15 novembre: una Tiananmen in salsa cubana?
Trotsky e l’insipienza politica della “sinistra non ufficiale” di Cuba
Valerio Torre
Lo scorso 11 luglio, a Cuba si sono svolte manifestazioni di protesta contro il regime come non se n’erano mai viste dal “Maleconazo” del 1994[1]. Ne abbiamo lungamente parlato in un precedente articolo[2], in cui abbiamo esaminato le cause e ipotizzato gli sviluppi delle dimostrazioni di questo 2021, traendo anche delle importanti conclusioni politiche.
La violenta repressione, che si è da subito sviluppata con diverse centinaia di arresti e decine di pesanti condanne a seguito di processi‑simulacro senza le minime garanzie giuridiche e spesso celebrati addirittura in assenza di un difensore, non ha dissipato il malcontento che serpeggia nel Paese. Anzi, possiamo con certezza dire che l’11 luglio 2021 ha rappresentato uno spartiacque.
Le proteste realizzate in quella giornata sembrano aver aperto una piccola breccia nella monolitica costruzione che il burocratico regime castrista, col seguito dei suoi reggicoda internazionali, spaccia per “socialismo”, mentre altro non è che una dittatura capitalista retta da una cricca usurpatrice che continua fraudolentemente a definirsi “comunista”. Su questo, infatti, cioè sulla compiuta e consolidata restaurazione del capitalismo a Cuba, ci siamo approfonditamente pronunciati in un altro testo[3], al quale perciò rinviamo.
Archipiélago e la repressione “preventiva” del regime
Ma gli eventi dell’11 luglio scorso hanno dischiuso una nuova prospettiva. Si può, appunto, dire rispetto a questa data che c’è “un prima” e “un dopo”. E “dopo” l’11 luglio si è spontaneamente formata, a partire da un gruppo di giovani artisti, musicisti, giornalisti, intellettuali e attivisti LGBTIQ+, una piattaforma civica che ha preso il nome di “Archipiélago” (Arcipelago), il cui principale esponente è il noto drammaturgo Yunior García Aguilera. Il 21 settembre scorso, alcuni partecipanti a questo progetto (che sui social media conta ormai più di 33.000 seguaci) hanno presentato alle autorità cubane, sulla base dell’art. 56 della Costituzione[4], una richiesta di autorizzazione a realizzare per il prossimo 15 novembre una marcia pacifica «contro la violenza, per esigere il rispetto di tutti i diritti di tutti i cubani, per la liberazione dei prigionieri politici e per la soluzione delle nostre differenze attraverso la via democratica e pacifica». Nell’istanza, gli organizzatori chiedevano di essere tutelati dallo Stato nella realizzazione della marcia.
La richiesta è stata respinta dalle autorità e una nota informativa della Procura Generale della Repubblica ha poi avvertito che chiunque contravverrà al divieto di partecipare all’iniziativa incorrerà nei rigori della legge. Gli organizzatori, però, hanno confermato la data della manifestazione.
Il regime ha già messo mano alle contromisure, iniziando con attacchi mediatici virulenti in cui – come da solito copione – un generale di Divisione, Fabián Escalante, ex capo dei servizi di intelligence del Paese, ha bollato i manifestanti come controrivoluzionari al soldo degli Usa, come sovversivi che vogliono rovesciare il governo grazie a un piano orchestrato dalla CIA[5]. Altri fiancheggiatori del governo, sottolineando la coincidenza della marcia con la ripresa dei voli turistici, hanno accusato i manifestanti di essere contro la riapertura del turismo a Cuba[6]. Altri ancora si sono scatenati nella demonizzazione e nel dileggio di Yunior García Aguilera, rinfacciandogli che è debitore nei confronti della Revolución per aver avuto l’opportunità di fare carriera come drammaturgo[7]. In un altro articolo García Aguilera è stato senza mezzi termini definito un “Giuda Iscariota”, mentre il suo volto appare sovrapposto a quello della Statua della Libertà in un malriuscito fotomontaggio[8].
Ma non è solo con la potenza di fuoco dei mezzi di comunicazione che il regime intende far fronte a questa “minaccia”. Il governo della provincia de L’Avana, nell’evidente intento di “blindare” la capitale, ha annunciato la messa in campo – per tutta la settimana in cui cade il giorno della marcia degli oppositori – di un programma di attività culturali per celebrare il 502° anniversario della fondazione della città così intenso da far dire al governatore Reynaldo García Zapata: «Non deve svolgersi nessun’altra cosa che non sia ciò che abbiamo programmato».
Si profila, dunque, una situazione dalle molte incognite che danno appunto il titolo a questo testo. Gli organizzatori della marcia temono – e lo stanno denunciando con tutti i mezzi a loro disposizione – che agenti infiltrati del regime compiano atti violenti per poi attribuirli ai manifestanti.
Davvero quindi il regime cubano è disposto a reprimere con inaudita brutalità una manifestazione che ora, rispetto a quella dell’11 luglio, è sotto gli occhi del mondo, dato che è stata organizzata da tempo? Davvero è disposto a mettere in campo una repressione in stile cinese? Non possiamo far altro che attendere gli sviluppi.
Il Consiglio per una Transizione Democratica a Cuba
Tuttavia, accade che un organismo borghese di recente formazione – il Consiglio per una Transizione Democratica a Cuba (CTDC) – chiaramente espressione dei gusanos di stanza in Florida e palesemente longa manus del governo degli Stati Uniti, abbia colto al volo l’occasione fornita dalla marcia in programma il 15 novembre per proclamare la propria adesione e dare il proprio sostegno sulla base di un programma chiaramente reazionario che ha al suo centro un ampliamento dell’economia di mercato nel segno di una totale deregolamentazione e, soprattutto, un «piano speciale di compensazione per le espropriazioni del periodo rivoluzionario sotto assistenza e collaborazione internazionale»[9]. Si tratta, a quest’ultimo riguardo, della rivendicazione storica dei cubani esiliati a Miami che avevano perso le loro proprietà dopo la rivoluzione del 1959. È evidente, dunque, la contrapposizione fra le parole d’ordine progressive che rivendicano diritti e libertà e quelle che compongono il programma reazionario partorito dalla becera borghesia cubano‑americana.
Come abbiamo sostenuto negli articoli richiamati all’inizio di questo testo (v. note 2 e 3), a Cuba la restaurazione del capitalismo è già da tempo compiutamente avvenuta e la casta burocratica che si nasconde dietro l’insegna del Partito comunista, impossessatasi ormai dei mezzi di produzione, si è trasformata in classe possidente, si è convertita in nuova borghesia. Trotsky aveva ipotizzato per l’Unione Sovietica, «la possibilità, soprattutto nel caso di una decadenza mondiale prolungata, della restaurazione di una nuova classe proprietaria originata dalla burocrazia. L’attuale posizione della burocrazia, che “in qualche modo” ha nelle sue mani, attraverso lo Stato, le forze produttive, costituisce un punto di partenza estremamente importante per un processo di trasformazione»[10]. Questa “trasformazione” è avvenuta, con dinamiche differenti, sia in Urss che in Cina, e così pure a Cuba. E oggi lo scontro è fra la neo‑borghesia originata dalla burocrazia castrista e quella antica dei gusanos della Florida. La posta in gioco di questo scontro inter‑borghese è la proprietà dei mezzi di produzione: in definitiva, la gestione, a esclusivo vantaggio dell’una o dell’altra frazione borghese, dell’economia della nazione.
Cosa pensa Comunistas della marcia del 15 novembre?
Vien da chiedersi a questo punto: ma allora che c’entrano le rivendicazioni che Archipiélago intende agitare nella marcia del 15 novembre con il programma reazionario con cui il CTDC ha dichiarato il proprio sostegno alla manifestazione con l’evidente proposito di egemonizzarla e conquistarne la direzione?
Niente. Assolutamente niente. Tuttavia, questa coincidenza è stata più che sufficiente perché il regime avesse un argomento in più per bollare come controrivoluzionari al soldo degli Usa gli organizzatori e i partecipanti all’iniziativa. Il sostegno del CTDC alla marcia del 15 novembre ha dato fiato al castrismo per mettere in scena il copione di sempre, quello dell’ingerenza statunitense per rovesciare il sistema politico cubano attraverso “agenti interni”. È interesse del governo cubano, insomma, non distinguere, anzi accomunare, i giusti reclami di diritti e libertà espressi da Archipiélago con il retrivo programma borghese del CTDC.
I marxisti dovrebbero avere l’interesse opposto. E invece, accade che il gruppo Comunistas, che si autodefinisce come “sinistra non ufficiale cubana” – e che sembra essere diventato il punto di riferimento della maggioranza delle organizzazioni trotskiste sol perché uno dei suoi esponenti, Frank García Hernández, organizzò a Cuba nel 2019 una conferenza internazionale su Trotsky – si sia espresso sulla questione della marcia del 15 novembre sostenendo che quella “sinistra non ufficiale” non deve parteciparvi[11]. Di seguito andremo ad analizzare questa posizione.
Il ragionamento di Hernández, autore dello scritto che la enuncia, parte dalla constatazione che, a differenza delle rivendicazioni popolari agitate nella manifestazione dell’11 luglio, quelle di Archipiélago non tengono conto delle «necessità immediate dell’ampia maggioranza della classe lavoratrice cubana». E subito si dà una spiegazione, che però di fatto squalifica l’obiettivo della marcia. Dice: «È logico che i reclami di Archipiélago si limitino a indirizzarsi contro la violenza politica. I firmatari hanno soddisfatte le condizioni di base per mangiare tre volte al giorno». Tradotto: potete permettervi di parlare di libertà perché voi intellettuali avete la pancia piena. E quantunque anch’egli si consideri parte dell’intellettualità cubana, traspare da questo giudizio un sottile disprezzo verso una condizione che tra le righe viene dipinta come piccolo‑borghese.
Bene, seguiamo allora l’argomentazione di Hernández e torniamo all’11 luglio, in cui si manifestava non per la libertà di espressione e contro la censura, ma per cibo e medicinali. Perché crede il Nostro che il regime abbia violentemente represso i cortei, abbia arrestato centinaia di manifestanti – e lo stesso Hernández! – e li abbia condannati a svariati anni di carcere? Pensa forse che il castrismo al potere consenta la libertà di espressione in generale e non censuri altro che le richieste di cibo e medicinali? Crede forse che per tutto il resto vi sia ampia libertà d’espressione e nessuno venga censurato? E che dunque i prigionieri politici cubani non siano detenuti per reati d’opinione ma perché volevano “solo” nutrirsi e curarsi? Ritiene quindi che il presidente cubano reprima soltanto chi chiede di poter mangiare e aver accesso ai farmaci e invece consenta a chiunque di potere liberamente fondare un partito d’opposizione o un sindacato che non sia quello governativo? Perbacco! Allora, salvo che per quella “piccola” restrizione riguardante alimenti e medicine, Cuba sarebbe il Bengodi della democrazia universale!
Il fatto è che se non si ha diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, non si può scendere in piazza né per reclamare diritti e protestare contro la censura o chiedere la liberazione dei prigionieri politici (rivendicazioni piccolo‑borghesi, secondo la costruzione di Hernández), né per il pane e i farmaci (rivendicazioni proletarie, sempre secondo lui). Questa forzata dicotomia fra “diritti astratti” e “necessità concrete” sorvola sul fatto che a Cuba vige una dittatura che impedisce di protestare per entrambe le cose, e il Nostro non vuole esplicitamente riconoscerlo (per le ragioni che vedremo in seguito).
Rivendicazioni solo sulla carta, non in piazza
Ma continuiamo. L’autore prosegue nel suo ragionamento sostenendo che, comunque, i reclami di Archipiélago sono astrattamente giusti (dal che verrebbe da pensare che, allora, sarebbe altrettanto giusto appoggiare la manifestazione); tuttavia, considerando il sostegno che il reazionario CTDC ha dato alla marcia, la “sinistra non ufficiale” non può sfilare al fianco di chi agita un programma borghese con cui «vuole licenziare e privatizzare» e dare «un risarcimento ai borghesi e ai latifondisti colpiti dalle espropriazioni della Rivoluzione».
Ora, noi non sappiamo quanto grande e partecipata sarà la marcia organizzata dagli intellettuali di Archipiélago. Sappiamo, però, sulla scorta di quanto accaduto l’11 luglio che i settori organicamente espressione dei gusanos di Miami sono a Cuba estremamente minoritari, rappresentano un’élite che non si arrischia a scendere in piazza per essere repressa dai manganelli della polizia cubana o dalle mazze delle squadre paramilitari organizzate dal regime. Il sostegno che il CTDC ha offerto alla marcia sarà più che altro simbolico e teso a capitalizzare il malcontento popolare nel tentativo di assicurarsene la direzione.
Hernández sostiene che, se mai avesse deciso di scendere in piazza, la famosa “sinistra non ufficiale cubana” avrebbe dovuto declinare almeno dieci rivendicazioni – che diligentemente elenca nel testo che stiamo commentando – tese a soddisfare le necessità di base della popolazione. Ebbene, quale migliore occasione, allora, se davvero questa fantomatica “sinistra non ufficiale” avesse almeno un minimo peso sociale, per partecipare alla marcia avanzando a gran voce queste rivendicazioni e oscurare così, insieme a quelle degli intellettuali di Archipiélago, il reazionario programma del CTDC? E invece no, le “rivendicazioni proletarie” di Hernández restano a far bella mostra di sé sul web, mentre la piazza viene lasciata alle pur giuste “rivendicazioni degli intellettuali” e al programma reazionario dei gusanos. Cosa ci guadagna in quest’esercizio – esso sì, intellettuale – la classe lavoratrice nel cui interesse l’autore ha partorito le dieci rivendicazioni (che peraltro sono in sé corrette)? Nulla, assolutamente nulla. Però, mentre continuano a mancare generi alimentari e farmaci, mentre l’inflazione continua a galoppare, essa può bearsi nel leggere la piattaforma rivendicativa elaborata nel suo interesse da Hernández sul sito di Comunistas.
E neppure al Nostro è passato per la mente di dire: “Bene. Noi, la ‘sinistra non ufficiale’, non sfileremo insieme alla borghesia reazionaria perché il loro è il programma dei gusanos. E neppure al fianco degli artisti di Archipiélago perché, pur avanzando essi parole d’ordine che in fondo sono giuste, sono pur sempre dei piccolo‑borghesi. Ma, vivaddio, noi ‘sinistra non ufficiale’ siamo pur sempre i rappresentanti della classe lavoratrice, e allora approfittiamo della data della convocazione della marcia e andiamo a sfilare in un altro luogo con le nostre rivendicazioni, le uniche che possono risolvere le necessità di base della classe operaia”.
No, neanche questo è venuto in mente a Hernández; e per le ragioni che abbiamo già esplicitato nel testo indicato alla nota 2: perché il gruppo Comunistas è «un’organizzazione che non va al di là di qualche tiepida critica alla burocrazia, continuando a richiamarsi comunque alla tradizione castrista e, soprattutto, alla figura di Fidel. Questo gruppo si limita a rimproverare al partito e al gruppo dirigente un’eccessiva burocratizzazione, a disapprovare la corruzione e i bassi livelli di produttività dell’economia, a rimarcare il fatto che non ci sia discussione nel Paese e che ci siano nelle librerie pochi testi relativi a tutte le branche del sapere, a biasimare l’introduzione di misure capitalistiche». Questi militanti cubani «oscillano … fra la difesa romantica del castrismo “fidelista” (di Fidel) e il maquillage concreto del castrismo “raulista” (di Raúl)», esprimendo simpatie – come emerge dalla lettura del loro sito – per il “socialismo” cinese e quello vietnamita: che, come sosteniamo noi, di socialismo non hanno assolutamente nulla, esattamente come il regime cubano, del quale Hernández è comunque un rappresentante (sia pure con qualche mal di pancia) visto che lavora alle dipendenze di un’istituzione culturale statale e che rivendica se stesso come «militante del Partito comunista», cioè di quello al potere.
Trotsky contro i “trotskisti” cubani
Ma c’è una ragione in più alla base della posizione espressa dall’esponente di Comunistas. Questo gruppo ritiene che, sì, quello castrista sarà un regime un po’ burocratico, implementerà pure misure capitalistiche, ma resta comunque un regime prodotto della Revolución: sicché, basterebbe farlo retrocedere da questa mania di favorire l’imprenditoria privata, basterebbe che fomentasse almeno un po’ l’autorganizzazione delle masse, perché l’autentico socialismo – quello di Fidel, beninteso – torni a splendere su Cuba.
Noi che riteniamo che a Cuba il capitalismo sia stato già da tempo pienamente restaurato non ne abbiamo bisogno, ma chi volesse avere un’ulteriore dimostrazione del pensiero di Hernández e di Comunistas al riguardo potrà leggere un altro articolo del Nostro, intitolato “Trotski y la crisis política cubana”. In questo testo, l’autore sostiene che a causa dell’atteggiamento del PCC «un rilevante settore della gioventù cubana si sta sempre più spoliticizzando, poiché identifica il socialismo con l’anchilosato discorso ufficiale […] finendo per respingere le idee marxiste cadendo nell’apatia politica, e nel peggiore dei casi orientandosi verso la destra». Tuttavia, pressoché simmetricamente «stanno emergendo nuove e giovani figure nella sinistra critica cubana che in maggioranza sono attraversate da un denominatore comune: trovano nel libro di Trotsky, La Rivoluzione tradita un’analisi che risulta loro utile per comprendere la crisi cubana. Ad eccezione delle purghe staliniste, le difficoltà comportate da uno Stato multietnico e il tempo trascorso, questi giovani che pubblicamente si posizionano alla sinistra del Partito Comunista scoprono come nella burocrazia cubana si riproducono pericolosi tratti della burocrazia sovietica».
Ancora una volta, non possiamo fare a meno di esclamare: perbacco! A Cuba stavano fiorendo circoli trotskisti in ogni dove e noi, ciechi, non ce ne eravamo accorti, se non fosse stato per il buon Frank che ci ha rivelato l’esistenza di schiere di giovani in marcia agitando La Rivoluzione tradita così come i giovani maoisti negli anni 60 facevano con il Libretto rosso di Mao. Strano che un servizio di intelligence così occhiuto come quello castrista non se ne sia accorto! Eh, non c’è più il controspionaggio di una volta!
Il fatto è che, se davvero a Cuba, come ce li descrive Hernández, ci fossero le migliaia di giovani trotskisti svezzati da quel libro di Trotsky, bisognerebbe dire che, così come lo stesso Frank, de La Rivoluzione tradita non ci hanno capito granché. Trotsky non si limitò a descrivere in quell’opera il fenomeno della burocratizzazione del partito al potere, ma andò oltre. Spiegò che i pilastri di un’economia non capitalista (in transizione verso il socialismo) sono tre: proprietà statale dei grandi mezzi di produzione e del sistema bancario; pianificazione economica centralizzata a cui tutta la produzione deve essere subordinata; monopolio del commercio estero. E, come abbiamo dimostrato nel testo richiamato nella nota 3, tutti e tre questi pilastri sono stati da tempo demoliti dalla burocrazia castrista al potere.
Trotsky scrisse anche che «la natura di classe dello Stato non viene determinata dalle sue forme politiche, ma dal suo contenuto sociale, cioè dal carattere delle forme di proprietà e dei rapporti di produzione che un dato Stato fa propri e difende»[12]. A Cuba non è la percentuale di proprietà statale dei mezzi di produzione a determinare il carattere di classe dello Stato, ma il fatto che la produzione effettuata attraverso quei mezzi non si svolge in funzione di un’economia centralmente pianificata caratterizzata dal monopolio del commercio estero: e dunque, non si svolge nell’interesse della società, ma delle leggi del mercato e del profitto. Ciò perché Cuba ha “fatto propri e difende” rapporti di produzione capitalistici.
Trotsky scrisse pure che «la prognosi politica implica un’alternativa: o la burocrazia, divenendo sempre più l’organo della borghesia mondiale nello Stato operaio, rovescerà le nuove forme di proprietà [cioè, quelle socialiste: Nda] e trascinerà di nuovo il Paese nel capitalismo; oppure la classe operaia distruggerà la burocrazia e aprirà la strada al socialismo»[13].
Ma Trotsky ha ugualmente scritto, sempre ne La Rivoluzione tradita, un passaggio fondamentale, che certamente Hernández e tutti quei giovani trotskisti cubani da lui evocati formatisi su quest’opera non hanno letto. O, se pure l’avessero fatto, non l’hanno capito. Oppure, peggio, l’hanno capito ma fanno finta di no:
«Ammettiamo […] che né il partito rivoluzionario, né il partito controrivoluzionario si impadroniscano del potere. La burocrazia resta alla testa dello Stato. Anche in queste condizioni l’evoluzione dei rapporti sociali non si ferma. Non si può certo immaginare che la burocrazia abdichi in favore dell’eguaglianza socialista. Se essa ha … ritenuto possibile […] ristabilire i gradi e le decorazioni, in seguito dovrà inevitabilmente cercare un appoggio nei rapporti di proprietà. Si potrebbe obiettare che poco importano ai grossi funzionari le forme di proprietà da cui ricavano i loro redditi, ma sarebbe ignorare il fattore della precarietà dei diritti della burocrazia e il problema della sua discendenza. Il recente culto della famiglia sovietica non cade dal cielo. I privilegi che non si possono tramandare ai figli perdono la metà del loro valore. Ma il diritto di lasciare in eredità è inseparabile da quello di proprietà. Non basta essere direttore di un trust, bisogna esserne azionista. La vittoria della burocrazia in questo settore decisivo ne farebbe una nuova classe possidente»[14].
Trotsky spiega, in altri termini, che i privilegi della casta burocratica sono per loro natura precari e che, per consolidarsi, debbono trasformarsi in privilegi proprietari. Così pure, chi li esercita non può limitarsi ad esserne il gestore, ma deve diventarne il titolare. In mancanza di una rivoluzione politica che la rovesciasse, anche la burocrazia cubana si è mutata in borghesia. La casta burocratica che ha diretto e dirige Cuba si è, cioè, trasformata nella nuova borghesia che ora è al potere: non più di uno Stato operaio (benché deformato), ma di uno Stato borghese, la cui colonna vertebrale, come in tutti gli Stati borghesi, è rappresentata dalle forze armate. Un’istituzione che gestisce direttamente un’enorme parte dell’economia della Isla (senza aver bisogno di ripeterlo, richiamiamo qui il brano di Trotsky citato alla nota 10).
E ora non resta che attendere il 15 novembre
Questo è l’autentico Trotsky, non quello mutilato in nome del quale parlano Hernández e i suoi seguaci. Noi rivendichiamo il Trotsky per il quale, una volta che la burocrazia si è consolidata al potere convertendosi da gestore in proprietaria dei mezzi di produzione e avendo fatti propri e difendendo rapporti di produzione capitalistici, non basta deporla attraverso una rivoluzione politica, ma è necessaria una rivoluzione sociale attraverso cui espropriarla (espropriando anche gli altri capitalisti cui essa si è associata).
Nella loro smania di uscire dalla marginalità in cui tutti noi marxisti rivoluzionari ci dibattiamo, molte delle organizzazioni trotskiste in giro per il mondo si sono lasciate abbacinare da quest’intellettuale che ambiguamente rivendica Lenin e Trotsky ma pure Fidel Castro, e l’hanno eletto a loro “profeta” nella speranza di mettere piede a Cuba, bastione dello stalinismo caraibico.
Noi ci sottraiamo, denunciandolo, a questo disegno che non renderà un buon servigio né al marxismo rivoluzionario, né alla classe lavoratrice cubana. E, nell’impossibilità di fare altrimenti, restiamo per il momento osservatori di quanto accadrà il 15 novembre prossimo e dopo.
Certamente, allora il quadro sarà un po’ più chiaro e cercheremo di sondare le prospettive che potrebbero aprirsi per capire quale sarà il destino di Cuba e dei cubani.
Note
[1] Nell’agosto del 1994, nel pieno del c.d. “período especial” (una prolungata fase di profonda crisi economica che colpì Cuba dopo il collasso dell’Unione Sovietica e del Comecon e che ebbe come conseguenza profonde restrizioni nella vita delle famiglie cubane, segnate da penuria di combustibili, elettricità, generi alimentari e medicinali), si verificò una protesta di massa che ebbe come centro il Malecón (il lungomare de L’Avana). Benché le cause delle manifestazioni di allora e di oggi siano simili, gli sbocchi politici sono assolutamente diversi: le proteste del 1994 trovarono una soluzione nell’apertura delle frontiere di Cuba verso gli Stati Uniti e negli accordi migratori fra i due Paesi che consentirono a decine di migliaia di cubani di emigrare verso gli Usa su imbarcazioni improvvisate.
[2] “El pueblo no come planes”.
[3] “Cuba: dalla rivoluzione alla restaurazione”.
[4] «I diritti di riunione, manifestazione e associazione, con scopi leciti e pacifici, sono riconosciuti dallo Stato a condizione che vengano esercitati rispettando l’ordine pubblico e le prescrizioni stabilite dalla legge».
[5] Si veda il delirante testo “Más sobre la actualidad cubana (Parte II)”, che il generale in questione chiude chiamando la popolazione alla lotta contro i contestatori (¡Al combate!).
[6] “¿Sería pacífica? una manifestación contra la apertura del turismo en Cuba en noviembre 2021”.
[7] “Yunior García Aguilera, el «patriota preocupado»”.
[8] “Un nuevo mesías y una democracia raptada”.
[9] “El Consejo para la Transición Democrática en Cuba propone «50 actuaciones urgentes»”.
[10] L. Trotsky, “Encore une fois: l’Urss et sa défense”, 4 novembre 1937, Quatrième Internationale, n. speciale, giugno 1938, pp. 86‑87.
[11] Quest’opinione è articolata nel testo “La izquierda no oficial cubana ante el 20 de noviembre: opciones y dilemas”, il cui titolo fa riferimento alla data del 20 perché era quella originariamente scelta per lo svolgimento della marcia dai suoi organizzatori, i quali l’hanno poi anticipata al 15.
[12] L. Trotsky, “Un État non ouvrier et non bourgeois?”, Œuvres, vol. 15, Institut León Trotsky, 1983, p. 305.
[13] L. Trotsky, Il programma di transizione, Massari editore, 2008, p. 118.
[14] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, A.C. Editoriale, 2000, p. 298.