Come avevamo annunciato, pubblichiamo oggi un articolo di approfondimento su Cuba e la sua rivoluzione a partire dalla morte del suo storico dirigente, Fidel Castro.
Si tratta di una pacata riflessione del compagno Waldo Mermelstein, che si sviluppa cercando il punto d’equilibrio tra il doveroso omaggio alla Revolución e l’analisi della realtà di Cuba, sfociata nella completa restaurazione del capitalismo sulla Isla.
Il riconoscimento dei meriti di Castro e delle conquiste della rivoluzione del ’59 non deve, infatti, far dimenticare a cosa ha portato la mancanza di democrazia operaia e popolare, la repressione di ogni critica e dissenso, la strategia della direzione castrista – in accordo con la linea di Mosca – della coesistenza pacifica col capitalismo (che trova il suo emblema nella raccomandazione di Fidel ai guerriglieri sandinisti negli anni 80: «Non fate del Nicaragua un’altra Cuba»).
In quest’ottica, raccomandiamo la lettura del testo che segue, ragguardevole per le modalità con cui intende aprire il dibattito su un tema che riguarda l’intera sinistra rivoluzionaria mondiale.
Alcune riflessioni sulla rivoluzione cubana
Waldo Mermelstein (San Paolo del Brasile)
29 novembre 2016
(Pubblicato nel sito EsquerdaOnLine)
È morto Fidel, il leader della prima rivoluzione che ha superato i limiti del capitalismo nelle Americhe. Dirigente di un’organizzazione nazionalista che decise di essere fedele ai punti centrali del suo programma – come la riforma agraria – non arretrò davanti alla brutale reazione dell’impero americano, abituato alla docilità dei leader latinoamericani. Al momento opportuno, ebbe il coraggio di espropriare la borghesia cubana e imperialista, giungendo a uno stadio che nessun altro Paese con qualsiasi direzione ha mai raggiunto. L’impatto di quest’esempio è stato immenso in tutto il continente americano. Personalmente, mi spinse a militare per un certo tempo in un’organizzazione castrista cilena, il MIR, durante il governo di Allende. Con la corrente castrista la mia completa la rottura si produsse poi con caduta del governo di Unità Popolare.
In quest’ora manifesto il riconoscimento per questo ruolo precursore e anche le differenze politiche con Fidel e la sua corrente.
A livello personale e della mia generazione, è necessario contestualizzare ciò che ha significato l’impatto della prima rivoluzione che espropriò il capitale nelle Americhe. L’entusiasmo rivoluzionario che sprigionò è un piccolo esempio di ciò che può fare la rivoluzione in un grande Paese. Non mettere ciò sullo stesso piano della mancanza di democrazia per il popolo e i lavoratori e la conciliazione che Fidel favorì con le borghesie del continente è tutto un difficile equilibrio.
In Fidel rendo omaggio al dirigente che ha osato rompere il giogo imperialista e del capitale, ma ripudio il repressivo governante che ha adottato la linea della conciliazione con le borghesie del continente, consolidatasi nel corso di decenni.
Naturalmente, esprimo solidarietà con i sentimenti del popolo cubano.
I limiti e le contraddizioni del regime introdotto da Fidel
Purtroppo, il regime guidato da Fidel non ha cercato di insediare o incoraggiare organismi democratici dei lavoratori e delle masse popolari che lo appoggiavano affinché decidessero il destino del Paese: ciò sarebbe stato decisivo per dare un carattere veramente socialista al regime. Invece, rapidamente si insediò una burocrazia statale e quella del ricostituito Partito comunista cubano (il vecchio PC aveva sostenuto la dittatura di Batista), che seguì le politiche in atto in Unione Sovietica e nei regimi dell’Europa orientale.
In politica estera, decisiva per una piccola nazione, circondata da regimi ostili, si differenziò dal modello dei partiti comunisti nel periodo in cui sostenne l’OLAS (Organizzazione latinoamericana di solidarietà), anche con la tattica errata della guerriglia nelle campagne. Alla fine degli anni 60, ritornò tuttavia nei limiti del più classico stalinismo: la collaborazione con le borghesie suppostamente progressiste.
Ciò è stato evidente nel sostegno dato al regime peruviano del generale Velazco Alvarado e al governo di Unità Popolare in Cile, del quale, anche nel corso della sua visita di un mese in Cile nel 1971, Castro non mise in discussione la strategia di transizione parlamentare al socialismo, nonostante alcuni sintomi della comparsa delle prime manifestazioni e organizzazioni di estrema destra. In Africa, in accordo con la burocrazia di Mosca, vennero inviate truppe cubane per aiutare il regime dell’Angola a sconfiggere i razzisti sudafricani. Allo stesso tempo, Fidel diede pieno appoggio al regime nazionalista borghese del MPLA che represse nel sangue la cosiddetta Rivolta Attiva di Nito Alves, un’ala dissidente del partito di governo (e non intendo gli alleati del Sud Africa, come l’UNITA e il FNLA).
Nel corso degli anni 70, Fidel approfondì ancor di più la sua posizione sbagliata, arrivando a fare pressioni direttamente sui dirigenti del Fronte sandinista di liberazione nazionale del Nicaragua perché non seguissero l’esempio di Cuba dopo la sconfitta della dittatura di Somoza nel 1979, contribuendo a scavare la fossa alla rivoluzione democratica nicaraguense.
A partire dagli anni 90, iniziò a promuovere la restaurazione della proprietà privata nel Paese, sottoponendo il popolo a un regime di austerità duro e iniziando a distruggere le innegabili conquiste della rivoluzione. Il coronamento di quest’opera può essere sintetizzato nella normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti, benché al momento Fidel non fosse più alla testa del governo del Paese.
I vari aspetti della traiettoria di Fidel
La tendenza alla polemica spoliticizzata sul suo legato investe anche la sinistra. Al di là di piacevoli e onorevoli eccezioni, gli articoli che si possono leggere si dividono, più o meno, tra il ripudio assoluto e l’adorazione senza limiti.
Il problema è che Fidel e la rivoluzione cubana hanno diverse sfaccettature. Coloro che hanno vissuto negli anni 60 sanno quanto l’eroica impresa del popolo cubano, a sole 90 miglia dagli Stati Uniti, abbia risvegliato l’entusiasmo di milioni di persone. L’aver rovesciato una dittatura sanguinaria e il non essersi piegati all’imperialismo è qualcosa che non può non appartenere all’eredità di Fidel, nonostante tutto l’arretramento del successivo periodo. Non è ragionevole che i più giovani si affrettino a condannare tutta la sua traiettoria a causa della sua successiva politica, a partire, in particolare, dal 1968, quando si allineò alle direttive di Mosca (degno di rilievo, anche da un punto di vista simbolico, fu il suo sostegno all’invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici il 1° settembre di quell’anno), ma dimentichino il suo ruolo nella rivoluzione cubana. È quel primo Fidel che merita di essere rivendicato, pur con tutte le differenze rispetto ai suoi metodi di organizzazione dello Stato e di impulso alle lotte nel continente. Molti lo rivendicano oggi perché si identificano con questa prima fase e ignorano ciò che accadde dopo, oppure lo considerano secondario.
Intanto, il tempo avrebbe dimostrato i suoi enormi limiti, tra i quali i più importanti: la mancanza di ogni forma di autorganizzazione dei lavoratori e la repressione di ogni dissenso espresso dall’interno degli stessi settori popolari che a lui facevano riferimento e non solo di quelli che sostenevano l’embargo e il boicottaggio americano. Ma anche la formazione di una burocrazia di governo, con i suoi non indifferenti privilegi materiali, a dispetto della povertà del paese.
Prestare attenzione o mettere in risalto uno solo di questi aspetti è inevitabilmente espressione di unilateralismo. Non si può dimenticare, e rivendicare solo il carattere profondamente rivoluzionario dell’azione di Castro nella rivoluzione cubana, dell’espropriazione del latifondo e delle grandi imprese capitaliste, dello scontro coraggioso con l’aggressione imperialista. Non è corretto, non è giusto e non rivendica un aspetto che molti di coloro che ne piangono la scomparsa rivendicano. Non dialoga con chi riconosce l’aspetto straordinariamente positivo di questo legato, un esempio di ciò che una rivoluzione può realizzare.
Altri commettono l’errore simmetrico: non si rendono conto che Fidel e il Partito comunista di Cuba avevano da tempo intrapreso la stessa strada degli stalinisti di tutti gli antichi Stati non capitalisti. Che il regime aveva accentuato sempre più il proprio carattere autoritario, duramente reprimendo da un lato chi esprimeva critiche, chi era in disaccordo con la linea e con i costumi (il tragico caso di trattamento degli omosessuali non può essere ignorato), e dall’altro facendo concessioni via via più ampie ai capitalisti, dilapidando le innegabili conquiste della rivoluzione cubana. Che Fidel ha portato al processo di restaurazione capitalista sull’isola. Questo Fidel non dovrebbe essere rivendicato dalla sinistra.
L’embargo americano e come affrontarlo
La questione relativa a Fidel e Cuba ha molti aspetti. Un amico mi ha posto una domanda impegnativa: «Come avrebbe altrimenti potuto resistere Cuba all’embargo degli Stati Uniti?». La domanda è molto pertinente, per cui mi soffermerò specificamente sul tema.
In primo luogo, ogni critica deve essere avanzata tenendo conto della situazione oggettiva concreta. Un piccolo Paese, circondato, con risorse limitate e colpevole per giunta di aver osato scontrarsi col potente Impero, soffriva limiti materiali concreti. Ad esempio, non è ragionevole criticare Cuba per non aver cercato di riprendere Guantanamo, enclave americana sull’isola. Ciò non era realizzabile per una ragione molto evidente: la superiorità militare americana.
Ma vediamo:
1) Perché la resistenza all’assedio da parte dell’impero non si è fondata sulla più ampia democrazia per il popolo? Perché non sono mai state permesse correnti politiche diverse dal PC cubano, o anche al suo stesso interno, anche se non erano associate ai settori reazionari in esilio a Miami? Perché non c’era libertà di espressione? Tanto per chiarire, visto che il mio l’amico è un attivista sindacale: un sindacato che si scontra col padronato o con un governo estremamente repressiva ha bisogno di contare più che mai sull’autorganizzazione democratica della sua base, di avere una stampa aperta alla partecipazione, dirigenti senza privilegi, metodi trasparenti e democratici di dibattito e decisione.
2) Vi è una ragione ancora più importante: un piccolo Paese può scontrarsi con i potenti solo guadagnando la simpatia attiva dei lavoratori, dei giovani, del popolo sfruttato in tutto il mondo, in particolare nei Paesi metropolitani. Trasformare Cuba in un esempio di decisioni democratiche sarebbe stata una condizione assolutamente necessaria per questo, dal momento che in questi Paesi ci sono rilevanti margini di libertà. La mancanza di democrazia così evidente a Cuba ha solo agevolato ai più grandi nemici esterni il compito di ostacolare o impedire la solidarietà che avrebbe potuto fare la differenza.
3) Il tema dei privilegi burocratici non è secondario, sia internamente che esternamente. Oltre ad essere sbagliato dal punto di vista della costruzione di una società che vuole raggiungere il socialismo, dal punto di vista pratico che sto trattando è insostenibile. Qual è la ragione per la loro esistenza dal punto di vista della resistenza? Quei privilegi hanno aiutato oppure ostacolato l’unità per affrontare l’impero? I negozi in cui si compravano prodotti in dollari inaccessibili ai cubani, ma accessibili ad alti dignitari dello Stato e del PC, sono stati un fattore disincentivante per l’unità popolare allo scopo di resistere all’Impero e hanno prestato il fianco a una facile critica da parte delle stesse forze imperialiste che attaccavano il regime. I criteri egualitari che il regime sovietico aveva ai tempi di Lenin sarebbero stati molto più utili per resistere e dare un esempio al mondo.
4) Ogni Paese ha diritto di avere le sue relazioni economiche, le sue iniziative diplomatiche, ma queste non possono sovrapporsi alla ricerca della solidarietà con i suoi soli alleati affidabili: i lavoratori e i giovani. In America Latina, il cammino migliore era davvero – come è stato fatto — quello di sostenere tutti i tipi di movimenti, partiti e governi nazionalisti borghesi? La subordinazione a Mosca ha portato a tacere sulla scandalosa collaborazione tra il Cremlino e la dittatura di Videla a partire dal 1976, dato che l’Argentina aveva rotto l’embargo all’URSS, a cui vendeva grano. Gli interessi ristretti stavano al di sopra della solidarietà elementare con gli stessi militanti del PC argentino massacrati dalla dittatura. L’internazionalismo dei primi anni, quello di Che Guevara, era ormai lontano.
5) Infine, un avvertimento: il dibattito sta scendendo a livelli davvero bassi e coloro che sostengono intensamente Fidel in tutti i suoi aspetti arrivano ad adottare una forma di discussione che richiama i tempi dello stalinismo più puro, cercando di squalificare chi, da sinistra, non accetta la glorificazione acritica di Fidel. La forza degli argomenti si impone da sé sola, senza bisogno di screditare gli avversari. Gli unici che si squalificano sono proprio quelli che si comportano in questa maniera. E il dibattito sul legato di Fidel e del regime cubano è troppo importante per essere trattato in questo modo.
Queste sono alcune sintetiche riflessioni sulla rivoluzione cubana, scritte ancora sotto l’impatto dell’emozione causata dalla morte di Fidel Castro. Per decenni, questo dibattito è sempre stato più o meno presente nella sinistra latinoamericana. Nell’ultimo periodo, l’evidente decadenza del regime e gli accordi con gli Stati Uniti hanno diminuito l’interesse sull’argomento. Ma forse la morte di Fidel rimetterà in primo piano le discussioni fondamentali che i cubani hanno dovuto affrontare e che, con tutte le differenze nazionali e di periodo storico, sono ancora indispensabili per chi pensa a una soluzione socialista, egualitaria e democratica per la crisi della società latinoamericane.