, che più pro­gre­di­sce l’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le, più ribas­sano i salari.

L’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le pren­de vaste pro­por­zio­ni per mez­zo del­la con­cor­ren­za e del cre­di­to. Il cre­di­to por­ta spon­ta­nea­men­te più capi­ta­li a fon­der­si assie­me, op­pure a fon­der­si con uno più for­te di cia­scu­no di essi. La con­cor­ren­za, inve­ce, è la guer­ra che tut­ti i capi­ta­li si fan­no fra loro; è la loro lot­ta per l’e­si­sten­za, dal­la qua­le esco­no, resi ancor più for­ti, colo­ro che per vin­ce­re doveva­no esse­re sta­ti già pri­ma i più forti.

L’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le inu­ti­liz­za, dun­que, gran nume­ro di brac­cia; crea, cioè, un ecces­so di popo­la­zio­ne lavo­ra­tri­ce. «Ma se l’ac­cu­mu­la­zio­ne, il pro­gres­so del­la ric­chez­za sul­la base capi­ta­li­sta, pro­du­ce necessariamen­te una sovra­po­po­la­zio­ne ope­ra­ia, que­sta diven­ta alla sua vol­ta la leva più poten­te del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne, una condi­zione di esi­sten­za del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta nel suo sta­to di svi­lup­po inte­gra­le. Essa for­ma un’ar­ma­ta di riser­va indu­stria­le, che appar­tie­ne al capi­ta­le in modo così asso­luto come se l’a­ves­se alle­va­ta e disci­pli­na­ta a sue pro­prie spe­se. Essa for­ni­sce la mate­ria uma­na sem­pre sfrut­ta­bi­le e dispo­ni­bi­le per la fab­bri­ca­zio­ne del plu­sva­lo­re. E sola­mente sot­to il regi­me del­la gran­de indu­stria che la pro­duzione di un super­fluo di popo­la­zio­ne diven­ta una mol­la rego­la­re del­la pro­du­zio­ne del­le ric­chez­ze.» (Marx, pag. 279)

Que­st’ar­ma­ta di riser­va indu­stria­le, que­sta sovrapopo­lazione lavo­ra­tri­ce si divi­de in diver­se cate­go­rie. La pri­ma di que­ste è meglio paga­ta, e man­ca meno del­le altre di lavo­ro, men­tre fa un lavo­ro meno peno­so. L’ul­ti­ma ca­tegoria inve­ce è com­po­sta di lavo­ra­to­ri, che si tro­va­no occu­pa­ti più rara­men­te di tut­ti gli altri, e sem­pre per un lavo­ro più fati­co­so e vile, che vie­ne loro paga­to al più bas­so prez­zo che si pos­sa mai paga­re lavo­ro uma­no. Que­st’ul­ti­ma cate­go­ria è la più nume­ro­sa, non sola­men­te per il gran­de con­tin­gen­te che le man­da anno per anno il pro­gres­so indu­stria­le, ma soprat­tut­to per­ché essa è com­po­sta del­la gen­te più pro­li­fi­ca, come il fat­to stes­so di­mostra. «Ada­mo Smith dice: “La pover­tà sem­bra favo­revole alla gene­ra­zio­ne”. Ed è per­fi­no una dispo­si­zio­ne divi­na di pro­fon­da sapien­za, se deve­si cre­de­re allo spiri­toso e galan­te aba­te Galia­ni, secon­do il qua­le: “Iddio fa che gli uomi­ni che eser­ci­ta­no mestie­ri di pri­ma uti­li­tà nasca­no abbon­dan­te­men­te”. Laing dimo­stra con la sta­tistica che “la mise­ria, spin­ta anche al pun­to da genera­re la care­stia e le epi­de­mie, ten­de ad aumen­ta­re la po­polazione inve­ce di fermarla”.»(Marx, pag. 284.)

Dopo que­ste cate­go­rie altro non resta che «l’ul­ti­mo re­siduo del­la sovra­po­po­la­zio­ne rela­ti­va, il qua­le abi­ta l’in­ferno del pauperismo».

«Astra­zio­ne fat­ta dai vaga­bon­di, dai delin­quen­ti, dal­le pro­sti­tu­te, dai men­di­can­ti e da tut­ta quel­la gen­te, che costi­tui­sce le così det­te clas­si peri­co­lo­se, que­sto stra­to socia­le si com­po­ne di tre cate­go­rie. La pri­ma compren­de ope­rai capa­ci di lavo­ra­re. Basta get­ta­re un col­po d’oc­chio sul­le liste sta­ti­sti­che del pau­pe­ri­smo ingle­se, per ac­corgersi che la sua mas­sa, ingros­san­do­si a cia­scu­na cri­si e nel perio­do di rista­gno di lavo­ro, dimi­nui­sce a ogni ri­presa di affa­ri. La secon­da cate­go­ria com­pren­de i figli dei pove­ri, che vivo­no di assi­sten­za, e gli orfa­nel­li. Que­sti sono tan­ti can­di­da­ti del­la riser­va indu­stria­le, i qua­li, al­le epo­che di gran­de pro­spe­ri­tà, entra­no in mas­sa nel ser­vizio atti­vo. La ter­za cate­go­ria com­pren­de i mise­ra­bi­li; anzi­tut­to gli ope­rai e le ope­ra­ie che sono sta­ti get­ta­ti sul lastri­co dal­lo svi­lup­po socia­le, che ha oppres­so l’o­pe­ra di det­ta­glio, la divi­sio­ne del lavo­ro del­la qua­le ave­va for­mata la loro sola risor­sa; poi quel­li che per disgra­zia han­no sor­pas­sa­ta l’e­tà nor­ma­le del sala­ria­to; final­men­te le vit­ti­me diret­te del­l’in­du­stria (mala­ti, stor­pi, vedo­ve, ec­cetera), il cui nume­ro si accre­sce con quel­lo del­le mac­chine peri­co­lo­se, del­le minie­re, del­le mani­fat­tu­re chi­miche, eccetera.»

«Il pau­pe­ri­smo è la casa degli inva­li­di del­la arma­ta at­tiva del lavo­ro e il peso mor­to del­la sua riser­va. La sua pro­du­zio­ne è com­pre­sa in quel­la del­la sovra­po­po­la­zio­ne rela­ti­va, la sua neces­si­tà nel­la neces­si­tà di que­sta. Il pau­perismo for­ma con la sovra­po­po­la­zio­ne una con­di­zio­ne di esi­sten­za del­la ric­chez­za capitalista.»

«Si com­pren­de dun­que tut­ta la stu­pi­di­tà del­la saggez­za eco­no­mi­ca, la qua­le non ces­sa di pre­di­ca­re ai lavo­ratori, di accor­da­re il loro nume­ro ai biso­gni del capi­tale. Come se il mec­ca­ni­smo del capi­ta­le non realizzas­se con­ti­nua­men­te que­sto accor­do desi­de­ra­to, la cui pri­ma paro­la è ‘crea­zio­ne di una riser­va indu­stria­le’, e l’ul­tima ‘inva­sio­ne cre­scen­te del­la mise­ria, sino nel­le pro­fon­di­tà del­l’ar­ma­ta atti­va del lavo­ro peso mor­to del pauperismo’.»

«La leg­ge secon­do la qua­le una mas­sa sem­pre più gran­de di ele­men­ti costi­tuen­ti la ric­chez­za può, mer­cé lo svi­luppo con­ti­nuo del­le for­ze col­let­ti­ve del lavo­ro, esse­re mes­sa in ope­ra con una spe­sa di for­ze uma­ne sem­pre mi­nore, que­sta leg­ge, che met­te l’uo­mo socia­le in sta­to di pro­dur­re di più con mino­re lavo­ro, si cam­bia nel cen­tro capi­ta­li­sta (dove non sono i mez­zi di pro­du­zio­ne che si tro­va­no al ser­vi­zio del lavo­ra­to­re, ma il lavo­ra­to­re che tro­va­si al ser­vi­zio dei mez­zi di pro­du­zio­ne) in leg­ge con­traria, cioè a dire che più il lavo­ro gua­da­gna in risor­se e in poten­za, più v’ha pres­sio­ne dei lavo­ra­to­ri sui loro mez­zi d’im­pie­go, e più la con­di­zio­ne di esi­sten­za del sala­ria­to, la ven­di­ta del­la sua for­za, divie­ne precaria.»

«L’a­na­li­si del plu­sva­lo­re rela­ti­vo ci ha con­dot­ti a que­sto risul­ta­to: nel siste­ma capi­ta­li­sta tut­ti i meto­di per mol­ti­pli­ca­re le poten­ze del lavo­ro col­let­ti­vo si esegui­scono a spe­se del lavo­ra­to­re indi­vi­dua­le, tut­ti i mez­zi per svi­lup­pa­re la pro­du­zio­ne si tra­sfor­ma­no in mez­zi di domi­na­re e di sfrut­ta­re il pro­dut­to­re: essi fan­no di lui un uomo mon­co, fram­men­ta­rio, o l’ap­pen­di­ce di una mac­china; essi gli oppon­go­no, come tan­ti pote­ri nemi­ci, le poten­ze scien­ti­fi­che del­la pro­du­zio­ne; essi sosti­tui­sco­no al lavo­ro attraen­te il lavo­ro for­za­to; essi ren­do­no le con­dizioni nel­le qua­li il lavo­ro si fa, sem­pre più anor­ma­li, e sot­to­met­to­no l’o­pe­ra­io, duran­te il suo ser­vi­zio, a un dispo­ti­smo tan­to illi­mi­ta­to quan­to gret­to; essi trasfor­mano la sua vita inte­ra duran­te il lavo­ro; e get­ta­no la sua moglie e i suoi figli sot­to le ruo­te del car­ro del dio capitale.»

«Ma tut­ti i meto­di che aiu­ta­no la pro­du­zio­ne del plu­svalore favo­ri­sco­no egual­men­te l’ac­cu­mu­la­zio­ne, e ogni esten­sio­ne di que­sta chia­ma alla sua vol­ta l’al­tra. Ne ri­sulta che, qua­lun­que sia il livel­lo dei sala­ri, alto o bas­so, la con­di­zio­ne del lavo­ra­to­re deve peg­gio­ra­re, a misu­ra che il capi­ta­le si accumula.»

«Infi­ne, la leg­ge, che equi­li­bra sem­pre il pro­gres­so del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne e quel­lo del­la sovra­po­po­la­zio­ne rela­tiva, lega il lavo­ra­to­re al capi­ta­le più soli­da­men­te che i chio­di di Vul­ca­no non lega­ro­no Pro­me­teo alla rupe. È que­sta leg­ge che sta­bi­li­sce una cor­re­la­zio­ne fata­le tra l’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le e l’ac­cu­mu­la­zio­ne del­la mi­seria, di gui­sa che accu­mu­la­zio­ne di ric­chez­za a un polo, signi­fi­ca accu­mu­la­zio­ne di pover­tà, di sof­fe­ren­za, d’igno­ranza, d’ab­bru­ti­men­to, di degra­da­zio­ne mora­le, di schia­vitù, al polo oppo­sto, dove si tro­va la clas­se che produ­ce il capi­ta­le stesso.»

«G. Ortes, mona­co vene­zia­no e uno degli eco­no­mi­sti note­vo­li del XVIII seco­lo, cre­de aver tro­va­to nell’anta­gonismo ine­ren­te alla ric­chez­za capi­ta­li­sta la leg­ge im­mutabile e natu­ra­le del­la ric­chez­za socia­le. “Inve­ce di pro­get­ta­re” egli dice “per la feli­ci­tà dei popo­li, siste­mi inu­ti­li, io mi limi­te­rò a ricer­ca­re la ragio­ne del­la loro mi­seria… Il bene e il male eco­no­mi­co in una nazio­ne è sem­pre alla stes­sa misu­ra: la copia dei beni in alcu­ni è sem­pre egua­le alla man­can­za di essi in altri; la gran­de ric­chez­za di un pic­co­lo nume­ro è sem­pre accom­pa­gna­ta dal­la pri­vazione del­le pri­me neces­si­tà nel­la mol­ti­tu­di­ne; l’at­ti­vi­tà ecces­si­va degli uni ren­de for­za­ta la pol­tro­ne­ria degli altri; la ric­chez­za di un pae­se cor­ri­spon­de alla sua popo­la­zio­ne, e la sua mise­ria cor­ri­spon­de alla sua ricchezza”.»

«Ma, se Ortes era pro­fon­da­men­te attri­sta­to di que­sta fata­li­tà eco­no­mi­ca del­la mise­ria, 10 anni dopo di lui, un mini­stro del cul­to angli­ca­no, il reve­ren­do J. Town­send, vie­ne, con cuo­re leg­ge­ro e per­fi­no gio­io­so, a glo­ri­fi­car­la come la con­di­zio­ne neces­sa­ria del­la ric­chez­za. “L’obbli­go lega­le del lavo­ro” egli dice “cagio­na trop­pa pena, esi­ge trop­po sfor­zo, e fa trop­po chias­so; la fame al con­tra­rio è non sola­men­te una pres­sio­ne paci­fi­ca, silen­zio­sa e in­cessante, ma, come lo sti­mo­lo più natu­ra­le al lavo­ro e all’in­du­stria, essa pro­vo­ca ezian­dio gli sfor­zi più poten­ti.” Per­pe­tua­re la fame del lavo­ra­to­re è dun­que il solo ar­ticolo impor­tan­te del suo codi­ce del lavo­ro, ma per ese­guirlo, egli aggiun­ge, basta lasciar fare il prin­ci­pio di po­polazione, atti­vis­si­mo fra i pove­ri. “È una leg­ge del­la natu­ra, pare, che i pove­ri sia­no impre­vi­den­ti sino al pun­to da esser­ci sem­pre fra essi degli uomi­ni pron­ti a compie­re le fun­zio­ni le più ser­vi­li, le più spor­che e le più ab­biette del­la comu­ni­tà. Il fon­do del­la feli­ci­tà uma­na ne è così gran­de­men­te aumen­ta­to; la gen­te per bene, più de­licata, sba­raz­za­ta da tali tri­bo­la­zio­ni, può dol­ce­men­te se­guire la sua voca­zio­ne supe­rio­re… Le leg­gi per soccorre­re i pove­ri ten­do­no a distrug­ge­re l’ar­mo­nia e la bel­lez­za, l’or­di­ne e la sim­me­tria di que­sto siste­ma che Dio e la na­tura han­no sta­bi­li­to nel mondo”.»

«Se il mona­co vene­zia­no tro­va­va nel­la fata­li­tà econo­mica del­la mise­ria la ragion d’es­se­re del­la cari­tà cristia­na, del celi­ba­to, dei mona­ste­ri, dei con­ven­ti, ecce­te­ra, il reve­ren­do pre­ben­da­to vi tro­va­va però anche un moti­vo per con­dan­na­re le leg­gi ingle­si, che dan­no ai pove­ri il di­ritto ai soc­cor­si del­la parrocchia.»

«Storch dice: “Il pro­gres­so del­la ric­chez­za socia­le ge­nera que­sta clas­se uti­le del­la socie­tà…, che eser­ci­ta le oc­cupazioni più fasti­dio­se, le più vili, le più disgu­sto­se; che pren­de, in una paro­la, sul­le sue spal­le tut­to ciò che la vi­ta ha di disag­gra­de­vo­le e di ser­vi­le, e pro­cu­ra così alle al­tre clas­si l’a­gio, la sere­ni­tà di spi­ri­to e la digni­tà con­venzionale (!) di carat­te­re, ecce­te­ra”. Poi, dopo esser­si doman­da­to in che dun­que, in fin dei con­ti, pos­sa dir­si pro­gre­di­ta sul­la bar­ba­rie que­sta civi­liz­za­zio­ne capi­ta­li­sta con la sua mise­ria e la sua degra­da­zio­ne del­le mas­se, egli non tro­va che una paro­la a rispon­de­re: la sicurezza!»

«Infi­ne, Destutt de Tra­cy dice spiat­tel­la­ta­men­te: “Le nazio­ni pove­re sono quel­le dove il popo­lo è agia­to; e le nazio­ni ric­che sono quel­le dove egli è ordi­na­ria­men­te pove­ro”.»( Marx, pagg. 284–286)

Venia­mo ora a vede­re, nei fat­ti, qua­li sia­no gli effet­ti del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le. Qui, come altro­ve, i no­stri esem­pi sono tut­ti pre­si dal­l’In­ghil­ter­ra, il pae­se per eccel­len­za del­la accu­mu­la­zio­ne capi­ta­li­sta, ver­so la qua­le ten­do­no (lo ripe­tia­mo, e non lo si dimen­ti­chi mai) tut­te le nazio­ni moder­ne. Ci rin­cre­sce non poter ripro­durre che una sola pic­co­la par­te dei ric­chi mate­ria­li rac­colti da Marx.

«Nel 1863, il Con­si­glio pri­va­to ordi­nò una inchie­sta sul­la situa­zio­ne del­la par­te più mal nutri­ta del­la clas­se ope­ra­ia ingle­se. Il dot­to­re Simon fu il suo medi­co ufficia­le. Fu con­ve­nu­to che si pren­de­reb­be per rego­la, in que­sta inchie­sta, di sce­glie­re, in ogni cate­go­ria, le fami­glie la cui salu­te e posi­zio­ne lascias­se­ro meno a desi­de­ra­re; e si arri­vò a que­sto risul­ta­to gene­ra­le: “In una sola fra le clas­si ope­raie del­la cit­tà, il con­su­mo d’a­zo­to sor­pas­sa appe­na il mi­nimum asso­lu­to, al disot­to del qua­le si dichia­ra­no le ma­lattie d’i­na­ni­zio­ne; in due clas­si la quan­ti­tà di nutri­men­to azo­ta­to, come car­bo­na­to, face­va difet­to, e gran­de­men­te in una di esse; fra le fami­glie agri­co­le, più di un quin­to ave­va meno del­la dose indi­spen­sa­bi­le di ali­men­ta­zio­ne azo­tata; infi­ne in tre con­tee (Berk­shi­re, Oxford­shi­re e Somer­se­tshi­re) il mini­mum di nutri­men­to azo­ta­to non era rag­giun­to. Fra i lavo­ra­to­ri agri­co­li l’a­li­men­ta­zio­ne più cat­tiva era quel­la dei lavo­ra­to­ri del­l’In­ghil­ter­ra, la par­te più ric­ca del Regno Uni­to. Fra gli ope­rai del­le cam­pa­gne l’in­sufficienza di nutri­men­to, in gene­ra­le, col­pi­va principal­mente le don­ne e i fan­ciul­li, doven­do l’uo­mo adul­to man­giar esso per pote­re lavo­ra­re”. Una penu­ria ben più gran­de anco­ra deso­la­va cer­te cate­go­rie di lavo­ra­to­ri di cit­tà sot­to­po­ste all’in­chie­sta. “Essi sono tan­to mise­ra­men­te nu­triti, che i casi di pri­va­zio­ni cru­de­li e rovi­no­se per la salu­te devo­no esse­re neces­sa­ria­men­te nume­ro­si.” Tut­to ciò è ava­ri­zia del capi­ta­li­sta! Egli si astie­ne, infat­ti, di for­ni­re ai suoi schia­vi per­fi­no quan­to occor­re per vegetare.»

«Il dot­to­re Simon nel suo rap­por­to gene­ra­le dice: “Chiun­que è abi­tua­to a cura­re i mala­ti pove­ri o quel­li degli ospe­da­li non può che affer­ma­re che i casi, nei qua­li l’in­suf­fi­cien­za del nutri­men­to pro­du­ce malat­tie o le ag­grava, sono, per così dire, innu­me­re­vo­li. Sot­to il pun­to di vista sani­ta­rio, altre cir­co­stan­ze deci­si­ve ven­go­no qui ad aggiun­ger­si… Biso­gna ricor­dar­si che ogni ridu­zio­ne di nu­trimento è sop­por­ta­ta mal volen­tie­ri, e che in gene­ra­le la die­ta for­za­ta non vie­ne che in segui­to ad altre pri­va­zio­ni ante­rio­ri. Mol­to pri­ma che la man­can­za di ali­men­ti ven­ga a pesa­re nel­la bilan­cia igie­ni­ca, mol­to pri­ma che il fi­losofo ven­ga a con­ta­re le dosi di azo­to e di car­bo­nio fra le qua­li oscil­la la vita e la mor­te per ina­ni­zio­ne, ogni altra agia­tez­za dev’es­se­re già scom­par­sa dal foco­la­re domesti­co. Le vesti e il calo­re devo­no esse­re sta­ti ridot­ti mol­to più anco­ra che l’a­li­men­ta­zio­ne. Nes­su­na pro­te­zio­ne suf­ficiente con­tro i rigo­ri del­la tem­pe­ra­tu­ra; ristrin­gi­men­to del loca­le abi­ta­to a un gra­do tale da gene­ra­re malat­tie o da aggra­var­le; appe­na una trac­cia di mobi­li o di uten­si­li di casa. La net­tez­za stes­sa deve esse­re diven­ta­ta costo­sa e dif­fi­ci­le. Se per rispet­to di se mede­si­mo si fan­no anco­ra sfor­zi per man­te­ner­la, cia­scu­no di que­sti sfor­zi rappre­senta un sup­ple­men­to di fame. Si abi­te­rà là dove il fit­to è meno caro, nei quar­tie­ri dove l’a­zio­ne del­la poli­zia sa­nitaria è nul­la, dove c’è il mag­gior nume­ro di cloa­che in­fette, mino­re cir­co­la­zio­ne, immon­di­zie in pie­na stra­da, meno acqua o la più cat­ti­va, e, nel­le cit­tà, meno aria e meno luce. Tali sono i peri­co­li ai qua­li la pover­tà è espo­sta ine­vi­ta­bil­men­te, quan­do que­sta pover­tà impli­ca man­canza di nutri­men­to. Se tut­ti que­sti mali riu­ni­ti pesa­no ter­ri­bil­men­te sul­la vita, la sem­pli­ce pri­va­zio­ne di nutri­mento non è per se stes­sa meno spa­ven­te­vo­le… Tormen­tosi pen­sie­ri, spe­cial­men­te se si vuo­le ricor­da­re che la mi­seria del­la qua­le si trat­ta non è quel­la del­la pigri­zia, la qua­le non ha da lagnar­si che con se stes­sa! Que­sta è la mise­ria del­la gen­te labo­rio­sa. Egli è cer­to, quan­to agli ope­rai del­le cit­tà, che il lavo­ro, con il qua­le essi compra­no la loro magra pie­tan­za, è qua­si sem­pre pro­lun­ga­to al di là di ogni misu­ra. E intan­to non si può dire, nem­me­no in un sen­so mol­to ristret­to, che que­sto lavo­ro basti a so­stenerli… Sopra una vasta esten­sio­ne, que­sto non è che il cam­mi­no più o meno lun­go ver­so il pauperismo” »

«Ogni osser­va­to­re disin­te­res­sa­to vede per­fet­ta­men­te che più i mez­zi di pro­du­zio­ne si con­cen­tra­no grande­mente, più i lavo­ra­to­ri si agglo­me­ra­no in uno spa­zio ristret­to; che più l’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le è rapi­da, più le abi­ta­zio­ni ope­ra­ie diven­ta­no mise­ra­bi­li. È evi­den­te infat­ti, che i miglio­ra­men­ti e gli abbel­li­men­ti del­le cit­tà (con­se­guen­za del­l’ac­cre­sci­men­to del­la ric­chez­za), come demo­li­zio­ni di quar­tie­ri mal costrui­ti, costru­zio­ni di pa­lazzi per ban­che, depo­si­ti, ecce­te­ra, allar­ga­men­ti di stra­de per la cir­co­la­zio­ne com­mer­cia­le e del­le car­roz­ze di lus­so, costru­zio­ne di stra­de fer­ra­te inter­ne, ecce­te­ra cac­ciano i pove­ri in ango­li sem­pre più spor­chi e insa­lu­bri’ Citia­mo un’os­ser­va­zio­ne gene­ra­le del dot­to­re Simon: “Ben­ché il mio pun­to di vista uffi­cia­le sia esclusivamen­te fisi­co, il più comu­ne sen­so di uma­ni­tà non mi per­mette di tace­re l’al­tro lato del male. Giun­to a un cer­to gra­do, impli­ca qua­si neces­sa­ria­men­te una nega­zio­ne di ogni pudo­re, una pro­mi­scui­tà ribut­tan­te, un’e­spo­si­zio­ne di nudi­tà più bestia­li che uma­ne. Esse­re sot­to­po­sto a si­mili influen­ze, è una degra­da­zio­ne la qua­le, se dura di­venta ogni gior­no più pro­fon­da. Per i fan­ciul­li edu­ca­ti in que­st’at­mo­sfe­ra male­det­ta, è un bat­te­si­mo di infa­mia. E signi­fi­ca cul­lar­si nel­la più vana spe­ran­za l’a­spet­ta­re da per­so­ne situa­te in tali con­di­zio­ni degli sfor­zi per rag­giun­ge­re, sot­to un cer­to aspet­to, quel­la civi­liz­za­zio­ne ele­va­ta, la cui essen­za è nel­la purez­za fisi­ca e mora­le “(Marx, pagg. 289–290)

«I noma­di del pro­le­ta­ria­to si reclu­ta­no nel­le cam­pa­gne, ma le loro occu­pa­zio­ni sono in gran par­te indu­stria­li. E la fan­te­ria leg­ge­ra del capi­ta­le, get­ta­ta, secon­do i biso­gni del momen­to, talo­ra sopra una loca­li­tà, talo­ra sopra un’al­tra. E impie­ga­ta nel­le costru­zio­ni, nel pro­sciu­ga-men­to dei ter­re­ni, nel­la fab­bri­ca­zio­ne dei mat­to­ni, a cuo­cere la cal­ce, alla costru­zio­ne del­le stra­de fer­ra­te, eccete­ra. Colon­na mobi­le del­la pesti­len­za, essa semi­na sul­la sua stra­da il vaiuo­lo, il tifo, il cole­ra, la feb­bre scar­lat­ti­na, ec­cetera. Quan­do impre­se, come quel­le del­le stra­de fer­ra­te, esi­go­no una for­te anti­ci­pa­zio­ne di capi­ta­le, è general­mente l’in­tra­pren­di­to­re che for­ni­sce la sua arma­ta di ba­racche di legno o d’al­tri allog­gi ana­lo­ghi, vil­lag­gi im­provvisati sen­za nes­su­na rego­la di salu­bri­tà, sor­gen­te di gros­si pro­fit­ti per l’in­tra­pren­di­to­re, che sfrut­ta i suoi ope­rai e come sol­da­ti del­l’in­du­stria e come inqui­li­ni. Per una barac­ca, secon­do che con­ten­ga uno, due o tre buchi, si paga uno scel­li­no (24 sol­di), 2 o 3 per settimana.»

«Nel set­tem­bre 1864, rife­ri­sce il dot­to­re Simon, dal­la par­roc­chia di Seve­noaks furo­no denun­zia­ti al mini­stro del­l’in­ter­no i fat­ti seguen­ti. In que­sta par­roc­chia il vaiuo­lo era anco­ra, un anno fa, qua­si sco­no­sciu­to. Poco pri­ma di que­st’e­po­ca si comin­ciò a fora­re una stra­da fer­ra­ta da Lewi­sham a Tun­brid­ge. Nel­la vici­nan­za imme­dia­ta di que­st’ul­ti­ma cit­tà, non solo vi si ese­guì la mag­gior par­te dei lavo­ri, ma vi fu instal­la­to ezian­dio il depo­si­to centra­le di tut­ta la costru­zio­ne. Sic­co­me il gran nume­ro d’indi­vidui, così occu­pa­ti, non pote­va esse­re tut­to allog­gia­to nel­le case di cam­pa­gna, l’in­tra­pren­di­to­re fece costrui­re lun­go la via barac­che sprov­vi­ste di ven­ti­la­zio­ne e di sco­li, e per dì più neces­sa­ria­men­te ingom­bra­te, essen­do ogni loca­ta­rio obbli­ga­to a rice­ver­ne altri con lui, per quan­to nume­ro­sa fos­se la sua pro­pria fami­glia, e ben­ché ciascu­na capan­na non con­te­nes­se che due came­re. Dal rappor­to medi­co risul­ta che que­sta pove­ra gen­te, per scam­pa­re alle esa­la­zio­ni pesti­len­zia­li del­le acque sta­gnan­ti e del­le latri­ne, situa­te sot­to le loro fine­stre, dove­va­no subi­re, du­rante la not­te, tut­ti i tor­men­ti del­la sof­fo­ca­zio­ne. Un me­dico, appo­si­ta­men­te inca­ri­ca­to, si è espres­so in ter­mi­ni acer­bi sul­lo sta­to di que­ste sedi­cen­ti abi­ta­zio­ni, e ha fat­to inten­de­re che v’e­ra­no a temer­si le con­se­guen­ze le più fune­ste se qual­che misu­ra di salu­bri­tà non fos­se pre­sa im­mediatamente. L’in­tra­pren­di­to­re si era impe­gna­to a pre­parare una casa per colo­ro che fos­se­ro col­pi­ti da malat­tie con­ta­gio­se, ma non ha man­te­nu­ta la sua pro­mes­sa, ben­ché si fos­se­ro veri­fi­ca­ti diver­si casi di vaiuo­lo nel­le ca­panne che si dice­va­no le miglio­ri. L’o­spe­da­le del­la par­rocchia è, da mesi, ingom­bro di mala­ti. In una stes­sa fa­miglia, 5 fan­ciul­li sono mor­ti di vaiuo­lo e di feb­bre. Dal pri­mo apri­le sino al pri­mo set­tem­bre di que­st’an­no, vi so­no sta­ti 10 casi di mor­te di vaiuo­lo, 4 dei qua­li nel­le ca­panne, foco­la­re del con­ta­gio. Non si potreb­be indi­ca­re la cifra del­le malat­tie, per­ché le fami­glie, che ne sono af­flitte, fan­no tut­to il pos­si­bi­le per nasconderle”.»(Marx, pag. 293)

Vedia­mo ora gli effet­ti del­le cri­si sul­la par­te meglio pa­gata del­la clas­se ope­ra­ia. Ecco quan­to è nar­ra­to dal cor­rispondente di un gior­na­le, il ‘Mor­ning Star’, che, nel gen­na­io 1867, nel­l’oc­ca­sio­ne di una cri­si indu­stria­le, vi­sitò le prin­ci­pa­li loca­li­tà in sofferenza.

«All’e­st di Lon­dra 15 000 lavo­ra­to­ri alme­no, fra i qua­li più di 3000 ope­rai di mestie­ri, si tro­va­no con le loro fami­glie let­te­ral­men­te agli estre­mi. A sten­to ho potu­to avan­zar­mi sino alla por­ta del­la Casa di lavo­ro ( Wor­khou­se), asse­dia­ta da una fol­la di affa­ma­ti. Aspet­ta­va­no i bo­ni del pane, ma l’o­ra del­la distri­bu­zio­ne non era anco­ra giun­ta. Nel­la cor­te, tut­ta ingom­bra di neve, alcu­ni uo­mini, ripa­ra­ti dal­le spor­gen­ze del tet­to, acco­mo­da­va­no il lastri­ca­to. Lavo­ra­va­no per 6 sol­di al gior­no e un bono di pane. In una pic­co­la capan­na spor­ca e rovi­na­ta, che sta­va in una par­te del­la cor­te, si tro­va­va una quan­ti­tà di uo­mini, con le spal­le gli uni addos­sa­te agli altri, tan­to per riscal­dar­si. Essi sfi­lac­cia­va­no cana­pi di nave e gareggia­vano a chi lavo­re­reb­be più a lun­go con il minor nutri­mento. Que­sta sola Casa di lavo­ro soc­cor­re­va 7000 per­sone, mol­te del­le qua­li gua­da­gna­va­no, 6 o 7 mesi or so­no, i più gros­si sala­ri. Il loro nume­ro sareb­be sta­to dop­pio, se abi­tual­men­te non ci fos­se­ro lavo­ra­to­ri, che rifiu­tano qual­sia­si soc­cor­so del­la par­roc­chia, fin­ché resta lo­ro qual­che cosa da impe­gna­re. Usci­to dal­la Casa di la­voro, entrai nel­la casa d’un ope­ra­io in fer­ro, pri­vo di la­voro da 27 set­ti­ma­ne. Lo tro­vai sedu­to con tut­ta la sua fami­glia in una came­ra remo­ta. La came­ra non era an­cora del tut­to sguar­ni­ta di mobi­li, e vi era un po’ di fuo­co, indi­spen­sa­bi­le in una gior­na­ta di fred­do ter­ri­bi­le, per impe­di­re che i pie­di nudi dei fan­ciul­li si gelas­se­ro. In­nanzi al fuo­co vi era una cer­ta quan­ti­tà di stop­pa, che le don­ne e i fan­ciul­li dove­va­no fila­re, in ricam­bio del pa­ne loro for­ni­to dal­la Casa di lavo­ro. L’uo­mo lavo­ra­va nel­la cor­te sopra accen­na­ta per un bono di 6 sol­di al gior­no. Egli era in quel pun­to arri­va­to per il pasto del mez­zo­dì, mol­to affa­ma­to, come dis­se egli stes­so con un ama­ro sor­ri­so, e que­sto pasto con­si­ste­va in qual­che fet­ta di pane con strut­to e una taz­za di tè sen­za lat­te. La se­conda por­ta, alla qua­le pic­chiam­mo, fu aper­ta da una don­na, che sen­za dir paro­la ci con­dus­se in una pic­co­la came­ra nel fon­do, dove si tro­va­va tut­ta la sua fami­glia silen­zio­sa e con gli occhi fis­si su di un fuo­co pros­si­mo a estin­guer­si. Vi era intor­no a que­sta gen­te un’a­ria di soli­tudine e di dispe­ra­zio­ne, da far­mi augu­ra­re di non rive­dere più mai simi­li sce­ne… “Essi non han­no gua­da­gna­to nul­la, signo­re” dis­se la don­na mostran­do i suoi pic­co­li fi­gliuoli “nien­te, da 26 set­ti­ma­ne, e tut­to il nostro dena­ro se n’è anda­to, tut­to il dena­ro che il padre e io ave­va­mo mes­so da par­te in tem­pi miglio­ri, con la vana spe­ran­za di assi­cu­rar­ci una riser­va per i gior­ni cat­ti­vi. Vede­te!” gri­dò con accen­to qua­si sel­vag­gio, e nel­l’i­stes­so tem­po ci mo­strava un libret­to di ban­ca, dove era­no indi­ca­te regolar­mente tut­te le som­me suc­ces­si­va­men­te ver­sa­te, poi riti­rate, di gui­sa che potem­mo con­sta­ta­re, come il pic­co­lo pecu­lio, dopo aver inco­min­cia­to da un depo­si­to di 5 scel­li­ni, dopo esser­si ingros­sa­to sino a 20 L. st. (L. 504,16), si era tra­mu­ta­to poscia da lire ster­li­ne in scel­li­ni, e da scel­li­ni in sol­di, sino a che il libret­to fu ri­dotto ad ave­re il valo­re di un pez­zo di car­ta bian­ca. Que­sta fami­glia rice­ve­va ogni gior­no un magro pasto dal­la Casa di lavo­ro… In un’al­tra casa tro­vai una don­na ma­lata d’i­na­ni­zio­ne, ste­sa, tut­ta vesti­ta, su di un mate­ras­so e appe­na coper­ta da un lem­bo di tap­pe­to: tut­to il resto era al Mon­te di Pie­tà. I suoi infe­li­ci figli, che la curava­no, mostra­va­no di ave­re essi stes­si gran biso­gno del­le cu­re mater­ne… Essa rac­con­tò la sto­ria del suo pas­sa­to disa­stroso, sin­ghioz­zan­do in gui­sa come se aves­se per­du­ta ogni spe­ran­za di un avve­ni­re miglio­re. Chia­ma­to in un’al­tra casa, vi tro­vai una don­na e due gra­zio­si fanciul­li. Un pac­co di rice­vu­te del Mon­te di Pie­tà e una came­ra com­ple­ta­men­te nuda fu tut­to ciò che mi mostra­ro­no.» «È di moda, fra i capi­ta­li­sti ingle­si, dipin­ge­re il Bel­gio come ‘il para­di­so dei lavo­ra­to­ri’, per­ché colà, la ‘liber­tà del lavo­ro’, ovve­ro, ciò ch’è la stes­sa cosa, la liber­tà del capi­ta­le, si tro­va al sicu­ro da ogni attac­co. Là non v’ha né dispo­ti­smo igno­mi­nio­so di socie­tà di resi­sten­za, né cor­rut­te­la oppres­si­va d’i­spet­to­ri di fab­bri­ca. Se v’è sta­to alcu­no ben ini­zia­to in tut­ti i miste­ri del­la feli­ci­tà del ‘li­bero’ lavo­ra­to­re bel­ga, que­sti è sta­to cer­ta­men­te il fu Duc­pe­tiaux, ispet­to­re gene­ra­le del­le pri­gio­ni e degli sta­bilimenti di bene­fi­cen­za bel­gi, e, nel­lo stes­so tem­po, mem­bro del­la Com­mis­sio­ne cen­tra­le di sta­ti­sti­ca bel­ga Apria­mo la sua ope­ra: Bilan­cio eco­no­mi­co del­le clas­si ope­ra­ie nel Bel­gio, Bud­get éco­no­mi­que des clas­ses ouvriè­res en Bel­gi­que, Bru­xel­les, 1855. Noi vi tro­via­mo il para­go­ne fra lo sta­to nor­ma­le di una fami­glia ope­ra­ia bel­ga, e il regi­me ali­men­ta­rio del sol­da­to, del mari­na­io del­lo Sta­to e del pri­gio­nie­ro. Tut­te le risor­se del­la fami­glia, esat­ta­men­te cal­co­la­te, si ele­va­no annual­men­te a L. 1068. Ecco il bilan­cio annua­le del­la famiglia:

Il padre 300 gior­ni a L. 1,56 L. 468
La madre 300 gior­ni a L. 0,89 L. 267
Il figlio 300 gior­ni a L. 0,56 L. 168
La figlia 300 gior­ni a L. 0,55 L. 165
Tota­le annuale L. 1068

La spe­sa annua­le del­la fami­glia e il suo defi­cit si eleve­rebbero, nel­la ipo­te­si che l’o­pe­ra­io aves­se l’alimentazione

del mari­na­io, a L. 1828 Defi­cit L. 760
del sol­da­to, a L. 1473 Defi­cit L. 70
del pri­gio­nie­ro, a L. 1112 Defi­cit L. 44

«Un’in­chie­sta uffi­cia­le fu fat­ta in Inghil­ter­ra, nel 1863, sul­l’a­li­men­ta­zio­ne e il lavo­ro dei con­dan­na­ti, sia alla depor­ta­zio­ne, sia ai lavo­ri for­za­ti. Para­go­na­to l’or­di­na­rio dei pri­gio­nie­ri ingle­si e quel­lo dei pove­ri del­le Case di lavo­ro e dei lavo­ra­to­ri agri­co­li libe­ri del­l’In­ghil­ter­ra, è pro­va­to all’e­vi­den­za che i pri­mi sono mol­to meglio nutri­ti di quel­li del­le due altre cate­go­rie, per­ché “la mas­sa di lavo­ro, che si esi­ge da un con­dan­na­to ai lavo­ri for­za­ti, non si ele­va al di là del­la metà di quel­la che ese­gui­sco­no i lavo­ratori agri­co­li ordinari”.»(Marx, pag. 299)

«Un rap­por­to sul­la sani­tà pub­bli­ca, del 1865, par­lan­do di una visi­ta fat­ta in tem­po di epi­de­mia a case di con­tadini, cita fra gli altri fat­ti il seguen­te: “Una gio­va­ne mala­ta di feb­bre dor­mi­va la not­te nel­la stes­sa came­ra con suo padre, sua madre, un suo figlio ille­git­ti­mo, due gio­va­ni suoi fra­tel­li, due sue sorel­le, cia­scu­na con un bastar­do, in tut­to 10 per­so­ne. Qual­che set­ti­ma­na pri­ma, 13 fan­ciul­li dor­mi­va­no nel mede­si­mo locale”.»(Marx, pag. 302)

Le mode­ste pro­por­zio­ni di que­sto com­pen­dio non ci per­met­to­no di ripor­ta­re qui, dal testo, la minu­ta esposi­zione del­lo sta­to orri­bi­le in cui giac­cio­no i con­ta­di­ni in Inghil­ter­ra. Chiu­de­re­mo, quin­di, que­sto capi­to­lo, par­lando di una pia­ga tut­ta spe­cia­le, pro­dot­ta in Inghil­ter­ra, fra i lavo­ra­to­ri agri­co­li, dal­l’ac­cu­mu­la­zio­ne del capitale.

L’ec­ces­so di popo­la­zio­ne agri­co­la pro­du­ce l’ef­fet­to di far ribas­sa­re i sala­ri, men­tre non sod­di­sfa nem­me­no tut­ti i biso­gni del capi­ta­le nei momen­ti di lavo­ri ecce­zio­na­li e urgen­ti, che sono richie­sti in date epo­che del­l’an­no dal­l’a­gri­col­tu­ra. Ne segue, quin­di, che un gran nume­ro di don­ne e di fan­ciul­li vien impe­gna­to per biso­gni mo­mentanei del capi­ta­le, pas­sa­ti i qua­li, que­sta gen­te va ad aumen­ta­re la sovra­po­po­la­zio­ne lavo­ra­tri­ce del­le campa­gne. Que­sto fat­to ha pro­dot­to nel­le cam­pa­gne dell’In­ghilterra il siste­ma del­le ban­de ambulanti.

«Una ban­da si com­po­ne da 10 a 40 o 50 per­so­ne, don­ne, ado­le­scen­ti dei due ses­si, ben­ché la più gran par­te dei ragaz­zi ven­ga eli­mi­na­ta ver­so il loro tre­di­ce­si­mo an­no, infi­ne fan­ciul­li dai 6 ai 13 anni. Il suo capo è un ope­raio di cam­pa­gna ordi­na­rio, qua­si sem­pre una cat­ti­va la­na, vaga­bon­do, buon­tem­po­ne, ubria­co­ne, ma intra­prendente e dota­to di mol­ta abi­li­tà. È lui che reclu­ta la ban­da, desti­na­ta a lavo­ra­re sot­to i suoi ordi­ni, e non sot­to quel­li del fat­to­re. Sic­co­me egli pren­de il lavo­ro a cot­timo, il suo gua­da­gno, che, in media, non sor­pas­sa qua­si quel­lo del­l’o­pe­ra­io ordi­na­rio, dipen­de, qua­si esclusi­vamente, dal­l’a­bi­li­tà con la qua­le egli sa far ave­re alla sua ban­da, nel tem­po più cor­to, il mag­gior lavo­ro possi­bile. I fat­to­ri san­no, per espe­rien­za, che le don­ne non fan­no tut­to ciò che pos­so­no fare, se non sot­to il co­mando degli uomi­ni, e che le gio­va­net­te e i fan­ciul­li, una vol­ta avvia­ti, spen­do­no le loro for­ze con prodiga­lità, men­tre l’o­pe­ra­io maschio adul­to cer­ca d’economiz­zare le sue. Il capo di ban­da, facen­do il giro del­le fatto­rie, può occu­pa­re la sua gen­te duran­te 6 o 8 mesi del­l’anno. Egli è dun­que per le fami­glie ope­ra­ie un avven­tore miglio­re del fat­to­re iso­la­to, il qua­le non impie­ga i fan­ciul­li che di quan­do in quan­do. Que­sta cir­co­stan­za sta­bi­li­sce tan­to bene la sua influen­za, che in mol­te lo­calità non si può pro­cu­rar­si fan­ciul­li sen­za l’in­ter­ven­to del capobanda.»

«I vizi di que­sto siste­ma sono l’ec­ces­so di lavo­ro impo­sto ai fan­ciul­li e ai gio­va­net­ti, l’e­nor­me cam­mi­no, che essi sono costret­ti a fare ogni gior­no per anda­re e veni­re dal­la fat­to­ria, distan­te 5, 6 e qual­che vol­ta 7 miglia, in­fine la demo­ra­liz­za­zio­ne del­la ban­da ambu­lan­te. Ben­ché il capo di ban­da sia arma­to di un lun­go basto­ne, egli non se ne ser­ve tut­ta­via che rara­men­te, e i trat­ta­men­ti bru­tali sono ecce­zio­nal­men­te lamen­ta­ti. Egli ha biso­gno di esse­re popo­la­re fra i suoi sot­to­po­sti, e se li affe­zio­na con le attrat­ti­ve di una esi­sten­za da zin­ga­ri-vita vagan­te, as­senza di qual­sia­si riguar­do, alle­gria stre­pi­to­sa, libertinag­gio gros­so­la­no. Ordi­na­ria­men­te la paga si fa all’o­ste­ria fra le liba­zio­ni copio­se. Poscia si pren­de la stra­da per ri­tornare a casa. Vacil­lan­te, appog­gia­to la destra e la sini­stra sul brac­cio robu­sto di qual­che don­no­ne, il degno ca­po cam­mi­na in testa del­la colon­na, men­tre alla coda i più gio­va­ni fol­leg­gia­no e into­na­no can­zo­ni bur­le­sche od osce­ne. Non è raro che fan­ciul­le di 13 o 14 anni sia­no ingra­vi­da­te da ragaz­zi del­la stes­sa età. I vil­lag­gi, che so­no la sor­gen­te e il ser­ba­to­io di que­ste ban­de, diven­ta­no tan­te Sodo­me e Gomor­re, dove la cifra del­le nasci­te il­legittime rag­giun­ge il suo massimo.»

«La ban­da, nel­la for­ma clas­si­ca da noi descrit­ta, si di­ce ban­da pub­bli­ca, comu­ne o ambu­lan­te. Vi han­no pu­re ban­de par­ti­co­la­ri, com­po­ste dei mede­si­mi ele­men­ti del­le pri­me, ma meno nume­ro­se, e fun­zio­nan­ti sot­to gli ordi­ni, non di un capo di ban­da, ma di qual­che vec­chio gar­zo­ne di fat­to­ria, che il suo padro­ne non sapreb­be al­trimenti impie­ga­re. Que­ste non han­no più l’al­le­gria né lo spi­ri­to da zin­ga­ri, ma, come tut­ti i testi­mo­ni dico­no, i fan­ciul­li vi sono meno paga­ti e più maltrattati.»

«Que­sto siste­ma il qua­le, in que­sti ulti­mi anni, conti­nua a esten­der­si, non esi­ste evi­den­te­men­te per il pia­ce­re del capo di ban­da. Esso esi­ste per­ché arric­chi­sce i gros­si fat­to­ri e i pro­prie­ta­ri. I pic­co­li fat­to­ri non impie­ga­no ban­de, e nem­me­no se ne impie­ga­no sul­le ter­re pove­re. Un pro­prie­ta­rio, spa­ven­ta­to da una pos­si­bi­le ridu­zio­ne del­le sue ren­di­te, si adi­rò innan­zi alla com­mis­sio­ne d’Inchie­sta. “Per­ché si fa tan­to chias­so?” egli gri­dò. “Per­ché il no­me del siste­ma suo­na male. Inve­ce di ‘ban­da’ dite, per esem­pio, ‘asso­cia­zio­ne indu­stria­le agri­co­la coo­pe­ra­ti­va del­la gio­ven­tù rura­le’, e nes­su­no vi tro­ve­rà a ridi­re.” “Il lavo­ro per ban­de è al più buon mer­ca­to in con­fron­to di qua­lun­que altro, ed ecco per­ché lo s’im­pie­ga” dice un an­tico capo-ban­da. “Il siste­ma del­le ban­de” dice un fat­to­re “è il meno caro per i fat­to­ri, e sen­za con­trad­di­zio­ne il più per­ni­cio­so per i fan­ciul­li.” Per i fat­to­ri non v’ha meto­do più inge­gno­so per man­te­ne­re il per­so­na­le dei lavo­ra­to­ri mol­to al disot­to del livel­lo nor­ma­le, lascian­do sem­pre a sua dispo­si­zio­ne un sup­ple­men­to di brac­cia per i biso­gni straor­di­na­ri per otte­ne­re mol­to lavo­ro con la minor spe­sa pos­si­bi­le, e per ren­de­re super­flui i maschi adul­ti. Sot­to pre­te­sto che man­ca­no i lavo­ra­to­ri e il lavo­ro, si recla­ma come neces­sa­rio il siste­ma del­le bande.»

CAPITOLO X

L’ACCUMULAZIONE PRIMITIVA

Ecco­ci giun­ti alla fine del nostro dramma.

Noi incon­tram­mo un gior­no il lavo­ra­to­re sul mer­ca­to, venu­to per ven­de­re la sua for­za di lavo­ro, e lo vedem­mo con­trat­ta­re da pari a pari con l’uo­mo del dena­ro. Egli non cono­sce­va anco­ra quan­to dura fos­se la stra­da del Cal­va­rio che dove­va ascen­de­re, né ave­va anco­ra ap­pressato alle sue lab­bra l’a­ma­ris­si­mo cali­ce, che tut­to do­veva tra­can­na­re sino alla fec­cia. L’uo­mo del dena­ro, non anco­ra dive­nu­to capi­ta­li­sta, non era allo­ra che un mo­desto pos­ses­so­re di pic­co­la ric­chez­za, timi­do e incer­to per la riu­sci­ta del­la sua nuo­va intra­pre­sa, nel­la qua­le impie­gava la sua fortuna.

Vedem­mo poi come la sce­na si ven­ne mutando.

L’o­pe­ra­io, dopo aver gene­ra­to, con il suo pri­mo sopra­lavoro, il capi­ta­le, fu oppres­so dal­l’ec­ces­si­vo lavo­ro di una gior­na­ta straor­di­na­ria­men­te pro­lun­ga­ta. Con il plu­svalore rela­ti­vo gli fu ristret­to il tem­po del lavo­ro ne­cessario pel suo man­te­ni­men­to e pro­lun­ga­to quel­lo del sopra­la­vo­ro, desti­na­to a nutri­re sem­pre più ric­ca­men­te il capi­ta­le. Nel­la coo­pe­ra­zio­ne sem­pli­ce vedem­mo l’ope­raio a una disci­pli­na di caser­ma, e, tra­sci­na­to dal­la cor­rente di tut­ta una con­ca­te­na­zio­ne di for­ze di lavo­ro, este­nuarsi sem­pre più, per dare mag­gio­re ali­men­to al sem­pre cre­scen­te capi­ta­le. Vedem­mo l’o­pe­ra­io muti­la­to, avvi­li­to, e depres­so al mas­si­mo gra­do dal­la divi­sio­ne del lavo­ro, nel­la mani­fat­tu­ra. Lo vedem­mo sof­fri­re gl’i­ne­nar­ra­bi­li dolo­ri mate­ria­li e mora­li, cau­sa­ti­gli dal­l’in­tro­du­zio­ne del­le mac­chi­ne, nel­la gran­de indu­stria. Espro­pria­to del­l’ul­ti­ma par­ti­cel­la di vir­tù arti­gia­na, lo vedem­mo ri­dotto a mero ser­vo del­la mac­chi­na, tra­sfor­ma­to, da mem­bro di un orga­ni­smo viven­te, in appen­di­ce vol­ga­ris­si­ma di un mec­ca­ni­smo, tor­tu­ra­to dal lavo­ro vertigi­nosamente inten­si­fi­ca­to del­la mac­chi­na, che a ogni trat­to minac­cia strap­par­gli un bran­del­lo del­le sue car­ni, o stri­to­lar­lo com­ple­ta­men­te fra i suoi ter­ri­bi­li ingra­nag­gi; e per di più vedem­mo la moglie e i tene­ri figli suoi dive­nuti schia­vi del capi­ta­le. E intan­to il capi­ta­li­sta, arric­chito immen­sa­men­te, gli paga un sala­rio, che egli può a suo pia­ce­re dimi­nui­re, anche facen­do mostra di conser­varlo allo stes­so livel­lo di pri­ma, e per­fi­no di aumentar­lo. Final­men­te vedem­mo l’o­pe­ra­io, tem­po­ra­nea­men­te inu­ti­liz­za­to dal­l’ac­cu­mu­la­zio­ne del capi­ta­le, pas­sa­re dal­l’ar­ma­ta atti­va indu­stria­le nel­la riser­va, per poi, da que­sta, cade­re per sem­pre nel­l’in­fer­no del pau­pe­ri­smo. Tut­to il sacri­fi­cio è consumato!

Ma come mai ha potu­to avve­ni­re tut­to ciò?

In un modo mol­to sem­pli­ce. L’o­pe­ra­io era, è vero, pos­sessore del­la sua for­za di lavo­ro, con la qua­le avreb­be po­tuto pro­dur­re ogni gior­no mol­to più di quan­to abbiso­gnava per sé e per la sua fami­glia, ma gli man­ca­va­no però gli altri ele­men­ti indi­spen­sa­bi­li del lavo­ro, i mez­zi, cioè, e le mate­rie di lavo­ro. Sprov­vi­sto dun­que di qual­siasi ric­chez­za, l’o­pe­ra­io è sta­to costret­to, per cam­pa­re la vita, a ven­de­re il suo uni­co bene, la sua for­za di lavo­ro all’uo­mo del dena­ro, che ne ha fat­to il suo pro. La pro­prietà indi­vi­dua­le e il sala­ria­to, fon­da­men­ti del siste­ma di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta, sono sta­ti la cau­sa pri­ma di tan­ti dolori.

Ma ciò è ini­quo! È scel­le­ra­to! E chi ha mai con­fe­ri­to all’uo­mo il dirit­to di pro­prie­tà indi­vi­dua­le? E come mai l’uo­mo del dena­ro si tro­va­va in pos­ses­so di un’accumu­lazione pri­mi­ti­va, ori­gi­ne di tan­te infamie?

Una voce ter­ri­bi­le esce dal tem­pio del Dio Capi­ta­le, e gri­da: ‘Tut­to è giu­sto, per­ché tut­to è scrit­to nel libro del­le eter­ne leg­gi. Fuv­vi già un tem­po mol­to lon­ta­no, nel qua­le tut­ti gli uomi­ni vaga­va­no anco­ra libe­ri e ugua­li per la Ter­ra. Pochi di essi furo­no labo­rio­si, sobri ed economi­ci; tut­ti gli altri pol­tro­ni, goz­zo­vi­glia­to­ri e dis­si­pa­to­ri. La vir­tù fece ric­chi i pri­mi, e il vizio immi­se­rì i secon­di. I po­chi ebbe­ro il dirit­to di gode­re (essi e i loro discen­den­ti) del­le ric­chez­ze vir­tuo­sa­men­te accu­mu­la­te; men­tre i mol­ti spin­ti dal­la loro mise­ria a ven­der­si ai ric­chi, furo­no con­dannati eter­na­men­te a ser­vi­re essi e i loro discendenti’.

Ecco come spie­ga­no la cosa cer­ti ami­ci del­l’or­di­ne bor­ghese. «E que­ste insi­pi­de fan­ciul­lag­gi­ni non si stan­ca­no mai di scio­ri­nar­le. Thiers[1], per esem­pio, osa pre­sen­tar­le ai fran­ce­si in un volu­me, nel qua­le, con la gra­vi­tà di un uomo di Sta­to, pre­ten­de di ave­re annien­ta­ti gli attac­chi sacri­le­ghi del socia­li­smo con­tro la pro­prie­tà.» (Marx, pag. 314)

Se tale fos­se l’o­ri­gi­ne del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne pri­mi­ti­va, la teo­ria, che da essa deri­va, sareb­be tan­to giu­sta, quan­to quel­la del pec­ca­to ori­gi­na­le e quel­la del­la predestinazio­ne. Il padre fu pol­tro­ne e goz­zo­vi­glia­to­re, il figlio sof­fri­rà la mise­ria. Il tale è figlio di un ric­co, è pre­de­sti­na­to a es­sere feli­ce, poten­te, istrui­to, civi­le, for­te, ecce­te­ra; il tal altro è figlio di un pove­ro, è pre­de­sti­na­to a esse­re in­felice, debo­le, igno­ran­te, abbru­ti­to, immo­ra­le, ecce­te­ra. Una socie­tà, fon­da­ta sopra una tale leg­ge, dovreb­be cer­tamente fini­re, come già fini­ro­no tan­te altre socie­tà, me­no bar­ba­re e meno ipo­cri­te, tan­te reli­gio­ni e dèi, inco­minciando dal cri­stia­ne­si­mo, nel­le cui leg­gi si tro­va­no esem­pi con­si­mi­li di giustizia.

E qui potrem­mo met­ter fine al nostro dire, se ci fos­se per­mes­so di ter­mi­nar­lo con que­sta scem­piag­gi­ne bor­ghe­se. Ma il nostro dram­ma ha una cata­stro­fe degna di esso, come tosto vedre­mo, assi­sten­do al suo ulti­mo atto.

Apria­mo la sto­ria, quel­la sto­ria scrit­ta da bor­ghe­si, e per uso e con­su­mo del­la bor­ghe­sia; cer­chia­mo in essa l’o­ri­gi­ne del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne pri­mi­ti­va, ed ecco ciò che vi troviamo.

Nel­l’e­po­ca più anti­ca, tor­me di gen­te vagan­ti ven­go­no a sta­bi­lir­si in quel­le loca­li­tà meglio dispo­ste e più fa­vorite dal­la natu­ra. Vi fon­da­no cit­tà, si dan­no a coltiva­re la ter­ra, e a fare quan­t’al­tro occor­re per il pro­prio be­nessere. Ma ecco che esse s’in­con­tra­no e si urta­no nel lo­ro svi­lup­po, e ne segue guer­ra, mor­ti, incen­di, rapi­ne e stra­gi. Tut­to ciò che è dei vin­ti diven­ta la pro­prie­tà dei vin­ci­to­ri, com­pre­se le per­so­ne dei super­sti­ti, che sono fat­ti tut­ti schiavi.

Ecco l’o­ri­gi­ne del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne pri­mi­ti­va nell’anti­chità. Venia­mo ora al medio evo.

In que­sta secon­da epo­ca del­la sto­ria, altro non tro­viamo che inva­sio­ni di popo­li nei pae­si di altri popo­li più ric­chi e più favo­ri­ti dal­la natu­ra, e sem­pre lo stes­so ritor­nel­lo di stra­gi, rapi­ne, incen­di, ecce­te­ra. Tut­to ciò che è dei vin­ti diven­ta la pro­prie­tà dei vin­ci­to­ri, con la sola dif­fe­ren­za che i super­sti­ti non sono fat­ti più schia­vi, come nel­la epo­ca anti­ca, ma ser­vi, e pas­sa­no con la ter­ra, alla qua­le sono attac­ca­ti, in pote­re dei loro si­gnori. Nem­me­no nel medio evo dun­que tro­via­mo la meno­ma trac­cia del­l’i­dil­li­ca labo­rio­si­tà, sobrie­tà ed eco­no­mia decan­ta­ta da una cer­ta dot­tri­na bor­ghe­se qua­le ori­gi­ne del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne pri­mi­ti­va. E noti­si che il medio evo è l’e­po­ca alla qua­le i più illu­stri nostri pos­ses­so­ri di ric­chez­za pos­sa­no van­tar­si di far ascende­re la loro ori­gi­ne. Ma venia­mo final­men­te all’e­po­ca moderna.

La rivo­lu­zio­ne bor­ghe­se ha distrut­to il feu­da­li­smo, ed ha tra­smu­ta­ta la ser­vi­tù in sala­ria­to. Nel­lo stes­so tem­po, però, essa ha tol­to al lavo­ra­to­re i pochi mez­zi di esisten­za, che lo sta­to di ser­vi­tù gli assi­cu­ra­va. Il ser­vo, ben­ché doves­se lavo­ra­re la mag­gior par­te del suo tem­po per il suo signo­re, pure si ave­va un pez­zo di ter­ra con i mez­zi e il tem­po di coltivarla/per cam­pa­re la sua vita. La bor­ghesia ha distrut­to tut­to ciò, e del ser­vo ha fat­to un libe­ro (?) lavo­ra­to­re, il qua­le non ha altra scel­ta che, o far­si sfrut­ta­re nel modo che abbia­mo già visto, dal pri­mo ca­pitalista che gli capi­ta, o mori­re di fame.

Scen­dia­mo ora ai par­ti­co­la­ri. Apria­mo la sto­ria di un popo­lo, e vedia­mo com’è avve­nu­ta l’e­spro­pria­zio­ne del­le popo­la­zio­ni agri­co­le, e la for­ma­zio­ne di quel­le mas­se ope­ra­ie, desti­na­te a for­ni­re la loro for­za di lavo­ro alle in­dustrie moder­ne. Pren­de­re­mo, secon­do il soli­to, la sto­ria d’In­ghil­ter­ra, per­ché se l’In­ghil­ter­ra è il pae­se, dove più che altro­ve è svi­lup­pa­ta la malat­tia che noi stu­dia­mo, è des­sa che potrà offrir­ci sem­pre il cam­po più adat­to per le nostre osser­va­zio­ni pratiche.

«In Inghil­ter­ra, il ser­vag­gio era scom­par­so di fat­to ver­so la fine del XIV seco­lo. L’im­men­sa mag­gio­ran­za del­la popo­la­zio­ne si com­po­ne­va allo­ra, e più inte­ra­men­te anco­ra al XV seco­lo, di con­ta­di­ni libe­ri, che col­ti­va­va­no le loro pro­prie ter­re, qua­lun­que fos­se il tito­lo feu­da­le sul qua­le pog­gia­va­no il loro dirit­to di pos­ses­so. Nei gran­di domi­ni signo­ri­li l’an­ti­co balì, ser­vo lui stes­so, ave­va cedu­to il posto al fat­to­re indi­pen­den­te. I sala­ria­ti rura­li era­no in par­te con­ta­di­ni (che, duran­te il tem­po lascia­to loro libe­ro dal­la cul­tu­ra dei loro cam­pi, pren­de­va­no ser­vi­zio pres­so i gran­di pro­prie­ta­ri), in par­te una clas­se par­ti­co­la­re e poco nume­ro­sa di gior­na­lie­ri. Que­sti stes­si era­no pure, in una cer­ta misu­ra, col­ti­va­to­ri per pro­prio con­to, per­ché, oltre del sala­rio, si face­va loro con­ces­sio­ne di cam­pi alme­no di 4 acri, con case di cam­pa­gna; dip­più, essi par­te­ci­pa­va­no, insie­me con i con­ta­di­ni propriamen­te det­ti, all’u­su­frut­to dei beni comu­na­li, dove face­va­no pasce­re il loro bestia­me, e si prov­ve­de­va­no di legna, di tor­ba, ecce­te­ra, per riscaldarsi.»

La rivo­lu­zio­ne, che dove­va get­ta­re i pri­mi fon­da­men­ti del regi­me capi­ta­li­sta, ebbe il suo pre­lu­dio nel­l’ul­ti­mo ter­zo del XV seco­lo e nel prin­ci­pio del XVI. Allo­ra il licen­zia­men­to dei nume­ro­si segui­ti signo­ri­li lan­ciò im­provvisamente sul mer­ca­to del lavo­ro una mas­sa di pro­letari sen­za fuo­co e sen­za tet­to; la qua­le fu considerevol­mente ingran­di­ta dal­le usur­pa­zio­ni, che i gran signo­ri fe­cero dei beni comu­na­li dei con­ta­di­ni, cac­cian­do­ne que­sti, che vi ave­va­no tan­to dirit­to quan­to i loro padro­ni. Ciò che, in Inghil­ter­ra, det­te spe­cial­men­te luo­go a que­sti atti di vio­len­za, fu l’e­sten­sio­ne del­le mani­fat­tu­re di la­na in Fian­dra e il rial­zo dei prez­zi del­la lana che ne risul­tò. Tra­sfor­ma­zio­ne del­le ter­re ara­bi­li in pasco­li: tale fu il gri­do di guer­ra. Har­ri­son[2] rac­con­ta come l’e­spro­pria­zio­ne dei con­ta­di­ni aves­se deso­la­to il pae­se. “Ma che impor­ta ai nostri gran­di usur­pa­to­ri? Le case dei con­ta­di­ni e le case rusti­che dei lavo­ra­to­ri sono sta­te vio­len­te­men­te rasa­te al suo­lo, o con­dan­na­te a cade­re in rovi­na. Se si voglio­no con­sul­ta­re gli anti­chi inven­ta­ri di cia­scu­na resi­den­za si­gnorile, si tro­ve­rà che innu­me­re­vo­li case sono scompar­se con i col­ti­va­to­ri che le abi­ta­va­no, che il pae­se nutre ora mol­to minor nume­ro di gen­te, che mol­te cit­tà sono deca­du­te, ben­ché qual­cu­na di nuo­va fon­da­zio­ne prospe­ri… A pro­po­si­to del­le cit­tà e dei vil­lag­gi distrut­ti per fare par­chi di peco­re e nei qua­li non si vede più nien­te in pie­di, sal­vo il castel­lo signo­ri­le, avrei mol­to a dire.”» (Marx, pagg. 316–317.)

«La Rifor­ma, e lo spo­glia­men­to dei beni del­la Chie­sa che la seguì, ven­ne a dare un nuo­vo e ter­ri­bi­le impul­so all’e­spro­pria­zio­ne vio­len­ta del popo­lo, nel XVI seco­lo. La chie­sa cat­to­li­ca era, a que­st’e­po­ca, pro­prie­ta­ria feu­dale del­la più gran par­te del suo­lo ingle­se. La soppres­sione dei chio­stri, ecce­te­ra, ne get­tò gli ambien­ti nel pro­le­ta­ria­to. I beni stes­si del cle­ro cad­de­ro nel­le mani dei favo­ri­ti rea­li, o furo­no ven­du­ti a vil prez­zo a cittadi­ni, a fat­to­ri spe­cu­la­to­ri, che inco­min­cia­ro­no dal caccia­re in mas­sa gli anti­chi cen­sua­ri ere­di­ta­ri. Il dirit­to di pro­prietà del­la pove­ra gen­te, sopra una par­te del­le deci­me eccle­sia­sti­che, fu taci­ta­men­te con­fi­sca­to. Nel quarante­simo anno del regno di Eli­sa­bet­ta, si dovet­te riconosce­re il pau­pe­ri­smo come isti­tu­zio­ne nazio­na­le, e sta­bi­li­re la tas­sa per i pove­ri. Gli auto­ri di que­sta leg­ge si vergogna­rono di dichia­rar­ne i moti­vi, e la pub­bli­ca­ro­no sen­za al­cun pre­am­bo­lo, con­tra­ria­men­te all’u­so tra­di­zio­na­le. Sot­to Car­lo I, il Par­la­men­to la dichia­rò per­pe­tua, e non fu poi modi­fi­ca­ta che nel 1834. Allo­ra diven­ne pei pove­ri un casti­go ciò che loro era sta­to ori­gi­na­ria­men­te accor­dato come inden­ni­tà del­le espro­pria­zio­ni subite.»

«Al tem­po anco­ra di Eli­sa­bet­ta, alcu­ni pro­prie­ta­ri fon­diari e alcu­ni ric­chi fat­to­ri del­l’In­ghil­ter­ra meri­dio­na­le si riu­ni­ro­no in con­ci­lia­bo­lo, per appro­fon­di­re la leg­ge sui pove­ri recen­te­men­te pro­mul­ga­ta. Ecco un estrat­to del sun­to dei loro stu­di, sot­to­po­sto all’av­vi­so di un cele­bre giu­re­con­sul­to di quel tempo:

“Alcu­ni ric­chi fat­to­ri del­la par­roc­chia han­no proget­tato un pia­no mol­to sag­gio, con il qua­le si può evi­ta­re ogni sor­ta di tur­bo­len­za nel­la ese­cu­zio­ne del­la leg­ge. Es­si pro­pon­go­no di far costrui­re nel­la par­roc­chia una pri­gione di lavo­ro. Ogni pove­ro che non vor­rà far­vi­si rin­chiudere si vedrà rifiu­ta­ta l’as­si­sten­za. Si farà poi sape­re nei din­tor­ni che se qual­cu­no desi­de­ras­se pren­de­re in af­fitto i pove­ri di que­sta par­roc­chia, dovreb­be rimet­te­re, in un ter­mi­ne pre­sta­bi­li­to, le pro­po­ste sigil­la­te, indican­do il prez­zo più bas­so al qua­le egli se ne vor­reb­be sba­raz­za­re. Gli auto­ri di que­sto pia­no sup­pon­go­no che vi sia­no nel­le vici­ne con­tee gen­ti, le qua­li non abbia­no alcu­na voglia di lavo­ra­re, e che sia­no sen­za for­tu­na o sen­za cre­dito per pro­cu­rar­si una fat­to­ria, o una nave, onde poter vive­re sen­za lavo­ro. Que­ste gen­ti sareb­be­ro dispostissi­me a fare alla par­roc­chia pro­po­ste van­tag­gio­sis­si­me. Se qual­che pove­ro moris­se duran­te il con­trat­to, la col­pa ri­cadrebbe su di lui, aven­do la par­roc­chia adem­pi­to a tut­ti i suoi dove­ri ver­so que­sti pove­ri. Noi temia­mo tutta­via che la leg­ge del­la qua­le si trat­ta non per­met­ta simi­li misu­re di pru­den­za. Ma dove­te sape­re che il resto dei li­beri sublo­ca­ta­ri di que­sta con­tea e del­le con­tee vici­ne si uni­rà a voi, per impe­gna­re il loro rap­pre­sen­tan­te alla Ca­mera dei Comu­ni a pro­por­re una leg­ge, che per­met­ta di impri­gio­na­re i pove­ri e di obbli­gar­li al lavo­ro, affin­ché ogni indi­vi­duo, che si rifiu­ti all’im­pri­gio­na­men­to, per­da il suo dirit­to all’as­si­sten­za. Ciò, noi spe­ria­mo, impe­di­rà i mise­ra­bi­li di aver biso­gno di assistenza”.»

«Nel XVIII seco­lo, la leg­ge stes­sa diven­ne stru­men­to di spo­lia­zio­ne. La for­ma par­la­men­ta­re del fur­to com­messo sul­le ter­re comu­na­li è quel­la di ‘leg­ge sul­la chiu­sura del­le ter­re comu­na­li’. Sono, in real­tà, decre­ti con i qua­li i pro­prie­ta­ri di ter­re si fan­no essi stes­si rega­lo dei beni comu­na­li, decre­ti di espro­pria­zio­ne del popo­lo. Sir F. M. Eden cer­ca di pre­sen­ta­re la pro­prie­tà comu­na­le come una pro­prie­tà pri­va­ta, ben­ché anco­ra indi­vi­sa, ma si con­fu­ta da se stes­so, diman­dan­do al Par­la­men­to uno sta­tu­to gene­ra­le, che san­zio­ni una vol­ta per tut­te la chiu­sura dei beni comu­na­li. E non con­ten­to di ave­re così con­fes­sa­to la neces­si­tà di un col­po di Sta­to parlamenta­re per lega­liz­za­re il tra­sfe­ri­men­to dei beni comu­na­li ai pro­prie­ta­ri di ter­re, egli insi­ste sul­l’in­den­ni­tà dovu­ta ai pove­ri col­ti­va­to­ri. Se non v’e­ra­no espro­pria­ti, non vi era­no evi­den­te­men­te per­so­ne da indennizzare.»

“Nel Nor­thamp­ton­shi­re e nel Lin­coln­shi­re” dice Adding­ton” si è pro­ce­du­to in gran­de alla chiu­su­ra dei ter­reni comu­na­li, e la più par­te del­le nuo­ve signo­rie, usci­te da que­sta ope­ra­zio­ne, sono sta­te con­ver­ti­te in pasco­li, di gui­sa che dove si lavo­ra­va­no 1500 acri di ter­ra, non se ne lavo­ra­va­no più che 5,0… Rovi­ne di case, di fie­ni­li, di stal­le, ecce­te­ra: ecco le sole trac­ce lascia­te da­gli anti­chi abi­tan­ti. In tan­ti luo­ghi, cen­ti­na­ia di case e di fami­glie sono sta­te ridot­te a 8 o 10. Nel­la più par­te del­le par­roc­chie, dove le chiu­su­re non data­no che da 15 o 20 anni, non v’ha che un pic­co­lo nume­ro di proprie­tari, para­go­na­to a quel­lo che col­ti­va­va il suo­lo, quan­do i cam­pi era­no aper­ti. Non è raro il vede­re 4 o 5 ric­chi alle­va­to­ri di bestia­me usur­pa­re domi­ni testé chiu­si, che si tro­va­va­no pri­ma nel­le mani di 20 o 30 fat­to­ri e di un gran nume­ro di pic­co­li pro­prie­ta­ri e di con­ta­di­ni. Tut­ti que­sti ulti­mi e le loro fami­glie sono espul­si dal­le loro pos­ses­sio­ni con gran nume­ro d’al­tre fami­glie, che essi occu­pa­va­no o man­te­ne­va­no.” Non furo­no sola­men­te le ter­re incol­te, ma spes­so anche quel­le già col­ti­va­te, sia in comu­ne, sia pagan­do un cer­to tri­bu­to al Comu­ne, che i pro­prie­ta­ri limi­tro­fi si annes­se­ro, sot­to pre­te­sto di chiu­su­ra. Il dot­to­re Pri­ce dice: “Io par­lo qui del­la chiu­su­ra dei ter­re­ni dei cam­pi già col­ti­va­ti. Gli scrit­to­ri stes­si che sosten­go­no le chiu­su­re con­ven­go­no che, in que­sto caso, essi ridu­co­no la cul­tu­ra, fan­no alza­re il prez­zo del­le sostan­ze e reca­no lo spo­po­la­men­to… E, anche quan­do non si trat­ta che di ter­re incol­te, l’o­pe­ra­zio­ne tale qua­le oggi si pra­ti­ca toglie al pove­ro una par­te dei suoi mez­zi di sus­si­sten­za e atti­va lo svi­lup­po del­le fat­to­rie, che sono già trop­po gran­di. Quan­do il suo­lo cade nel­le mani di un pic­co­lo nume­ro di gran­di fat­to­ri, i pic­coli fat­to­ri (che egli ha in un altro luo­go desi­gna­ti co­me tan­ti ‘pic­co­li pro­prie­ta­ri e sublo­ca­ta­ri, viven­ti essi e le loro fami­glie con il pro­dot­to del­la ter­ra che essi col­tivano, del­le peco­re, del pol­la­me, dei maia­li, ecce­te­ra, che essi fan­no pasco­la­re sul­le ter­re comu­na­li’) saran­no tra­sfor­ma­ti in gen­te for­za­ta a gua­da­gna­re la pro­pria sus­sistenza lavo­ran­do per altri, e ad anda­re a com­pra­re al mer­ca­to ciò che loro è neces­sa­rio. Si farà più lavo­ro for­se, per­ché vi sarà più costrin­gi­men­to… Le cit­tà e le ma­nifatture si ingran­di­ran­no, per­ché c’è un mag­gior nu­mero di per­so­ne in cer­ca d’oc­cu­pa­zio­ne. E in que­sto sen­so che la con­cen­tra­zio­ne del­le fat­to­rie si effet­tua spon­ta­nea­men­te, e che essa è in vigo­re da mol­ti anni in que­sto Regno. Insom­ma, la situa­zio­ne del­le clas­si infe­riori del popo­lo è peg­gio­ra­ta sot­to tut­ti i rap­por­ti: i pic­coli pro­prie­ta­ri e fat­to­ri sono sta­ti ridot­ti allo sta­to di gior­na­lie­ri e di mer­ce­na­ri, e nel­lo stes­so tem­po è diven­tato più dif­fi­ci­le il cam­pa­re la vita”. Infat­ti, l’usurpazio­ne dei beni comu­na­li e la rivo­lu­zio­ne agri­co­la che la se­guì, si fece­ro tan­to dura­men­te sen­ti­re ai lavo­ra­to­ri del­le cam­pa­gne, che, secon­do lo stes­so Eden, dal 1765 al 1780, il loro sala­rio comin­ciò a cade­re al disot­to del mi­nimum, e dovet­te esser com­ple­ta­to per mez­zo dei soc­corsi uffi­cia­li. “Il loro sala­rio non basta più ai pri­mi bi­sogni del­la vita” egli dice.

Al XIX seco­lo, si è per­du­to per­fi­no il ricor­do del lega­me inti­mo, che uni­va il col­ti­va­to­re al suo­lo comu­na­le. Il popo­lo del­le cam­pa­gne, per esem­pio, ha mai otte­nu­to un quat­tri­no d’in­den­ni­tà per i 3.511.770 acri, che gli sono sta­ti strap­pa­ti, dal 1801 al 1831, e che i pro­prie­ta­ri si so­no rega­la­ti a vicen­da con le leg­gi di chiu­su­ra?» ( Marx, pagg. 319–321)

Gli ulti­mi espe­dien­ti di gran­de impor­tan­za sto­ri­ca, per espro­pria­re i lavo­ra­to­ri del­le cam­pa­gne, biso­gna pro­priamente guar­dar­li nel­l’al­ta Sco­zia, dove essi ebbe­ro la più fero­ce appli­ca­zio­ne. «Gior­gio Ensor, in un libro pub­blicato nel 1818, dice: “I Gran­di di Sco­zia han­no espro­priate fami­glie, come se si fos­se trat­ta­to di sar­chia­re cat­tive erbe; essi han­no trat­ta­ti i vil­lag­gi e i loro abi­tan­ti, come gli india­ni, ebbri di ven­det­ta, trat­ta­no le bestie fe­roci e le loro tane. Un uomo è ven­du­to per un vel­lo di peco­ra, per un cosciot­to di mon­to­ne e per meno anco­ra… Al tem­po del­l’in­va­sio­ne del­la Cina set­ten­trio­na­le, il Gran Con­si­glio dei Mon­go­li discus­se se biso­gna­va estir­pa­re dal pae­se tut­ti gli abi­tan­ti e con­ver­tir­lo in un vasto pasco­lo. Mol­ti pro­prie­ta­ri scoz­ze­si han­no mes­so que­sto dise­gno in ese­cu­zio­ne nel loro pro­prio pae­se, con­tro i loro pro­pri compatrioti”.»

«Ma a cia­scun signo­re biso­gna ren­de­re il dovu­to ono­re. L’i­ni­zia­ti­va più mon­go­li­ca fu pre­sa dal­la duches­sa di Suther­land. Que­sta don­na, for­ma­ta da una buo­na scuo­la, non appe­na ebbe pre­se le redi­ni dell’amministrazio­ne, ricor­se ai gran­di mez­zi, e con­ver­tì in pasco­lo tut­ta una con­tea, la cui popo­la­zio­ne, in gra­zia a espe­ri­men­ti ana­lo­ghi, ma fat­ti in pro­por­zio­ni più pic­co­le, si tro­va­va già ridot­ta alla cifra di 15.000. Dal 1814 al 1820 que­sti 15.000 indi­vi­dui, che for­ma­va­no cir­ca 3000 fami­glie, fu­rono siste­ma­ti­ca­men­te espul­si. I loro vil­lag­gi furo­no di­strutti e bru­cia­ti, i loro cam­pi con­ver­ti­ti in pasco­li. I sol­dati ingle­si, man­da­ti per pre­sta­re man for­te, ven­ne­ro al­le pre­se con gli indi­ge­ni. Una vec­chia, che rifiu­ta­va d’ab­ban­do­na­re la sua capan­na, perì nel­le fiam­me.» (Apri­te le orec­chie, bor­ghe­si, che decla­ma­te con­tro l’u­so rivo­lu­zio­na­rio del petro­lio! Il fuo­co è sta­to per mol­to tem­po impie­ga­to a dan­no del pro­le­ta­ria­to! E la vostra sto­ria che par­la.) «Egli è così che la nobi­le dama si ac­caparrò 794.000 acri di ter­ra, che appar­te­ne­va­no alla comu­ni­tà da tem­po immemorabile.»

«Una par­te degli spo­de­sta­ti fu asso­lu­ta­men­te cac­cia­ta; all’al­tra furo­no asse­gna­ti cir­ca 6000 acri sul­la riva del mare, ter­ra incol­ta, che non ave­va mai reso un quat­tri­no. La signo­ra duches­sa spin­se la sua gran­dez­za d’a­ni­mo sino a ceder­la in affit­to per 2,5 scel­li­ni l’a­cro ai mem­bri del­la comu­ni­tà, che da seco­li ave­va­no ver­sa­to il loro san­gue al ser­vi­zio dei Suther­land. Il ter­re­no, così con­qui­sta­to, essa lo divi­se in 29 gros­se fat­to­rie di peco­re, sta­bi­len­do sopra cia­scu­na una sola fami­glia, com­po­sta qua­si sem­pre di gar­zo­ni di fat­to­rie ingle­si. Nel 1825, i 15.000 pro­scrit­ti ave­va­no già cedu­to il posto a 131.000 peco­re. Quel­li get­ta­ti sul­la riva del mare si det­te­ro alla pesca e diven­ne­ro, secon­do l’e­spres­sio­ne di uno scrit­to­re ingle­si se, dei ‘veri anfi­bi’, che vive­va­no metà sul­la ter­ra e metà sul­l’ac­qua, ma con tut­to ciò non vive­va­no che a metà. L’o­do­re del loro pesce fu però sen­ti­to, e la riva non tar­dò a esse­re affit­ta­ta ai gros­si pesci­ven­do­li di Lon­dra, e i pove­ri lavo­ra­to­ri scoz­ze­si furo­no per una secon­da vol­ta scacciati.»

«Final­men­te, un ulti­mo cam­bia­men­to si com­pie. Una por­zio­ne del­le ter­re con­ver­ti­te in pasco­li è ricon­ver­ti­ta in riser­va di cac­cia. Il pro­fes­so­re Leo­ne Levi[3], in un di­scorso pro­nun­cia­to nel­l’a­pri­le 1866, innan­zi alla Socie­tà del­le Arti, dis­se: “Spo­po­la­re il pae­se e con­ver­ti­re i terre­ni ara­bi­li in pasco­li, era, in pri­mo luo­go, il mez­zo più co­modo di aver ren­di­te sen­za alcu­na spe­sa… Ben tosto la sosti­tu­zio­ne del­le fore­ste di dai­ni ai pasco­li diven­ne un avve­ni­men­to ordi­na­rio negli Highlands. Il dai­no scac­cia la peco­ra come la peco­ra ave­va scac­cia­to l’uo­mo… Gran­di distret­ti, che figu­ra­va­no nel­la sta­ti­sti­ca del­la Sco­zia come pra­te­rie di una fer­ti­li­tà ed esten­sio­ne ecce­zio­na­li, sono ora rigo­ro­sa­men­te pri­vi d’o­gni sor­ta di cul­tu­ra e di miglio­ra­men­to, e con­sa­cra­ti ai pia­ce­ri di un pugno di cac­cia­to­ri, che non ci van­no che qual­che mese dell’an­no”. Ver­so la fine del mag­gio 1866, un gior­na­le scoz­ze­se dice­va: “Una del­le miglio­ri fat­to­rie di peco­re del Suther­land­shi­re, per la qua­le allo spi­ra­re del fit­to cor­ren­te si of­friva una ren­di­ta di 100.000 L. st., sarà con­ver­ti­ta in fo­resta di dai­ni”.( Marx, pagg. 322–323.)

Altri gior­na­li, del­la stes­sa epo­ca, par­la­no anco­ra di que­sti istin­ti feu­da­li, che van­no sem­pre più svi­lup­pan­do­si in Inghil­ter­ra; ma poi alcu­no di essi con­clude, pro­van­do con le cifre, come un tale fat­to non ab­bia per nul­la dimi­nui­to la ric­chez­za nazionale.»

«La crea­zio­ne di un pro­le­ta­ria­to sen­za fuo­co e sen­za tet­to anda­va neces­sa­ria­men­te più sol­le­ci­ta che il suo as­sorbimento nel­le mani­fat­tu­re nascen­ti. D’al­tra par­te, que­sti uomi­ni, bru­sca­men­te strap­pa­ti alle loro condizio­ni di vita ordi­na­ria, non pote­va­no così pre­sto abi­tuar­si alla disci­pli­na del nuo­vo ordi­ne socia­le. Ne uscì quin­di una mas­sa di men­di­can­ti, di ladri, di vaga­bon­di. Ond’è che, ver­so la fine del XV seco­lo e duran­te tut­to il XVI, nel­l’o­ve­st di Euro­pa, una legi­sla­zio­ne san­gui­na­ria fu fat­ta con­tro il vaga­bon­dag­gio. I padri del­l’at­tua­le clas­se ope­ra­ia furo­no casti­ga­ti per esse­re sta­ti ridot­ti allo sta­to di vaga­bon­di e di pove­ri. La legi­sla­zio­ne li trat­tò come delin­quen­ti volon­ta­ri; essa sup­po­se che dipen­des­se dal loro libe­ro arbi­trio il con­ti­nua­re a lavo­ra­re come per il pas­sa­to, qua­si che non fos­se avve­nu­to alcun cambia­mento nel­la loro condizione.»

In Inghil­ter­ra, que­sta legi­sla­zio­ne comin­ciò sot­to il re­gno di Enri­co VII.

«Enri­co VIII, 1530. I men­di­can­ti, attem­pa­ti e incapa­ci di lavo­ro, otten­go­no licen­ze per diman­da­re la cari­tà. I vaga­bon­di robu­sti sono con­dan­na­ti a esse­re fru­sta­ti e impri­gio­na­ti. Lega­ti die­tro a una car­ret­ta, essi deb­bo­no subi­re la fusti­ga­zio­ne, fin­ché il san­gue non gron­di dal loro cor­po; poi essi devo­no impe­gnar­si con giu­ra­men­to di ritor­na­re, sia al luo­go del­la loro nasci­ta, sia al luo­go che essi han­no abi­ta­to negli ulti­mi tre anni, e a rimet­ter­si al lavo­ro. Cru­de­le iro­nia! Que­sto stes­so sta­tu­to fu anche tro­va­to trop­po dol­ce, nel ven­ti­set­te­si­mo anno del regno di Enri­co VIII. Il Par­la­men­to aggra­vò le pene con clau­sole addi­zio­na­li. In caso di pri­ma reci­di­va, il vaga­bon­do dev’es­se­re fru­sta­to di nuo­vo e ave­re la metà del­l’o­rec­chio moz­za­ta; alla secon­da reci­di­va egli dev’es­se­re trat­ta­to da ribel­le e ammaz­za­to come nemi­co del­lo Stato.»

«Nel­la sua Uto­pia, il can­cel­lie­re Tom­ma­so Moro di­pinge viva­men­te la situa­zio­ne dei disgra­zia­ti col­pi­ti da que­ste leg­gi. “Suc­ce­de” egli dice “che un ghiot­to­ne avi­do e insa­zia­bi­le, un vero fla­gel­lo del suo pae­se nata­le, si può impos­ses­sa­re di miglia­ia di iuge­ri di ter­ra, circon­dandoli di piuo­li o di sie­pi, ovve­ro tor­men­tan­do i loro pro­prie­ta­ri con tali ingiu­sti­zie da obbli­gar­li a ven­der tut­to. In un modo o nel­l’al­tro, per amo­re o per for­za, essi de­vono slog­gia­re tut­ti, pove­ra gen­te, cuo­ri sem­pli­ci, uomi­ni, don­ne, spo­si, orfa­nel­li, vedo­ve, madri con i loro pop­panti e con tut­to il loro ave­re, pove­ri di risor­se, ma ric­chi di nume­ro, per­ché l’a­gri­col­tu­ra ha biso­gno di mol­te brac­cia. Essi devo­no rivol­ge­re i loro pas­si lon­ta­ni dal lo­ro anti­co foco­la­re, sen­za tro­va­re un luo­go di ripo­so. In al­tre cir­co­stan­ze la ven­di­ta dei loro mobi­li e dei loro uten­sili dome­sti­ci avreb­be potu­to aiu­tar­li, per quan­to poco que­sti vales­se­ro; ma, get­ta­ti subi­ta­men­te nel vuo­to, essi sono for­za­ti a ceder­li per una baga­tel­la. E quan­do essi han­no erra­to qua e là e man­gia­to sin l’ul­ti­mo quat­tri­no, che pos­so­no fare altro che ruba­re? E allo­ra, mio Dio, o es­sere impic­ca­ti con tut­te le for­me lega­li, o anda­re mendi­cando! E in que­sto ulti­mo caso li get­ta­no in pri­gio­ne come vaga­bon­di, per­ché essi mena­no una vita erran­te e non lavo­ra­no, per­ché nes­su­no al mon­do vuol dar loro la­voro, per quan­to essi sia­no pre­mu­ro­si di offrir­si per ogni sor­ta di ser­vi­zio.” Di que­sti disgra­zia­ti fug­gi­ti­vi, dei qua­li Tom­ma­so Moro, loro con­tem­po­ra­neo, dice che li forza­vano a vaga­bon­da­re e a ruba­re “72.000 ne furo­no fat­ti mori­re sot­to il regno di Enri­co VIII”, secon­do che nar­ra Holing­shed nel­la sua Descri­zio­ne dell’Inghilterra.»

«Eduar­do VI. Uno sta­tu­to del pri­mo anno del suo re­gno, 1547, ordi­na che ogni indi­vi­duo refrat­ta­rio del la­voro sia dato per ischia­vo alla per­so­na che l’a­vrà denun­ziato come vaga­bon­do. (Così per ave­re a suo pro­fit­to il lavo­ro di un pove­ro dia­vo­lo, non si ave­va che a denun­ziarlo come refrat­ta­rio del lavo­ro.) Il padro­ne deve nu­trire que­sto schia­vo con pane e acqua, e dar­gli di tan­to in tan­to qual­che leg­ge­ra bevan­da e gli avan­zi di car­ne, che egli giu­di­che­rà con­ve­nien­te. Egli ha il dirit­to di co­stringerlo ai ser­vi­zi i più disgu­sto­si con il mez­zo del­la fru­sta e del­la cate­na. Se lo schia­vo si osti­na per una quin­dicina di gior­ni, è con­dan­na­to alla schia­vi­tù per­pe­tua e sarà mar­ca­to, a fer­ro roven­te, con la let­te­ra ‘S’ sul­la guan­cia e sul­la fron­te; se egli è fug­gi­to per la ter­za vol­ta, sarà ucci­so come ribel­le. Il padro­ne lo può ven­de­re, le­garlo per testa­men­to, fit­tar­lo ad altri a gui­sa di ogni al­tro mobi­le o bestia­me. Se gli schia­vi mac­chi­na­no qual­che cosa con­tro i padro­ni, devo­no esse­re puni­ti con la mor­te. I giu­di­ci di pace, rice­vu­to­ne avvi­so, sono obbli­gati a segui­re le trac­ce di que­sti cat­ti­vi arne­si. Quan­do è pre­so qual­cu­no di que­sti strac­cio­ni, lo si deve mar­ca­re, con fer­ro roven­te, con la let­te­ra ‘V sul pet­to, e ricon­durlo al luo­go del­la sua nasci­ta, dove, cari­co di fer­ri, egli dovrà lavo­ra­re sul­le pub­bli­che piaz­ze. Se il vaga­bon­do ha indi­ca­to un fal­so luo­go di nasci­ta, egli deve diven­ta­re, per puni­zio­ne, lo schia­vo a vita di que­sto luo­go, dei suoi abi­tan­ti e del­la sua cor­po­ra­zio­ne; lo si mar­che­rà di una ‘S’. Il pri­mo venu­to ha il dirit­to d’im­pos­ses­sar­si dei figli dei vaga­bon­di, e di rite­ner­li come fat­to­ri­ni, i ragaz­zi fino a 24 anni, le fan­ciul­le fino a 20. Se pren­do­no la fuga, es-si diven­ta­no, sino a que­sta età, gli schia­vi dei padro­ni, che han­no dirit­to di met­ter­li ai fer­ri, di far loro subi­re la fru­sta, ecce­te­ra, a volon­tà. Ogni padro­ne può met­te­re un anel­lo di fer­ro al col­lo, alle brac­cia o alle gam­be del suo schia­vo, onde meglio rico­no­scer­lo ed esse­re più sicu­ro di lui. L’ul­ti­ma par­te di que­sto sta­tu­to pre­ve­de il caso, nel qua­le cer­ti pove­ri sareb­be­ro occu­pa­ti dal­le per­so­ne o dal­le loca­li­tà, che voles­se­ro dar loro a man­gia­re e bere, e met­ter­li al lavo­ro. Que­sto gene­re di schia­vi del­la par­rocchia si è con­ser­va­to, in Inghil­ter­ra, sino alla metà del XIX seco­lo. Un cam­pio­ne dei capi­ta­li­sti osser­va: “Sot­to il regno di Eduar­do VI, gl’in­gle­si sem­bra aves­se­ro a cuo­re l’in­co­rag­gia­men­to del­le mani­fat­tu­re e l’oc­cu­pa­zio­ne dei pove­ri, come lo pro­va uno sta­tu­to rimar­che­vo­le, nel qua­le è det­to che tut­ti i vaga­bon­di devo­no esse­re mar­cati con il fer­ro rovente”. »

«Eli­sa­bet­ta, 1572. I men­di­can­ti, sen­za per­mes­so, e d’e­tà oltre i 40 anni, devo­no esse­re seve­ra­men­te fru­sta­ti e mar­ca­ti con il fer­ro roven­te all’o­rec­chia sini­stra, se nes­suno li vuo­le pren­de­re al ser­vi­zio duran­te due anni. In caso di reci­di­va, quel­li che han­no più di 18 anni devo­no es­sere ucci­si, se nes­su­no li vuo­le impie­ga­re duran­te due anni. Ma, pre­si una ter­za vol­ta, essi devo­no esse­re mes­si a mor­te sen­za mise­ri­cor­dia come ribel­li. Più tar­di i vaga­bon­di s’im­pic­ca­va­no in mas­sa, dispo­sti in lun­ghe file. Ogni an­no vi era­no 300 o 400 impic­ca­ti in un posto o nel­l’al­tro, dice Stry­pe nei suoi Anna­li; secon­do lui, il solo Somer­se­tshi­re con­tò, in un anno, 40 mor­ti, 35 mar­ca­ti con il fer­ro roven­te, e 37 fru­sta­ti. Intan­to, aggiun­ge que­sto fi­lantropo, “que­sto gran nume­ro d’ac­cu­sa­ti non compren­de che il quin­to dei delit­ti com­mes­si, gra­zie alla negli­genza dei giu­di­ci di pace e alla stu­pi­da com­pas­sio­ne del popo­lo…” Nel­le altre con­tee del­l’In­ghil­ter­ra, la situazio­ne non era miglio­re, e, in alcu­ne, anche peggiore.»

«Gia­co­mo I. Tut­ti gli indi­vi­dui che cor­ro­no il pae­se e van­no men­di­can­do sono dichia­ra­ti vaga­bon­di. I giu­di­ci di pace (tut­ti, benin­te­so, pro­prie­ta­ri di ter­re, manifattu­rieri, mini­stri del cul­to, ecce­te­ra, inve­sti­ti del­la giurisdi­zione cri­mi­na­le) nel­le loro ses­sio­ni ordi­na­rie sono auto­rizzati a far­li fru­sta­re pub­bli­ca­men­te e a inflig­ge­re loro 6 mesi di pri­gio­ne, alla pri­ma reci­di­va, e 2 anni alla se­conda. Duran­te tut­ta la pri­gio­nia, pos­so­no esse­re frusta­ti tan­to spes­so e tan­to for­te quan­to i giu­di­ci di pace sti­meranno a pro­po­si­to… Gli scor­raz­za­to­ti restii e perico­losi devo­no esse­re mar­ca­ti con una ‘R’ sul­la spal­la sini­stra, e, se sor­pre­si a men­di­ca­re, ucci­si sen­za mise­ri­cor­dia, e pri­va­ti del­l’as­si­sten­za del pre­te. Que­sti sta­tu­ti non fu­rono abo­li­ti che nel 1714.»(Marx, pagg. 325–326.)

Ed ecco in mez­zo a qua­li orro­ri, in mez­zo a quan­to san­gue si è com­piu­ta l’e­spro­pria­zio­ne del­le popo­la­zio­ni agri­cole, e la for­ma­zio­ne di quel­la clas­se ope­ra­ia, desti­na­ta a ser­vi­re di pasto alla gran­de indu­stria moder­na. Altro che idil­lio! È sta­to il fer­ro e il fuo­co la sola ori­gi­ne dell’accu­mulazione pri­mi­ti­va; è sta­to il fer­ro e il fuo­co che ha pre­parato al capi­ta­le l’am­bien­te neces­sa­rio per svi­lup­par­si, la mas­sa di for­ze uma­ne desti­na­te a nutrir­lo; e se oggi non è più il fer­ro e il fuo­co il mez­zo ordi­na­rio del­la sem­pre cre­scen­te accu­mu­la­zio­ne, è per­ché v’ha un altro mez­zo, in sua vece, mol­to più ine­so­ra­bi­le e ter­ri­bi­le, una del­le moder­ne glo­rio­se con­qui­ste del­la bor­ghe­sia, un mez­zo che for­ma par­te neces­sa­ria del con­ge­gno stes­so del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta, un mez­zo che agi­sce da sé solo, sen­za fare tan­to stre­pi­to, sen­za pro­dur­re scan­da­lo, un mez­zo infi­ne per­fet­ta­men­te civi­le: la fame. E per chi si ri­bella alla fame, sem­pre e poi sem­pre fer­ro e fuoco.

Le moder­ne pro­por­zio­ni di que­sto com­pen­dio non ci per­met­to­no di nar­ra­re ezian­dio i fasti del capi­ta­le nel­le colo­nie. Riman­dia­mo i nostri let­to­ri alle sto­rie del­le sco­perte, inco­min­cian­do da quel­la di Cri­sto­fo­ro Colom­bo, e di tut­te le colo­niz­za­zio­ni, limi­tan­do­ci sola­men­te a ci­tare a tale riguar­do le paro­le di «un uomo rino­ma­to solo per il suo fer­vo­re cri­stia­no, W. Howitt[4], che così si espri­me: “Le bar­ba­rie e le atro­ci­tà ese­cra­bi­li per­pe­tra­te dal­le raz­ze sedi­cen­ti cri­stia­ne, in tut­te le regio­ni del mon­do e con­tro tut­ti i popo­li che essi han­no potu­to sog­gio­ga­re, non tro­va­no nien­te di simi­le in nes­su­na altra epo­ca del­la sto­ria uni­ver­sa­le, pres­so nes­su­na raz­za per quan­to sel­vaggia, per quan­to roz­za, per quan­to spie­ta­ta, per quan­to sver­go­gna­ta ella si fos­se”.» (Marx, pag. 336)

«Se, come dice Augier, “il dena­ro è venu­to al mon­do con mac­chie natu­ra­li di san­gue sovra una del­le sue fac­cie”, il capi­ta­le vi è venu­to sudan­do il san­gue e il fan­go da tut­ti i suoi pori.» (Marx, pag. 340.)

E que­sta è pura sto­ria, o bor­ghe­si, una tri­sta sto­ria di san­gue, che meri­te­reb­be di esse­re ben let­ta e medi­ta­ta da voi, che sape­te nel­la vostra vir­tù con­ce­pi­re un san­to or­rore per la libi­di­ne di san­gue[5] dei rivo­lu­zio­na­ri moder­ni; da voi, che dichia­ra­te non poter per­met­te­re ai lavo­ratori che il solo uso dei mez­zi morali.

CONCLUSIONE

II male è radi­ca­le. È già da un pez­zo che lo san­no i lavo­ratori del mon­do civi­le; non tut­ti cer­ta­men­te, ma un gran nume­ro, e que­sti pre­pa­ra­no già i mez­zi atti a distruggerlo.

Essi han­no considerato:

I) che la sor­gen­te pri­ma di ogni oppres­sio­ne e sfrut­ta­men­to uma­no è la pro­prie­tà individuale;

II) che l’e­man­ci­pa­zio­ne dei lavo­ra­to­ri (emancipa­zione uma­na) non può esse­re fon­da­ta sopra una nuo­va domi­na­zio­ne di clas­se, ma sul­la fine di tut­ti i pri­vi­le­gi e mono­po­li di clas­se e sul­l’e­gua­glian­za dei dirit­ti e doveri;

III) che la cau­sa del lavo­ro, cau­sa del­l’u­ma­ni­tà, non ha frontiere;

IV) che l’e­man­ci­pa­zio­ne dei lavo­ra­to­ri deve es­sere l’o­pe­ra dei lavo­ra­to­ri stes­si. E allo­ra una voce pos­sente ha gri­da­to: Lavo­ra­to­ri del mon­do, unia­mo­ci. Non più dirit­ti sen­za dove­ri, non più dove­ri sen­za dirit­ti. Rivoluzione.

Ma la rivo­lu­zio­ne invo­ca­ta dai lavo­ra­to­ri non è la ri­voluzione di pre­te­sto, non è il mez­zo pra­ti­co di un mo­mento per rag­giun­ge­re un dato sco­po. Anche la borghe­sia, come tan­ti altri, invo­cò un gior­no la rivo­lu­zio­ne; ma sola­men­te per sop­pian­ta­re la nobil­tà, e sosti­tui­re al si­stema feu­da­le del ser­vag­gio quel­lo più raf­fi­na­to e crude­le del sala­ria­to. E que­sto lo chia­ma­no pro­gres­so e civil­tà! Tut­ti i gior­ni assi­stia­mo infat­ti al ridi­co­lo spet­ta­co­lo di bor­ghe­si, che van­no bal­bet­tan­do la paro­la rivo­lu­zio­ne, al solo sco­po di poter sali­re sul­l’al­be­ro del­la cuc­ca­gna, e agguan­ta­re il pote­re. La rivo­lu­zio­ne dei lavo­ra­to­ri è la ri­voluzione per la rivoluzione.

La paro­la ‘Rivo­lu­zio­ne’, pre­sa nel suo più lar­go e vero sen­so, signi­fi­ca giro, tra­sfor­ma­zio­ne, cam­bia­men­to. Co­me tale, la rivo­lu­zio­ne è l’a­ni­ma di tut­ta la mate­ria infi­nita. Infat­ti, tut­to si tra­sfor­ma in natu­ra, ma nien­te si crea e nien­te si distrug­ge, come la chi­mi­ca ci dimo­stra. La mate­ria, rima­nen­do sem­pre la stes­sa in quan­ti­tà, può cam­bia­re di for­ma in modo infi­ni­to. Quan­do la mate­ria per­de la sua anti­ca for­ma e ne acqui­sta una nuo­va, essa fa un pas­sag­gio dal­l’an­ti­ca vita, nel­la qua­le muo­re, alla nuo­va vita, nel­la qua­le nasce. Quan­do il nostro fila­to­re, per pren­de­re un esem­pio a noi fami­glia­re, ha trasforma­to i 10 chi­li di bam­ba­gia in 10 chi­li di filo, che altro è avve­nu­to se non la mor­te di 10 chi­li di mate­ria sot­to la for­ma di bam­ba­gia, e la loro nasci­ta sot­to la for­ma di fi­li? E quan­do il tes­si­to­re tra­sfor­me­rà i fili in tela, che al­tro avver­rà se non un pas­sag­gio del­la mate­ria dal­la vita di filo alla vita di tela, come già pri­ma era pas­sa­ta dal­la vita di bam­ba­gia alla vita di filo? La mate­ria, dun­que, pas­san­do da un giro di vita a un altro, vive sem­pre cam­biandosi, tra­sfor­man­do­si, rivoluzionandosi.

Ora, se la rivo­lu­zio­ne è la leg­ge del­la natu­ra, che è il tut­to, deve anche esse­re neces­sa­ria­men­te la leg­ge del­l’u­ma­ni­tà, che è la par­te. Ma v’ha sul­la Ter­ra un pu­gno d’uo­mi­ni che non la pen­sa così, o, piut­to­sto, che chiu­de gli occhi per non vede­re e le orec­chie per non sentire.

Sì, è vero, sen­to gri­dar­mi da un bor­ghe­se, la leg­ge na­turale, la rivo­lu­zio­ne che voi recla­ma­te, è l’as­so­lu­ta re­golatrice del­le rela­zio­ni uma­ne. La col­pa di tut­te le op­pressioni, di tut­ti gli sfrut­ta­men­ti, di tut­te le lagri­me e degli ecci­di che ne deri­va­no, deve­si appun­to attri­bui­re a que­sta ine­so­ra­bi­le leg­ge che c’im­po­ne la rivo­lu­zio­ne, cioè, la tra­sfor­ma­zio­ne con­ti­nua, la lot­ta per l’e­si­sten­za, l’as­sor­bi­men­to dei più debo­li fat­ti più for­ti, il sacri­fi­cio dei tipi meno per­fet­ti allo svi­lup­po dei tipi più per­fet­ti. Se cen­ti­na­ia di lavo­ra­to­ri sono immo­la­ti al benes­se­re di un solo bor­ghe­se, ciò avvie­ne sen­za la meno­ma col­pa di que­sto, che ne è anzi afflit­to e deso­la­to, ma per solo de­creto del­la leg­ge natu­ra­le, del­la rivoluzione.

Se si par­la in tal gui­sa, nien­te di meglio doman­da­no i lavo­ra­to­ri, i qua­li, in for­za del­la stes­sa leg­ge natu­ra­le, che vuo­le la tra­sfor­ma­zio­ne, la lot­ta per l’e­si­sten­za, la rivo­luzione, si pre­pa­ra­no appun­to a esse­re i più for­ti, per sa­crificare tut­te le pian­te mostruo­se e paras­si­te al comple­to e rigo­glio­so svi­lup­po del­la bel­lis­si­ma pian­ta uomo, com­ple­to e per­fet­to, qua­le dev’es­se­re, in tut­ta la pienez­za del suo carat­te­re umano.

Ma i bor­ghe­si sono trop­po timo­ra­ti e pii per poter fare appel­lo alla leg­ge natu­ra­le del­la rivo­lu­zio­ne. Essi l’han­no potu­ta invo­ca­re in un momen­to d’eb­brez­za; ma, ri­tornati poscia in loro stes­si, fat­ti i con­ti, e tro­va­to che i fat­ti loro era­no bel­li e acco­mo­da­ti, si sono dati a gri­da­re a più non pos­so: ‘Ordi­ne, reli­gio­ne, fami­glia, pro­prie­tà, con­ser­va­zio­ne!’ È così che, dopo esse­re giun­ti, con la stra­ge, l’in­cen­dio e la rapi­na, a con­qui­sta­re il posto di do­minatori e sfrut­ta­to­ri del gene­re uma­no, cre­do­no poter fer­ma­re il cor­so del­la rivo­lu­zio­ne; sen­za accor­ger­si, nel­la loro stol­tez­za, che altro non fan­no, con i loro sfor­zi, che pre­pa­ra­re orri­bi­li guai all’u­ma­ni­tà, e a loro stes­si per con­se­guen­za, con gli scop­pi improv­vi­si del­la for­za rivo­luzionaria paz­za­men­te da essi repressa.

La rivo­lu­zio­ne, abbat­tu­ti gli osta­co­li mate­ria­li che le si oppon­go­no, e lascia­ta libe­ra al suo cor­so, baste­rà da sé sola a crea­re fra gli uomi­ni il più per­fet­to equi­li­brio, l’or­dine, la pace e la feli­ci­tà più com­ple­ta, per­ché gli uomi­ni, nel loro libe­ro svi­lup­po, non pro­ce­de­ran­no a gui­sa degli ani­ma­li bru­ti ma a gui­sa di esse­ri uma­ni, eminen­temente ragio­ne­vo­li e civi­li, i qua­li com­pren­do­no che nes­sun uomo può esse­re vera­men­te libe­ro e feli­ce se non nel­la liber­tà e feli­ci­tà comu­ne di tut­ta l’u­ma­ni­tà. Non più dirit­ti sen­za dove­ri, non più dove­ri sen­za dirit­ti. Non più dun­que lot­ta per l’e­si­sten­za fra uomo e uomo, ma lot­ta per l’e­si­sten­za di tut­ti gli uomi­ni con la natu­ra, per ap­propriarsi del­la più gran som­ma di for­ze natu­ra­li per il van­tag­gio di tut­ta l’umanità.

Cono­sciu­to il male, è faci­le cono­scer­ne il rime­dio: la rivo­lu­zio­ne per la rivoluzione.

Ma come faran­no i lavo­ra­to­ri per rista­bi­li­re il cor­so del­la rivoluzione?

Non è que­sto il luo­go di un pro­gram­ma rivo­lu­zio­na­rio, già da lun­ga mano ela­bo­ra­to e pub­bli­ca­to altro­ve in al­tri libri; noi ci limi­te­re­mo a con­clu­de­re, rispon­den­do con le paro­le rac­col­te sul lab­bro di un lavo­ra­to­re e poste in epi­gra­fe a que­sto volu­me: L’o­pe­ra­io ha fat­to tut­to; e l’o­pe­ra­io può distrug­ge­re tut­to, per­ché può tut­to rifare.

APPENDICE:

CORRISPONDENZA CAFIERO — MARX

Cafie­ro a Marx

Les Moliè­res, 27 luglio 1979

Sti­ma­tis­si­mo Signore,

Le spe­di­sco con il mede­si­mo cor­rie­re due copie del­la sua ope­ra II Capi­ta­le, da me bre­ve­men­te com­pen­dia­ta, Avrei volu­to rimet­ter­glie­le pri­ma, ma ora sola­men­te mi è riu­sci­to di otte­ne­re alcu­ne copie dal­la bene­vo­len­za di un ami­co, che con il suo inter­ven­to è riu­sci­to a deter­mi­na­re la pub­bli­ca­zio­ne del libro.

Anzi, se la pub­bli­ca­zio­ne l’a­ves­si potu­ta fare a mie spe­se, avrei desi­de­ra­to sot­to­met­te­re pri­ma il mano­scrit­to al suo esa­me. Ma nel timo­re di veder­mi sfug­gi­re una occa­sio­ne favo­re­vo­le, mi affret­tai a con­sen­ti­re alla pub­bli­ca­zio­ne pro­po­sta­mi. Ed è sola­men­te ora che mi è dato rivol­ger­mi a lei per pre­gar­la di voler­mi dire se nel mio stu­dio mi è riu­sci­to di com­pren­de­re ed espri­me­re l’e­sat­to con­cet­to dell’autore.

La pre­go, signo­re, di voler gra­di­re le espres­sio­ne del mio più vivo rispet­to e di credermi

suo dev.mo

Car­lo Cafiero

Marx a Cafiero

Caro Cit­ta­di­no

Rin­gra­zia­men­ti sin­ce­ris­si­mi per i due esem­pla­ri del vostro lavo­ro! Tem­po fa rice­vet­ti due lavo­ri simi­li, l’u­no scrit­to in ser­bo, l’al­tro in ingle­se (pub­bli­ca­to negli Sta­ti Uni­ti), ma pec­ca­no l’u­no e l’al­tro, volen­do dare un rias­sunto suc­cin­to e popo­la­re del Capi­ta­le e attac­can­do­si, nel con­tem­po, trop­po pedan­te­men­te alla for­ma scien­ti­fi­ca del­la trat­ta­zio­ne. In tal modo, essi mi sem­bra­no manca­re più o meno al loro sco­po prin­ci­pa­le: quel­lo di impres­sio­na­re il pub­bli­co al qua­le i rias­sun­ti sono destinati.

Ed è qui la gran­de supe­rio­ri­tà del vostro lavoro.

Quan­to poi al con­cet­to del­le cose, io cre­do di non ingan­nar­mi attri­buen­do alle con­si­de­ra­zio­ni espo­ste nel­la vostra pre­fa­zio­ne una lacu­na, e cioè la pro­va che le con­di­zio­ni mate­ria­li neces­sa­rie alla emancipa­zione del pro­le­ta­ria­to sono spon­ta­nea­men­te gene­ra­te dal­lo svi­lup­po del­lo sfrut­ta­men­to capi­ta­li­sta. Del resto, io sono del vostro avvi­so (se ho bene inter­pre­ta­to la vo­stra pre­fa­zio­ne) che non biso­gna sovrac­ca­ri­ca­re lo spi­ri­to di colo­ro che si vuo­le edu­ca­re. Nien­te vi impe­di­rà di ritor­na­re, a tem­po oppor­tu­no, alla cari­ca per fare risal­ta­re ancor meglio code­sta base mate­ria­li­sta del Capitale.

Rin­no­van­do i miei rin­gra­zia­men­ti, sono

vostro dev.mo

Car­lo Marx


Note

[1] L. A. Thiers (1797–1877), uomo poli­ti­co francese.
[2] W. Har­ri­son (1534–93), sto­ri­co britannico.
[3] L. Levi (1821–1888): eco­no­mi­sta italiano.
[4] W. Howitt (1792–1879): scrit­to­re inglese.
[5] Atto d’ac­cu­sa con­tro gli Inter­na­zio­na­li­sti del­la Ban­da insur­re­zio­na­le di San Lupo, Leti­no e Gal­lo, nel­l’a­pri­le 1877- (N.d.A.).