La sinistra socialista e l’aggravamento della crisi in Venezuela
Euclides de Agrela
(Pubblicato sulla pagina web Esquerda online)
L’ultima settimana di marzo è stata segnata da un significativo approfondimento della crisi politica venezuelana.
Il 30 marzo, in risposta ai ripetuti ricorsi che l’Assemblea nazionale venezuelana (cioè, il parlamento: ndt), in conformità di quanto stabilito dalla Carta democratica interamericana[1], ha rivolto all’Organizzazione degli Stati americani (OEA), il Tribunale supremo di giustizia (TSJ) (cioè, l’equivalente della nostra Corte costituzionale: ndt) ha emesso le sentenze n. 155 e 156, con cui i deputati nazionali sono stati messi in stato d’accusa per alto tradimento e privati dell’immunità parlamentare, oltre che delle funzioni legislative, che sono state accentrate sullo stesso TSJ e sul presidente, Nicolás Maduro.
Immediatamente, l’OEA e il Mercosul hanno adottato provvedimenti per fare ancor più pressione sul governo. Neppure Cuba ha appoggiato la decisione del TSJ, così come il Procuratore generale del Venezuela, la chavista Luisa Ortega Díaz. La decisione è stata così infelice che solo due giorni dopo, il 1° aprile, è stata revocata dallo stesso TSJ su richiesta del presidente Maduro.
Cause prossime della crisi politica
L’attuale crisi politica è il frutto del fallimento dei negoziati tra il governo Maduro e il Tavolo di Unità democratica (MUD) (una coalizione di partiti dell’opposizione di destra: ndt), svoltisi il 30 ottobre e l’11 novembre 2016.
Al centro di queste riunioni c’erano due importanti temi: la crisi economica, una delle cui principali conseguenze è la scarsità di prodotti e merci, e la crisi politica relativa alla convocazione, o meno, di un referendum – previsto dalla Costituzione – sulla revoca del mandato al presidente Maduro.
Rispetto all’economia, il governo Maduro e la MUD hanno convenuto di lavorare di concerto per combattere “il sabotaggio, il boicottaggio o l’aggressione all’economia venezuelana”. Il dialogo tra il governo Maduro e la MUD non aveva nulla da offrire ai lavoratori e alle masse popolari venezuelano, colpiti dall’inflazione, dalla carenza di prodotti, dai bassi salari e dalla disoccupazione. In tal modo, il governo Maduro procedeva in un accordo con l’opposizione di destra per garantire la governabilità in cambio di maggiori concessioni economiche alla borghesia filoimperialista.
Sulla crisi politica, si era concordato di cercare di porre fine all’ingerenza del Tribunale supremo di giustizia sull’Assemblea nazionale: ingerenza che non ha avuto inizio ora, ma a partire dall’elezione dei deputati dello Stato di Amazonas (ricordiamo che il Venezuela è uno Stato federale: ndt), denunciata come frutto di brogli dal Partito socialista unito del Venezuela (PSUV) (il partito fondato da Chávez e di cui è oggi espressione Maduro: ndt). Dei quattro deputati eletti, tre erano della MUD e uno solo del PSUV.
Mostrando le sue intenzioni di giungere a un accordo col governo Maduro, il 15 novembre 2016, solo quattro giorni dopo la seconda riunione delle trattative, la MUD ha chiesto all’Assemblea nazionale l’allontanamento dei suoi tre deputati dello Stato di Amazonas. In cambio, il chavismo ha assunto l’impegno di collaborare con la MUD per la nomina consensuale dei giudici del Consiglio nazionale elettorale (CNE), in vista del rinnovo del mandato previsto per dicembre 2016.
Benché l’opposizione di destra abbia una significativa maggioranza nell’Assemblea nazionale – la MUD ha ottenuto 112 dei 167 deputati alle elezioni del 6 novembre 2015, corrispondenti al 56,2% dei voti – non è riuscita a raggruppare sufficiente forza politico‑istituzionale per imporre il referendum revocatorio.
Il “Caso Amazonas” e il rinnovamento del CNE hanno rappresentato una dimostrazione evidente del fatto che il chavismo controlla la maggioranza assoluta dei poteri e delle istituzioni statali, dal potere esecutivo a quello giudiziario, dal CNE fino alle forze armate.
Il negoziato tra il governo Maduro e la MUD salta definitivamente quando il primo ha rinviato le elezioni regionali per i governatori, previste per dicembre 2016, al mese di giugno 2017.
Ma perché la consultazione è stata rinviata? Secondo il CNE, affinché ci sia un rinnovamento dei partiti che nell’ultima contesa elettorale non hanno partecipato con la propria lista, cioè per obbligare i partiti che si sono coalizzati in particolare nella lista della MUD[2] a presentarsi con la propria alle prossime elezioni. Questo processo, iniziato il 18 febbraio scorso, durerà circa due mesi e mezzo.
Frattanto, le elezioni regionali sono state ancora una volta rinviate sine die dalla presidente del CNE, Tania de Amelio. E ciò per un motivo molto semplice: il chavismo teme di perdere clamorosamente le elezioni regionali, così come accaduto nelle parlamentari del 2015.
Benché il Tribunale supremo di giustizia sia ritornato sui suoi passi rispetto alla decisione di assumere le funzioni dell’Assemblea nazionale, l’opposizione di destra non è rimasta soddisfatta e ha continuato a denunciare che “il colpo di stato prosegue”. La MUD, inoltre, ha convocato manifestazioni di piazza – realizzate poi lo scorso 4 aprile – per esigere la destituzione dei giudici del TSJ che hanno pronunciato le sentenze con cui sono stati revocati i poteri dell’Assemblea nazionale, rivendicare la liberazione dei prigionieri politici dell’opposizione di destra, come Leopoldo López, ex sindaco del municipio Chacao di Caracas, e perché vengano definitivamente convocate le elezioni regionali.
Disastro economico e sociale
La grave crisi politica venezuelana si snoda sullo sfondo di un’autentica catastrofe economica e sociale.
La produzione di petrolio, settore chiave dell’economia venezuelana, rappresenta il 93% delle esportazioni. La caduta dei prezzi del barile di petrolio nel mercato mondiale è la principale ragione del disastro economico e sociale del Paese. Nel 2012 il prezzo del barile di petrolio ha toccato i 140 dollari. Attualmente, oscilla intorno a soli 50 dollari.
Il Venezuela, pressoché del tutto dipendente dalle entrate della vendita del petrolio, è ostaggio delle oscillazioni dei prezzi sul mercato mondiale, cosa che colpisce drammaticamente la dinamica del suo PIL, delle esportazioni, importazioni, bilancio nazionale, cambio valutario e inflazione.
Solo nel 2016 l’economia è caduta, secondo il FMI, del 12% e le previsioni sono di un ribasso di un altro 6% nel 2017. L’inflazione ha superato il 750% nel 2016, con la precisazione che il governo non dispone di dati ufficiali. Il FMI ipotizza un’inflazione del 2000% per il 2017. La scarsità di prodotti e merci ha colpito il 60% e più del 50% della popolazione si trova già in una situazione di povertà.
Aumento della povertà assoluta e relativa, della disoccupazione, del lavoro precario, dei tagli al bilancio dell’assistenza, della malnutrizione e della fame sono le drammatiche conseguenze della crisi economica e sociale che devasta il Paese.
La geopolitica del petrolio venezuelano
Gli Stati Uniti sono la seconda destinazione del petrolio venezuelano, dietro solo alla Cina. Va evidenziata una novità: la PDVSA (Petróleos de Venezuela S.A.) ha comprato lo scorso gennaio 550.000 barili dagli USA, cosa che non era mai successa nei cento anni di attività petrolifera del Paese. L’impresa venezuelana ha comprato il petrolio leggero statunitense per diluire quello pesante e ultrapesante prodotto, che vale di meno sul mercato ed è più difficile da vendere.
Maduro non smetterà di fornire petrolio agli Stati Uniti perché, se lo facesse, approfondirebbe ancor di più la grave crisi economico‑sociale dato che questo comprometterebbe qualitativamente l’ingresso di petrodollari nel Paese. In diciotto anni di successivi governi chavisti, il Venezuela non ha mai cessato di fornire petrolio all’imperialismo statunitense.
Comunque, quali Paesi e compagnie avranno il privilegio di sfruttare con precedenza il petrolio in terra venezuelana in associazione con la PDVSA nei prossimi anni? Le nordamericane o le cinesi e russe?
Sullo scacchiere geopolitico del petrolio è pubblica e notoria la dipendenza crescente del Venezuela rispetto a Cina e Russia. Attualmente, il 40% del petrolio venezuelano è acquistato dalla Cina, il 20% dagli Usa, il 20% dall’India, il 10% dall’America centrale, Caribe e Cuba, il 10% da altri Paesi.
Benché la Russia non sia tra i principali importatori del petrolio venezuelano, negli ultimi anni ha prestato cinque miliardi di dollari al Venezuela che dovrebbe pagare il debito attraverso forniture di petrolio e combustibile. I prestiti fatti dalla Cina al Venezuela già superano i 50 miliardi di dollari.
A causa della catastrofe economica che flagella il Venezuela – e che si ripercuote anche sul suo parco produttivo, in particolare del petrolio, disorganizzandolo – la PDVSA è in ritardo con il rifornimento di circa dieci milioni di barili di derivati del petrolio nei confronti della principale impresa petrolifera russa, la Rosneft, e della cinese CNPC.
Una parte significativa di questi prestiti sono stati fatti direttamente alla stessa PDVSA. L’impresa statale russa Rosneft ha prestato 1,5 miliardi di dollari all’impresa venezuelana ottenendo come garanzia la metà delle azioni della Citgo, la filiale della PDVSA negli Stati uniti. Inoltre, più di quaranta miliardi di dollari di crediti vantati dalla Cina devono essere pagati in barili di petrolio.
Perciò, come ha segnalato Steve Hanke, economista e professore dell’Università Johns Hopkins (USA) imprese russe e cinesi potrebbero prendere il controllo della PDVSA nel caso in cui quest’ultima non riuscisse a onorare i suoi impegni a causa della bassa produzione e del basso flusso di cassa.
Il carattere politico e di classe del chavismo
Il governo Maduro, così come quello di Chávez, è un governo populista di sinistra, non un governo borghese normale, ma di conciliazione di classe diretto da una coalizione tra ufficiali dell’esercito, intellettuali e organizzazioni politico‑sindacali riformiste.
Dall’ascesa di Chávez alla presidenza della repubblica nel 1998, tutti questi settori, in particolare gli ufficiali dell’esercito, si sono convertiti nella cosiddetta borghesia bolivariana, proprietaria di numerose imprese che vivono soprattutto di partenariati pubblico‑privati con lo Stato e la PDVSA, affari nell’import‑export e, soprattutto, speculazioni con i petrodollari.
I militari hanno avuto e continuano ad avere una profonda ingerenza in molte sfere dell’amministrazione, da cui hanno ricavato molte opportunità per fare affari e arricchirsi. Ad esempio, nell’attuale esecutivo Maduro, dei 32 ministri 11 sono militari (quattro della riserva e sette in attività). Inoltre, all’inizio del corrente anno Maduro ha rinforzato la presenza militare nella PDVSA.
La Forza armata nazionale bolivariana (FANB) dirige e controlla tutta una serie di imprese: la banca BANFANB, l’impresa agricola AGROFANB, quella dei trasporti EMILTRA, delle comunicazioni EMCOFANB, il canale televisivo TVFANB, l’impresa mista di progetti di tecnologia TECNOMAR, il fondo d’investimento FIMNP, l’impresa di costruzioni CONSTRUFANB, l’impresa mista CANCORFANB, delle acque minerali Água Tiuna, nonché la CAMINPEG, una compagnia anonima di industrie minerali, petrolifere e del gas, creata nel febbraio 2016 e che passa per essere una PDVSA parallela.
Tuttavia, nonostante non abbia rotto con l’imperialismo statunitense, abbia continuato ad avere gli USA come uno dei principali clienti importatori del suo petrolio, continui ad avere una dipendenza quasi assoluta dalla rendita petrolifera e paghi religiosamente il debito estero, sarebbe estremamente superficiale considerare che il chavismo abbia lo stesso carattere filoimperialista dell’opposizione di destra venezuelana. Per il suo carattere politico‑sociale e le sue relazioni ruvide con l’imperialismo, possiamo caratterizzarlo, per approssimazione, come bonapartismo sui generis, sull’esempio dell’analisi realizzata da Trotsky sul Messico governato dal generale Lázaro Cárdenas (1934–1940)[3].
Questa definizione si attaglia al Venezuela innanzitutto perché sullo scacchiere geopolitico del petrolio, come abbiamo già spiegato, il chavismo privilegia le relazioni con la Cina e la Russia. Per quanto timidamente e limitatamente, bisogna ammettere che Chávez prima e Maduro adesso si scontrano in qualche modo con la tendenza al monopolio imperialista della produzione e distribuzione mondiale di petrolio, ma per diventare sempre più dipendente da Cina e Russia.
In secondo luogo, perché nella misura in cui la PDVSA è la principale impresa nazionale da cui dipende tutta l’economia del Paese legata alla rendita petrolifera, chi manterrà nelle sue mani il potere esecutivo controllerà la PDVSA, la produzione di petrolio, le esportazioni e le importazioni, la politica dei cambi e quella monetaria e fiscale. Pertanto, la frazione borghese che controlla l’apparato dello Stato controllerà l’economia e la regolazione del mercato capitalista praticamente in modo assoluto. Questo controllo, oggi esercitato dalla borghesia bolivariana, non è direttamente compatibile con gli interessi dell’imperialismo statunitense.
In terzo luogo, perché inalberando la bandiera del Socialismo del XXI secolo, il chavismo getta sulle spalle dei nemici esterni e interni la responsabilità per la crisi politica, economica e sociale. La stessa riduzione delle risorse di bilancio per le politiche sociali compensative, per i sussidi all’importazione di alimenti, farmaci e altri generi di prima necessità vengono attribuite al boicottaggio e al sabotaggio dell’opposizione borghese e filoimperialista.
Per quanto anche il chavismo proponga la costruzione di un Paese capitalista indipendente e di un welfare state, per quanto la borghesia bolivariana sia totalmente legata alla rendita petrolifera e alla speculazione finanziaria, non possiamo identificare questo progetto con quello della MUD, altrimenti incorreremmo in seri errori politici. Il progetto politico del chavismo, così come quello del PT in Brasile (cioè, il partito di Lula: ndt), si è basato su un ampio spettro di politiche compensative attraverso le cosiddette “Misiones”, oggi totalmente indebolite dalla situazione disastrosa del bilancio nazionale, svuotato dalla drastica caduta dei prezzi del petrolio nel mercato mondiale.
Tre posizioni sbagliate della sinistra socialista
Di fronte alla complessa situazione geopolitica, politica, economica e sociale del Venezuela, si confrontano tre posizioni espresse da diverse organizzazioni della sinistra socialista, che si dimostrano non solo sbagliate, ma abbastanza pericolose.
La prima è l’appoggio incondizionato ai provvedimenti bonapartisti di Maduro di fronte all’offensiva elettorale della destra venezuelana e dell’imperialismo. Chi difende questa posizione agita in permanenza la minaccia di una pretesa invasione imperialista o di un golpe militare di destra. Si tratta di un grave errore, dato che la tattica dell’imperialismo, a partire dal fallimento del golpe contro Chávez e della “serrata petrolifera” del 2002‑2003, si fonda sul rafforzamento di un ampio movimento d’opposizione politico‑elettorale. Questa tattica si è dimostrata così efficace negli ultimi anni che la MUD ha vinto le ultime elezioni parlamentari del 6 dicembre 2015. Fatto, questo, che ha fissato un nuovo livello per la lotta politica in ragione della diretta contrapposizione tra i poteri esecutivo e legislativo. Inoltre, Maduro ha mantenuto un significativo controllo delle forze armate, che non hanno finora subito nessuna importante rottura, e neppure una divisione tra gli ufficiali in alto grado, che rendessero possibile un golpe militare della destra. I primi segnali sono arrivati col nuovo provvedimento che toglieva potere al parlamento. Anche per questo è tornato sui suoi passi. Vuole mantenere la cupola dei militari unita al suo interno.
Una seconda posizione, di segno opposto rispetto alla prima, cerca di porre sullo stesso piano il progetto politico del chavismo e del governo Maduro da un lato e il progetto dell’imperialismo dell’opposizione di destra dall’altro, sostenendo luoghi comuni come “sono tutti farina dello stesso sacco”: borghesi, corrotti e nemici dei lavoratori. Il problema fondamentale per chi patrocina questa posizione è la difesa delle libertà democratiche contro la borghesia bolivariana che si trova alla testa del governo cercando di mantenervisi a prezzo di provvedimenti bonapartisti. Questa posizione scivola verso la pericolosa tentazione di considerare che “il nemico del mio nemico è mio amico” nella misura in cui la lotta contro tali provvedimenti si potrebbe presumibilmente verificare in unità d’azione con la MUD.
C’è ancora una terza posizione, più eclettica, rappresentata dalla formula “né‑né”: né governo, né opposizione. Benché appaia più equilibrata rispetto alle altre due, ha un grave problema: si rifiuta di avanzare rivendicazioni al governo Maduro, limitandosi all’agitazione astratta di parole d’ordine e non sfidando il chavismo sul terreno politico con l’obiettivo di far avanzare l’esperienza delle masse salariate e popolari che hanno svoltato verso destra nel periodo precedente. Questa posizione si rifiuta, nella pratica, di demistificare la menzogna per cui il disastro economico‑sociale che attanaglia il Venezuela sarebbe unicamente dovuto al boicottaggio e al sabotaggio della borghesia filoimperialista e degli Usa, e non invece, soprattutto, al progetto politico e alle misure economico‑sociali del supposto “Socialismo del XXI secolo”.
Un programma di transizione per il Venezuela
Sarebbe un grave errore pensare che, a causa della perdita dell’appoggio popolare a Maduro da parte di ampi settori di massa, sarebbe già all’ordine del giorno la parola d’ordine “Via Maduro!”. Sarebbe un grave errore perché si tradurrebbe immediatamente in una scappatoia per la destra capitanata dalla MUD e dall’imperialismo statunitense.
Purtroppo, non esiste ad oggi in Venezuela una via d’uscita a sinistra. La frammentazione, l’atomizzazione e la fragilità della sinistra socialista non ha reso possibile la nascita di alcuna alternativa di massa al chavismo. Ciò è dovuto, in primo luogo, alla capitolazione della maggioranza della sinistra socialista al chavismo, al quale ha dato per quasi vent’anni un vergognoso sostegno critico.
Per altro verso, quelle organizzazioni della sinistra socialista che non sono capitolate più o meno apertamente al chavismo hanno abdicato da una politica di massa, contentandosi di fare propaganda basata pressoché esclusivamente sull’agitazione di caratterizzazioni intorno alle accuse al chavismo: traditori, borghesi bolivariani, corrotti, ecc. Fra tali organizzazioni ci sono anche quelle che sono giunte al punto di fare unità d’azione con l’opposizione di destra contro la corruzione e in difesa delle libertà democratiche.
Le lotte del movimento delle masse lavoratrici e popolari in difesa delle loro condizioni di vita e lavoro sono anch’esse divise, frammentate e atomizzate. Come se non bastasse, non solo la bandiera della lotta alla corruzione, ma soprattutto quella della difesa delle libertà democratiche, viene purtroppo inalberata dall’opposizione di destra che sta puntando tutte le sue carte sulle future elezioni.
La difesa di un programma della sinistra socialista per il Venezuela deve necessariamente passare, nelle attuali condizioni della lotta di classe nel Paese, attraverso una politica di esigenze e denunce nei confronti del governo Maduro. Dall’altro lato, la difesa di questo stesso programma deve basarsi sulla lotta per la costruzione di un polo di classe indipendente: perché è a partire dalla stessa base sociale del chavismo – il settore più progressivo che risale al periodo di ascesa precedente – che potrà sorgere un’alternativa a sinistra.
Non si possono combattere il boicottaggio e il sabotaggio economico dei settori più filoimperialisti della borghesia venezuelana con i tavoli negoziali. E neppure la borghesia filoimperialista deve essere combattuta con provvedimenti bonapartisti che restringano le libertà democratiche di tutta la popolazione.
Allo stesso modo, non è possibile rispondere alle rivendicazioni dei lavoratori e del popolo senza frenare il vorace appetito della borghesia bolivariana e combattere la corruzione insita nell’apparato dello Stato e nello stesso governo.
La sinistra socialista deve dire che, per combattere l’attuale catastrofe economica e sociale, è necessario innanzitutto rompere con l’imperialismo statunitense e il FMI, smettere di pagare il debito estero e interno alle banche e agli speculatori privati, nazionalizzare il sistema finanziari. Con le risorse prima destinate al pagamento del debito e quelle provenienti dalla rendita petrolifera, il governo deve porre in atto un piano d’emergenza per risollevare l’economia nazionale mettendola al servizio dei lavoratori e delle masse popolari.
In secondo luogo, è necessaria una PDVSA statale al 100%, ponendo fine a tutte le imprese miste con multinazionali petrolifere statunitensi, cinese, russe o di qualunque altro Paese. Tutta la burocrazia corrotta della PDVSA deve essere destituita e deve essere eletto un consiglio gestore, scegliendo tra i suoi stessi lavoratori e con mandati revocabili, che renda pubblicamente conto dell’amministrazione dell’impresa. È altresì necessario espropriare senza indennizzo le imprese private che sabotano l’economia del Paese agevolando il boicottaggio imperialista.
In terzo luogo, è necessario un piano d’emergenza che garantisca investimenti massicci per ampliare e diversificare la produzione industriale e agricola del Paese, rompendo con la matrice economica basata sull’esportazione di commodities. È centrale industrializzare il Paese rompendo la dipendenza estera e garantire la sovranità alimentare. Un primo passo in questa direzione è costituito dalla nazionalizzazione senza indennizzo di tutta l’industria alimentare e dalla costruzione di un grande complesso agroindustriale che produca alimenti di qualità e a basso costo per la popolazione. Per combattere il mercato nero si devono anche nazionalizzare le reti private di supermercati e creare un sistema di distribuzione di alimenti controllato dal basso dagli stessi lavoratori.
In quarto luogo, come parte di questo piano d’emergenza e per creare posti di lavoro e recuperare il potere d’acquisto della popolazione, si deve ridurre la giornata lavorativa, procedere al recupero di tutte le perdite generate dall’inflazione e garantire l’aumento generale dei salari affinché raggiungano un livello ottimale per venire incontro alle necessità abitative, di alimentazione, sanità, istruzione, abbigliamento, trasporto e tempo libero delle famiglie dei lavoratori.
In quinto luogo, il Venezuela ha bisogno di un grande piano di opere pubbliche che ponga fine a deficit abitativo, edifichi scuole e ospedali, garantendo il rifornimento di acqua potabile e igiene pubblica. Attraverso questo piano, inoltre, si potrà drasticamente ridurre la disoccupazione.
In sesto luogo, la nazionalizzazione della sanità e dell’istruzione private e l’universalizzazione della sanità e dell’istruzione pubbliche e gratuite per tutti e a tutti i livelli.
In settimo luogo, ma non meno importante, la garanzia delle più ampie libertà democratiche perché i lavoratori e le masse popolari possano organizzare indipendentemente dal governo e dall’apparato statale i loro partiti, sindacati, associazioni, manifestazioni e scioperi.
Per un’Assemblea nazionale costituente libera, democratica e sovrana
Oltre a mobilitare ed esigere dal governo un programma che punti a una soluzione per la crisi del Paese, la sinistra socialista deve anche rivendicare e lottare per un’Assemblea nazionale costituente libera, democratica e sovrana, eletta dalla base e composta da rappresentanti genuini dei lavoratori e delle masse popolari, che non solo riorganizzi il Paese su nuove basi economico‑sociali sulla base di quanto abbiamo già detto, ma anche su nuove basi politiche. Per questo sarà necessario:
- concentrare i poteri esecutivo e legislativo in un’assemblea monocamerale, ponendo fine alla presidenza della repubblica, fonte di provvedimenti autoritari. Consegnare il potere ai rappresentanti del popolo eletti nei luoghi di lavoro e nei quartieri popolari con mandati revocabili in qualsiasi momento;
- garantire la proporzionalità diretta nell’elezione dell’assemblea nazionale, dando pieno diritto alla rappresentazione delle minoranze politiche;
- porre fine alla casta vitalizia dei giudici e garantire l’elezione diretta e universale di giurie popolari;
- istituire un’autentica revocabilità dei mandati e ridurre le indennità di tutti coloro che esercitino funzioni di amministrazione, verifica e controllo nell’apparato statale al livello del salario medio di un lavoratore specializzato;
- porre termine all’ingerenza delle forze armate bolivariane nella vita civile ed economica del Paese ed estinguere le sue funzioni repressive contro le masse popolari. Deve essere costituita una Sicurezza pubblica che abbia carattere civile, centralmente comunitario, investigativo e preventivo al servizio della popolazione, e non un carattere militare repressivo. Le forze armate, a loro volta, debbono essere costituite sulla base di milizie popolari poste al servizio della difesa del paese e dei lavoratori.
Così come il programma, un’Assemblea nazionale costituente potrà essere conquistata a partire dalla mobilitazione popolare. La sinistra socialista deve centrare i suoi sforzi nella direzione dell’impulso della mobilitazione degli sfruttati e oppressi, stimolando la costruzione di organizzazioni indipendenti dal governo Maduro e dall’opposizione di destra. La strategia deve essere la costituzione di un governo dei lavoratori e del popolo, che prenda nelle sue mani i destini del Paese e abbia come obiettivo la costruzione dell’autentico socialismo, senza capitalisti e burocrati corrotti.
Note
[1] La Carta democratica interamericana (CDI) è un meccanismo concepito in casi di alterazione o rottura della linea democratica e costituzionale in uno dei suoi Stati membri. Approvata dai 34 Paesi dell’OEA l’11 settembre 2001 a Lima, la Carta definisce gli “elementi essenziali della democrazia rappresentativa”. Secondo l’art. 17, un governo di un Paese membro può ricorrere al segretario generale o al Consiglio permanente per chiedere assistenza in caso di pericolo per la democrazia o per il suo esercizio nel potere. D’altro canto, l’art. 18 prevede che l’iniziativa possa essere anche assunta dal Consiglio permanente o dal segretario generale per realizzare, col consenso del governo in questione, una gerenza diplomatica in quel Paese. Ma la Carta prevede anche scenari di “alterazione dell’ordine costituzionale che colpiscano gravemente l’ordine democratico” o di “rottura dell’ordine democratico” (art. 19), in cui l’OEA può intervenire senza il consenso del Paese interessato. In ultima istanza, in caso di grave “alterazione” della democrazia, l’art. 20 dà facoltà al segretario generale o a qualsiasi Pese membro di convocare immediatamente un Consiglio permanente per valutare la situazione. Questa strada, senza precedenti nella storia della CDI, è stata scelta dall’attuale segretario generale dell’OEA, Luís Almagro, per intervenire nella crisi venezuelana (fonte: http://istoe.com.br/saiba-o-que-e-a-carta-democratica-interamericana-da-oea/).
[2] L’accordo che ha dato origine alla MUD è stato sottoscritto il 23 gennaio 2008 dai partiti: Acción Democrática (AD), Comité de Organización Política Electoral Independiente (COPEI), Bandera Roja (BR), Primero Justicia (PJ), Proyecto Venezuela (PV), Un Nuevo Tiempo (UNT), La Causa Radical (Causa R), Alianza Bravo Pueblo (ABP), Movimiento al Socialismo (MAS) e Vanguardia Popular (VP).
[3] «Il governo oscilla tra il capitale straniero e quello nazionale, tra la relativamente debole borghesia nazionale e il relativamente potente proletariato. Ciò conferisce al governo un carattere bonapartista sui generis, di indole particolare. Si eleva, per così dire, al di sopra delle classi. In realtà, può governare o convertendosi in uno strumento del capitale straniero e sottomettendo il proletariato con le catene di una dittatura poliziesca, o manovrando col proletariato, giungendo persino a fargli concessioni, guadagnando in tal modo la possibilità di disporre di una certa libertà in relazione ai capitalisti stranieri» (L. Trotsky, “La industria nacionalizada y la administración obrera”, in Escritos latinoamericanos, Ediciones IPS‑CEIP, 2007, p. 170).
(Traduzione di Ernesto Russo)
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