Venezuela: l’agonia di un’illusione
Valerio Torre [*]
In queste settimane, dopo la celebrazione del referendum in Venezuela e la presa di possesso dell’assemblea costituente, in tanti si stanno cimentando nel commentare la situazione in cui versa il Paese latinoamericano. La sinistra, in particolare, è sostanzialmente divisa nell’analisi. Da una parte, c’è un settore enormemente maggioritario – che appoggia incondizionatamente il governo di Nicolás Maduro e sostiene che l’imperialismo statunitense stia orchestrando un colpo di stato finanziando e addestrando l’opposizione venezuelana della Mud[1] – composto in larga misura dai cascami dello stalinismo, da impenitenti campisti e da una folta schiera di appartenenti a quella che viene impropriamente definita “sinistra radicale”[2]. Dall’altra, troviamo piccole organizzazioni che patrocinano la cacciata di Maduro e, in generale, il “¡Que se vayan todos!” (Via tutti!), di fatto dislocandosi nel campo politico della borghesia reazionaria, in oggettiva unità d’azione con la Mud[3]. In una posizione estremamente minoritaria rispetto a questa disequilibrata polarizzazione, ci sono settori della sinistra che rivendicano il chavismo delle origini contro quella che ritengono essere la “degenerazione” di Maduro.
A leggere le varie posizioni che vengono espresse (solitamente sui “social media”), sembra più che altro – per utilizzare una metafora calcistica – di assistere a uno scontro tra hooligan di contrapposte tifoserie, che si disinteressano della partita che si svolge tra le loro rispettive squadre per suonarsele invece di santa ragione. E intanto, la partita continua ad essere giocata sul campo dai ventidue calciatori.
Per quanto comprensibile sia la passione per la propria squadra del cuore, pensiamo che per poter apprezzare il gioco che questa esprime – e, in generale, il match stesso – sia necessario mettere un po’ da parte il tifo sfegatato e analizzare la strategia e la tattica messe in campo dai due team, tenendo presenti le rispettive preparazioni atletiche, i metodi d’allenamento, ecc.
Riteniamo che questo sia un metodo applicabile anche per approfondire quanto sta accadendo in Venezuela.
Nell’accingerci a dire molto modestamente la nostra, precisiamo che la nostra riflessione è partita da un articolo scritto da Giovanna Russo, una compagna di Sinistra anticapitalista, dal titolo “Le tante bugie sul Venezuela”, che ci è stato sottoposto. Abbiamo deciso di prendere le mosse da questo testo, non già per polemizzare con esso, ma perché è emblematico di un certo tipo d’analisi ricorrente, che tende a porsi a metà strada fra le due “tifoserie”.
L’autrice parte dal riconoscimento dei “limiti” del modello bolivariano instaurato da Hugo Chávez, ma non ce la fa proprio a trattenersi dall’evidenziare quelli che, a parer suo, sono stati i «passi avanti concreti nella lotta alla fame e alla povertà», l’alfabetizzazione della «popolazione più emarginata», la creazione di un «sistema sanitario diffuso», l’attuazione di «programmi di intervento sociale a beneficio di lavoratori, contadini, donne, indios». E aggiunge poi che questi piani sociali, dapprima sostenuti dalle entrate di un’economia tutta votata allo sfruttamento delle risorse petrolifere, hanno visto venir meno le risorse su cui si basavano quando le quotazioni internazionali del greggio sono crollate.
Quest’ultima affermazione, indubbiamente vera – un sistema economico non diversificato, infatti, non può reggersi in eterno – appare tuttavia superficiale, e sembra potersi inquadrare tra quelle letture che sostengono la bontà del processo e della “rivoluzione” bolivariana del primo Chávez, mentre l’attuale presidente Maduro avrebbe “tradito” quel processo o, tutt’al più, sarebbe un incapace per non averlo saputo gestire e sviluppare sulla strada indicata dall’ex presidente.
Crediamo sia importante, allora, per inquadrare correttamente la situazione attuale, prendere le mosse dalle radici politiche del chavismo.
Genesi del chavismo
Fino al 1989, la politica in Venezuela era dominata dal c.d. “Pacto de Punto Fijo”, cioè un accordo fra i tre principali partiti borghesi venezuelani per la costituzione di un regime democratico‑borghese stabile basato sostanzialmente su governi di unità nazionale tra gli stessi. Grazie a quest’intesa, la borghesia nazionale riuscì a governare il Paese traendo profitto, soprattutto negli anni 70, dalle enormi entrate derivanti dagli alti prezzi del petrolio, principale risorsa di quello che veniva chiamato “Venezuela Saudita”. Ma con il successivo crollo dei prezzi del greggio, si scatenò una forte crisi economica che indusse i vari governi a imporre misure di aggiustamento sempre più aspre che portarono a un grave deterioramento delle condizioni di vita dei lavoratori.
Le proteste popolari si susseguirono sempre più nutrite e numerose fino a quando, nel 1989, dopo l’aumento dell’80% dei prezzi del carburante e del 40% dei prezzi dei servizi pubblici, si scatenò una rabbiosa reazione di massa conosciuta come il “Caracazo”: centinaia di migliaia di abitanti dei quartieri popolari di Caracas, dei dintorni e delle zone dell’interno scesero in strada saccheggiando gli esercizi commerciali e sfidando una violenta e durissima repressione poliziesca che fece un migliaio di morti, con l’utilizzo di torture e il ricorso a fosse comuni. Le forze armate si divisero quando settori di militari della truppa si unirono all’insurrezione, che frattanto aveva assunto un carattere operaio e popolare. Il regime del Punto Fijo entrò in crisi mentre l’autorganizzazione della classe operaia determinava il sorgere di organismi di base chiamati “circoli bolivariani”.
Nel mezzo di questa crisi politica nel quadro di un vero e proprio processo rivoluzionario, il colonnello Hugo Chávez con un gruppo di giovani ufficiali tentò nel 1992 un golpe militare, che però fallì. Arrestato e condannato a vent’anni di carcere, guadagnò tuttavia grande prestigio tra le masse popolari che ne rivendicarono con forza la liberazione, avvenuta due anni dopo. Chávez fondò allora il proprio movimento politico e si candidò nel 1998 alle elezioni presidenziali, vincendole. Convocò quindi un referendum per eleggere un’assemblea costituente per la rifondazione dello Stato: nacque così la Quinta repubblica, denominata Repubblica Bolivariana del Venezuela, effetto distorto e sottoprodotto di un processo rivoluzionario dirottato nelle urne (ma tutt’atro che sopito, come vedremo in seguito).
Nonostante le frizioni con l’imperialismo, la politica di Chávez non fu mai di rottura col sistema capitalistico: il debito estero fu sempre religiosamente pagato; le forniture di petrolio agli Usa non si interruppero mai, anzi si incrementarono costantemente; le multinazionali del petrolio non incontrarono alcun ostacolo nello sfruttamento dei bacini; quelle che furono definite “nazionalizzazioni” in realtà si concretarono in acquisto – e relativo pagamento – da parte dello Stato delle partecipazioni azionarie di imprese straniere. Intanto, nonostante la favorevole congiuntura economica dovuta alle entrate della vendita di petrolio, la situazione della classe operaia non migliorò affatto, mentre la disoccupazione restava stabile.
I tentativi di golpe
Tuttavia, alla retriva borghesia venezuelana e al suo supporter imperialista statunitense non bastava che il regime chavista non ponesse affatto in discussione i pilastri del capitalismo e non ne mettesse in pericolo gli interessi. Essi vedevano necessario assumere direttamente il controllo dello sfruttamento delle risorse energetiche del Paese. Fu così che nell’aprile del 2002 un’alleanza reazionaria tra capitalisti, settori militari legati alla vecchia oligarchia, gerarchie della chiesa cattolica, col sostegno dell’imperialismo americano, proclamò uno sciopero generale. Dopo una manifestazione in cui ci furono diversi morti, un gruppo di militari golpisti entrò nel palazzo presidenziale, prelevando Chávez che fu arrestato, rinchiuso nel quartier generale degli insorti, destituito e sostituito con Pedro Carmona, presidente di Federcamaras (l’equivalente della nostrana Confindustria). Ma i lavoratori e le masse popolari scesero in piazza e inscenarono gigantesche proteste. Molti ottennero armi dall’esercito che vide spezzarsi la catena di comando, con diversi corpi militari che presero le parti del deposto presidente. Parecchie fabbriche furono occupate e i dirigenti sequestrati, furono erette barricate nelle strade e ci furono scontri a fuoco con la polizia. Nel giro di poche ore il golpe era finito, Chávez fu liberato e Carmona arrestato mentre tentava di fuggire.
Ma al processo rivoluzionario, sopito con le elezioni e riattivatosi contro il golpe, venne messa la sordina dallo stesso Chávez, che non volle schiacciare la reazione, ma anzi disarmò i circoli bolivariani: chi aveva capeggiato il colpo di stato (dirigenti della Pdvsa, cioè l’industria statale del petrolio, e proprietari dei canali televisivi) non venne destituito e restò al suo posto, preparando una nuova offensiva, che infatti si sviluppò pochi mesi dopo, nel dicembre 2002, con il blocco della produzione petrolifera (lock‑out) e degli altri servizi in mano ai privati. Ciò portò a un nuovo scontro con la popolazione che durò per circa due mesi, quando il regime chavista riprese il controllo della situazione e, pur effettuando una profonda ristrutturazione della catena di direzione dell’industria petrolifera – che passò totalmente sotto il suo controllo – non volle giungere a un’effettiva resa dei conti con la borghesia reazionaria.
Questa, di fronte all’impossibilità di utilizzare i metodi golpisti per prendere il controllo dello Stato, scelse la “via legale”, raccogliendo le firme per un referendum revocatorio per la destituzione costituzionale del presidente. Intanto, Chávez, profittando della congiuntura economica favorevole e del rialzo dei prezzi del greggio, grazie a importanti eccedenze di bilancio, varò provvedimenti sociali facendo investimenti nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’edilizia popolare, dell’alimentazione a basso costo, lanciando piani di assistenza in favore delle fasce popolari più povere, le cc.dd. Misiones: ciò determinò, per tutto il periodo che andò dal febbraio 2003 all’agosto 2004 (data di svolgimento del referendum) un indubbio spostamento della massa del consenso popolare verso il chavismo[4]. E, infatti, il risultato della consultazione fu una schiacciante vittoria per Chávez, che fu riconfermato nella carica col 59,1% dei voti.
La politica di Chávez
Da quel momento in poi, Chávez si rafforzò politicamente e puntellò il suo regime grazie alla casta dei militari a cui, di fatto, attribuì il controllo dell’economia dello Stato, assegnando loro i posti di comando in tutti i settori produttivi e finanziari[5]. Non solo: la formazione di un partito unico – il Psuv – che utilizza in esclusiva l’apparato statale per cooptare e frenare il movimento operaio, e l’esistenza di sindacati interamente controllati dalla burocrazia chavista, ridotti a essere solo il braccio sindacale del governo e del partito unico, cioè uno strumento di sostegno alla sua politica, e che fungono da “cani da guardia” delle lotte dei lavoratori[6], sono stati i pilastri fondamentali del regime. Tutto ciò ha prodotto la nascita di una nuova borghesia – la “borghesia bolivariana”, meglio detta “boliborghesia” – cioè una élite di potere formata da magnati che detengono le leve dell’economia dello Stato.
Intanto, Chávez ha continuato a pagare il debito pubblico e a negoziare con gli Usa[7], a cui non ha mai smesso di vendere il petrolio venezuelano, neppure quando è stato chiaro il loro ruolo attivo nel tentato golpe del 2002[8]; le “nazionalizzazioni” delle imprese petrolifere altro non sono state che l’acquisto – a prezzo di mercato e dopo negoziati – dei pacchetti azionari detenuti dalle multinazionali[9], le quali possono continuare in joint venture con la Pdvsa attraverso la forma di “imprese miste” col limite del 40% della proprietà delle azioni (mentre per le imprese che sfruttano i giacimenti di gas non ci sono limiti, per cui le compagnie straniere possono essere proprietarie al 100%); la condizione salariale dei lavoratori è andata peggiorando[10], e quando questi, stanchi di promesse non mantenute, hanno promosso scioperi e azioni di protesta, sono stati duramente repressi[11] (emblematici i casi della Sanitari Maracay e della Sidor; ma vanno ricordati anche i 3.306 manifestanti detenuti, i 973 feriti e i 42 morti nelle proteste iniziate nel febbraio 2014, quando il governo lasciò mano libera alla Guardia nazionale bolivariana e alla Polizia nazionale bolivariana, appoggiandone l’uso sproporzionato della forza, tanto che persino il Ministero Pubblico – un organismo indipendente facente capo al Poder Ciudadano e sotto la direzione della Procura Generale – riconobbe che vi erano stati 185 casi di trattamenti crudeli e 2 di tortura, oltre ai casi denunciati di abusi sessuali, detenzioni arbitrarie e persecuzioni a dirigenti studenteschi e sindacali).
Da Chávez a Maduro
Dopo la morte di Chávez, gli è succeduto nella carica di presidente il vice, Nicolás Maduro, che, privo del carisma e del massiccio appoggio popolare di cui godeva il suo predecessore[12], si è trovato a gestire il Venezuela in una congiuntura economica sfavorevole – con il crollo dei prezzi del petrolio, che sappiamo essere pressoché l’unica fonte di introiti per un’economia non diversificata – che ha precipitato il Paese in una crisi economica senza soluzione e con un parlamento che per la prima volta dall’avvento del chavismo ha una maggioranza dei partiti che fanno capo alla Mud.
Così come già aveva fatto Chávez, Maduro ha pensato di blandire l’opposizione facendole concessioni di tipo economico. Così, dopo le già citate manifestazioni del 2014, ha convocato dei “negoziati di pace”, nei quali si è incontrato con manager d’affari e i potenti capitalisti della Federcamaras, cui ha assicurato prestiti da banche pubbliche, un’ulteriore liberalizzazione dei controlli sul cambio estero per consentire alle imprese un accesso più agevole al finanziamento in dollari, e lo sfruttamento di 111.846,86 chilometri quadrati di terra nell’Orinoco, il 12% circa del territorio nazionale venezuelano, un’area ricca di giacimenti di oro, diamanti, rame, ferro e bauxite, che diventerà una miniera a cielo aperto in un territorio finora protetto e occupato da diverse comunità indigene, con disastrose ripercussioni ecologiche. Lo sfruttamento del c.d. Arco Minero del Orinoco sarà a tutto vantaggio dei profitti di grandi multinazionali, compresa quella Gold Reserve che era stata cacciata dal Paese nel 2008.
Tuttavia, mentre Maduro faceva tali concessioni ai capitalisti, le condizioni della classe lavoratrice diventavano sempre più insostenibili, al punto da deteriorare il sostegno popolare al governo, come si è visto in occasione delle elezioni parlamentari del dicembre 2015 in cui il Psuv ha dovuto registrare una pesante sconfitta, con la consegna della maggioranza parlamentare ai partiti della Mud.
Col passare del tempo, di fronte a una gigantesca perdita di sostegno popolare, di cui hanno approfittato i partiti dell’opposizione al chavismo per organizzare manifestazioni di protesta anche caratterizzate da atti di violenza, Maduro ha impresso una svolta sempre più marcatamente autoritaria al regime, lasciando mano libera ai militari, fino a tirar fuori dal cilindro il classico “coniglio”: la convocazione – motu proprio, e dunque facendo una forzatura rispetto alla Costituzione voluta da Chávez, che prevede invece un preventivo referendum[13] – di un’assemblea costituente, i cui criteri elettivi sono stati forgiati in modo da assicurare al regime il pieno controllo dell’organismo.
La svolta autoritaria del governo Maduro
I primi effetti di questa svolta si sono visti da subito: l’assemblea costituente, che sarebbe dovuta restare in vigore per i sei mesi necessari a redigere la nuova Costituzione, si è “autoprorogata” per due anni e ha autonomamente assunto i pieni poteri, di fatto esautorando il parlamento; la sua prima misura è stata la destituzione del procuratore generale, Luisa Ortega Díaz, chavista della prima ora ma contraria a Maduro, sostituita da un fedelissimo di quest’ultimo e particolarmente sgradita al regime in ragione delle sue indagini su episodi di corruzione che vedrebbero implicati personaggi di primissimo piano vicini al governo e allo stesso Maduro; in più di un’occasione la Guardia Nazionale Bolivariana ha circondato l’emiciclo dell’assemblea nazionale impedendo l’accesso ai parlamentari; è stata redatta una sorta di lista di proscrizione dei magistrati del Tsj (Tribunale Supremo di Giustizia) nominati dalla maggioranza parlamentare, ai quali sono stati congelati i beni e i conti bancari: alcuni di essi sono riusciti a fuggire clandestinamente all’estero, qualcuno è nascosto nel Paese, mentre in tre sono stati arrestati (https://tinyurl.com/y9qc529y), tra cui il giudice Ángel Zerpa, detenuto senza un’imputazione precisa e senza che abbia potuto incontrare un difensore (https://tinyurl.com/y7fojqy4); squadre del Sebin (Sérvicio Bolivariano de Inteligencia) percorrono le strade delle città arrestando – con modalità che fanno apparire queste azioni più come dei sequestri – personaggi pubblici invisi al regime, come ad esempio consiglieri comunali e deputati statali (emblematico il caso del deputato Wilmer Azuaje, detenuto dal 2 maggio scorso in condizioni inumane a dispetto della sua immunità parlamentare e nonostante una decisione del Tsj che gli concedeva gli arresti domiciliari); attualmente, i detenuti per motivi politici sono circa 700 (https://tinyurl.com/y979v5x3), mentre molti civili vengono processati dai tribunali militari (si contano almeno 400 casi: https://tinyurl.com/ya9wdbsp); l’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu ha denunciato il sistematico ricorso alla violenza da parte delle forze armate e dei gruppi armati filogovernativi (colectivos) e le arbitrarie detenzioni che, dal 1° aprile al 31 luglio, si contano in oltre 5.000, con parecchi casi di tortura (https://tinyurl.com/y7lussb3).
È evidente, insomma, che la stretta autoritaria impressa da Maduro con la “copertura giuridica” dell’assemblea costituente serve solo a una resa dei conti nei confronti dell’opposizione al chavismo per evitare una probabile sconfitta elettorale alle prossime elezioni regionali, non a caso rinviate più e più volte proprio per allontanare l’infausto evento, che sarebbe poi stato prodromico a una sconfitta alle future presidenziali del 2018. In questo senso, non crediamo sia azzardato parlare di “autogolpe”[14], anche considerando che il mandato autoassegnatosi dell’assemblea costituente scadrà nel 2019 e il 10 agosto scorso Maduro si è presentato dinanzi ad essa per “subordinarsi” (https://tinyurl.com/yccyhvad), ottenendone in cambio una risoluzione di “ratifica” adottata all’unanimità (https://tinyurl.com/y9h2bn2x) [15].
Come riprova dell’obiettivo che il regime intende ottenere dall’assemblea costituente, va segnalato che quest’organismo, a totale composizione chavista, non si propone affatto di discutere e adottare misure che possano in qualche modo servire a modificare e migliorare l’economia disastrata del Paese, fornendo un respiro di sollievo alla popolazione, ma solo di perpetuare il potere degli attuali governanti attraverso un’alchimia costituzionale che cancelli di fatto qualsiasi forma di opposizione. Il fatto è che, al di là delle mire dei settori più reazionari dell’opposizione, è incontestabile che il chavismo ha perso il sostegno di gran parte delle masse popolari, alcuni settori delle quali hanno partecipato alle manifestazioni di questi ultimi mesi per protestare contro le condizioni di vita in Venezuela. Condizioni il cui peggioramento costante negli anni è da disonesti attribuire a presunti sabotaggi o improbabili embarghi del capitalismo internazionale[16]: basti pensare che il salario minimo è passato dai 206 dollari del 2000 ai 7,68 del 2016; che l’indice di povertà estrema è passato dal 9,60% del 2007 al 51,51% del 2016; che la disoccupazione è passata dall’8,49% del 2007 al 25,35% del solo primo semestre del 2017; che l’importazione in Venezuela di beni e servizi è crollata dagli 85,3 miliardi di dollari del 2012 ai 28,6 miliardi del 2016. Frutto di un golpe orchestrato dalla Cia, oppure di un’economia totalmente impostata sull’estrazione e la vendita del greggio[17] e di fatto deindustrializzata[18] e deruralizzata[19]?
Venezuela: uno Stato socialista? un regime progressivo?
Fin qui abbiamo dato un riassuntivo sguardo sulla genesi del chavismo e il suo sviluppo negli anni. Ora, però, dobbiamo passare ad affrontare un’analisi di classe del regime venezuelano per potere poi, il più correttamente possibile, assumere una posizione rispetto a quanto sta accadendo in Venezuela.
Come abbiamo accennato all’inizio, la maggioranza della sinistra internazionale appoggia il regime chavista: o perché lo ritiene l’incarnazione del c.d. “socialismo del XXI secolo”, oppure perché lo ritiene un sistema comunque progressivo rispetto alla reazionaria proposta della Mud, e quindi da difendere rispetto a questa e alla minaccia di golpe.
Iniziamo dalla prima alternativa. Quello venezuelano è un regime socialista? È abbastanza semplice rispondere che non siamo in presenza di un socialismo, né del XXI, né del XX, né del XIX, né di nessun altro secolo, a meno di voler rinnegare gli insegnamenti di Karl Marx. Come abbiamo argomentato, sia Chávez che Maduro non hanno affatto rotto col capitalismo e l’imperialismo, con i quali hanno fatto sempre profittevoli affari e a cui hanno lasciato il controllo di gran parte dell’economia venezuelana; interi rami dell’economia sono stati lasciati nel controllo parziale, e in alcuni casi totale, delle multinazionali; non c’è in Venezuela monopolio del commercio estero, né programmazione e pianificazione economica centralizzata, né la totalità – o, quantomeno, la maggior parte – dei mezzi di produzione appartiene allo Stato; non c’è ombra di soviet o di organismi di autogoverno dei lavoratori; le imprese che sono state “nazionalizzate” non sono state espropriate e poste sotto il controllo dei lavoratori, ma acquistate e pagate al prezzo di mercato secondo le regole del capitalismo; la stessa Costituzione bolivariana garantisce (art. 115) il diritto di proprietà e la possibilità di espropriazione solo pagando un “giusto indennizzo”, mentre l’art. 113 garantisce l’iniziativa privata nello sfruttamento delle risorse naturali e nei servizi pubblici; non solo la borghesia esistente prima della salita al potere di Chávez non è stata espropriata, ma – come abbiamo visto – col chavismo (e in seno ad esso) ne è sorta una nuova, la boliborghesia, che con quell’altra si sta disputando il controllo dell’economia dello Stato; il regime di partito unico – il Psuv – ha creato una burocrazia che si è infiltrata e ha il governo delle istituzioni statali e dei sindacati, di cui utilizza le leve per attaccare e sottomettere la classe operaia; il diritto di sciopero è di fatto negato, dal momento che la “Ley orgánica de seguridad de la nación” punisce (art. 56) le attività dirette a colpire i servizi pubblici con la pena da 5 a 10 anni di carcere, così come il “Decreto ley para la defensa de las personas en el acceso a los bienes y servicios” punisce chi impedisce la distribuzione di beni essenziali per la popolazione: ed entrambe le normative sono state utilizzate per perseguire sindacalisti e attivisti quando hanno organizzato e partecipato a proteste per migliori condizioni salariali e lavorative; il gigantesco debito pubblico attraverso il quale l’economia nazionale viene di fatto eterodiretta dal capitalismo internazionale non è stato mai ripudiato, e anzi continua ad essere religiosamente pagato sottraendo enormi risorse destinate invece alle necessità della popolazione; le forze armate – che per la teoria marxista rappresentano la colonna portante dello Stato capitalista – non sono state distrutte, ma, ereditate dal vecchio regime pre‑chavista, sono state blandite con l’assegnazione di rilevanti privilegi, cooptate nel nuovo regime e poste, come abbiamo già visto, nelle posizioni apicali di gestione dello Stato che su di esse si regge, e non già, come avverrebbe in uno Stato socialista, sulla classe operaia autorganizzata. È palese, dunque, che il Venezuela non è affatto uno Stato socialista.
Quanto all’altra ragione che spinge parte della sinistra mondiale a sostenere il regime di Maduro – e cioè che sarebbe progressivo rispetto alla Mud, per cui bisognerebbe difenderlo dall’imminente pericolo di un golpe – crediamo di avere esposto abbondanti argomenti per confutare la tesi del “progressismo” del regime chavista. In realtà, se è vero che la Mud vuole strappare il potere a Maduro per imporre la propria agenda politico‑economica filoimperialista (apertura alle multinazionali, subordinazione totale del movimento operaio e della classe lavoratrice), non è men vero che il regime oggi instaurato in Venezuela, per quel che abbiamo visto, già applica in parte quell’agenda, pur senza essere filoimperialista. Si tratta, in realtà, di due settori borghesi che si stanno disputando il controllo dell’economia venezuelana in rappresentanza di diversi e contrastanti interessi, ma non certo nell’interesse dei lavoratori e delle masse popolari: tanto è vero che, se oggi c’è questo scontro in atto, è perché il chavismo (sia di Chávez che di Maduro) non ha mai voluto approfondire il processo rivoluzionario, il che avrebbe significato, in primo luogo, schiacciare con la forza del popolo in armi la borghesia oggi riunita intorno alla Mud e consegnare il potere ai lavoratori.
Dov’è il golpe?
Ma, si dirà, e il pericolo di un imminente golpe? Invero, quest’argomentazione non viene solo agitata dalla sinistra stalinista o riformista. Anche una parte della sinistra trotskista si sta facendo trascinare nell’inganno del “giù le mani dal Venezuela!”, facendo ricorso – per sostenere l’assunto – all’erronea analogia col golpe di Kornilov (addirittura, alcuni hanno fatto riferimento al Cile rivoluzionario del 1973, avanzando l’improbabile equiparazione Maduro/Allende!).
Domandiamo allora: chi è che dovrebbe fare questo colpo di stato? Qualche decina di migliaia fra vecchie signore che inalberano cartelli contro la fame e studenti armati di pietre e, tutt’al più, di qualche bottiglia molotov? E questi “eroi” dovrebbero affrontare con striscioni e sassi le forze armate, la Guardia nazionale bolivariana, la polizia e i feroci colectivos, mentre gli uomini dello spietato Sebin pattugliano le strade sequestrando a loro piacimento? Né va dimenticato che tutto l’apparato statale, oltre ad appoggiarsi totalmente su forze armate completamente integrate nel potere, è innervato di uomini del partito unico, il Psuv: sicché, può ben parlarsi di un blocco monolitico che gestisce lo Stato.
Ma i complottisti della sinistra che vedono operazioni della Cia da tutti i lati stanno oggi gongolando nell’amplificare le dichiarazioni di Donald Trump, che ha annunciato di non potere scartare un’operazione militare in Venezuela. Si tratta di una minaccia reale? Ci sia consentito dubitarne. Al momento, quelle dichiarazioni non vanno oltre le consuete smargiassate del presidente statunitense. Persino il tutt’altro che bolscevico The New York Times evidenzia che «ben pochi analisti pensano che gli Usa abbiano reali intenzioni di usare il loro potere militare contro il Venezuela»[20], allertando che la minaccia potrebbe avere l’effetto opposto di rafforzare la posizione di Maduro, non solo nel Paese, ma anche nella regione, spostando gli equilibri di altre nazioni che finora hanno preso le distanze dal regime chavista … E poi, Trump dovrebbe essere ben ingrato a invadere il Venezuela dopo aver ricevuto da Maduro ben 500.000 dollari di finanziamenti – più di Ford (250.000), Coca Cola (300.638), Comcast (250.000), Google (285.000), Monsanto (25.000), Pepsi (257.295), Samsung (100.000) e Verizon (100.000) – per la sua campagna elettorale attraverso la Citgo Petroleum Corporation, controllata interamente dalla Pdvsa[21]! Il fatto è che per preparare un golpe è necessario predisporre ingenti programmi di finanziamento, guadagnare agenti sul territorio, infiltrare i corpi di intelligence e di sicurezza, mettere in piedi un programma di informazione e comunicazione mediatica che prepari il terreno. Ma di tutto ciò non risultano evidenze ad oggi in Venezuela: se ve ne fossero stati gli elementi, certamente gli occhiuti servizi segreti venezuelani li avrebbero utilizzati come contropropaganda. Anzi, va segnalato, da una parte, che il vicepresidente statunitense, Mike Pence, in visita nella regione latinoamericana, ha mitigato le spavalderie di Trump, dichiarando che «il presidente confida che, lavorando insieme ai nostri alleati in America Latina, potremo trovare una soluzione pacifica alla crisi in cui si trova il popolo venezuelano»[22]; e, dall’altra, che il presidente della Colombia Juan Manuel Santos, il più stretto alleato degli Usa nell’area, nel faccia a faccia avuto con Pence ha espressamente chiesto che gli Usa si astengano da qualsiasi intervento militare in Venezuela, come pure in ogni altra parte del continente[23]. E lo stesso hanno espresso i presidenti dell’Argentina, Macri, e quello del Cile, Bachelet, in conferenza stampa congiunta con Pence e lo stesso Santos.
Dunque, non c’è, al momento, alcuna avvisaglia di tentativo di colpo di stato militare da parte dell’imperialismo in Venezuela. Chiaramente, laddove questa che per ora è una pura ipotesi complottistica dovesse realmente concretizzarsi, sarebbe dovere morale dei rivoluzionari collocarsi nel campo militare venezuelano, al fianco delle masse popolari e non certo dando alcun sostegno politico al governo Maduro, per favorire, oltre alla sconfitta del tentativo imperialista, lo sviluppo di un processo rivoluzionario che abbia come obiettivo la presa del potere da parte dei lavoratori.
Tutto quanto abbiamo sinora detto esclude anche ogni improprio accostamento con il golpe di Kornilov o quello di Pinochet. Basti solo segnalare che nella Russia del 1917 e nel Cile del 1973 v’era una situazione profondamente rivoluzionaria, con organismi di doppio potere e la mobilitazione permanente dei lavoratori e del popolo: cioè, tutto ciò che manca nel Venezuela di Maduro, che peraltro non è paragonabile né a Kerensky, né ad Allende, dai quali si differenzia non solo per spessore politico e personale, ma anche per il tipo di governo ch’egli dirige. Tali infondate equiparazioni, insomma, non fanno altro che portare, più o meno consapevolmente, appoggio politico al governo Maduro, dislocando chi le utilizza nel campo politico del regime chavista.
Un regime bonapartista sui generis
E allora, escluso che quello venezuelano sia un regime socialista, o comunque progressivo, di fronte a cosa siamo?
Quello chavista non rappresenta un fenomeno nuovo nel novero dei sistemi politici. Con le dovute e congiunturali differenze, altri se ne sono registrati nel tempo. Il Messico della fine degli anni 30/inizio 40 fu un esempio da cui prendere le mosse per qualificare l’attuale regime politico venezuelano. Ed è un esempio tanto più importante, perché ebbe un testimone d’eccezione che ne analizzò i fondamenti.
León Trotsky fu esule nel Messico di quegli anni, che aveva come presidente Lázaro Cárdenas. Molto vicino alle masse popolari e contadine, Cárdenas varò importanti riforme economiche, tra cui la distribuzione delle terre ai contadini e, in particolare, la nazionalizzazione delle ferrovie e delle società petrolifere, misura che lo mise in una posizione di scontro frontale con gli Usa e l’Inghilterra.
Trotsky analizzò a fondo e in maniera brillante il regime cardenista, definendolo “bonapartista sui generis”:
«Nei Paesi industrialmente arretrati il capitale straniero disimpegna un ruolo decisivo. Di qui la relativa debolezza della borghesia nazionale rispetto al proletariato nazionale. Ciò crea condizioni speciali di potere statale. Il governo oscilla tra il capitale straniero e quello nazionale, tra la relativamente debole borghesia nazionale e il relativamente potente proletariato. Ciò dà al governo un carattere bonapartista sui generis, di indole particolare. Si eleva, per così dire, al di sopra delle classi. In realtà, può governare o convertendosi in strumento del capitale straniero e sottomettendo il proletariato con le catene di una dittatura poliziesca, oppure manovrando col proletariato, arrivando persino al punto di fargli concessioni, guadagnando in tal modo la possibilità di disporre di una certa libertà in relazione ai capitalisti stranieri. L’attuale politica [del governo messicano] si colloca nella seconda alternativa; le sue maggiori conquiste sono l’espropriazione delle ferrovie e delle compagnie petrolifere»[24].
Detto in altri termini: vi può essere un bonapartismo sui generis “di destra”, se si appoggia di più sul capitale straniero adottando il carattere di una dittatura; oppure “di sinistra”, se si appoggia sul proletariato.Naturalmente, così come il bonapartismo sui generis allaccia questa relazione particolare con le masse e l’imperialismo, allo stesso modo la stabilisce con i sindacati, che vengono sottoposti alla sua tutela, sviluppando un processo di statalizzazione delle organizzazioni operaie:
«I governi dei Paesi arretrati, cioè coloniali o semicoloniali, assumono in generale un carattere bonapartista o semibonapartista. Differiscono tra loro per il fatto che alcuni cercano di orientarsi verso la democrazia, cercando l’appoggio di operai e contadini, mentre altri instaurano una stretta dittatura poliziesco‑militare. Ciò determina anche la sorte dei sindacati: o sono sotto il patrocinio speciale dello Stato o sono soggetti a una crudele persecuzione. Questa tutela dello Stato è determinata da due grandi compiti che esso deve affrontare: in primo luogo, attrarre la classe operaia, per guadagnare così un punto d’appoggio per la resistenza alle eccessive pretese dell’imperialismo e al contempo disciplinare gli operai stessi ponendoli sotto il controllo di una burocrazia»[25].
Dunque, per sintetizzare:
- i governi[26] bonapartisti sui generis sorgono come tentativo di settori borghesi nazionali di resistere alle pressioni dell’imperialismo e cercano di utilizzare in loro favore gli attriti e le differenze fra Paesi imperialisti. Al riguardo, Trotsky segnalava che essi «utilizzano, per difendersi, gli antagonismi tra i diversi Paesi e gruppi di paesi imperialisti»;
- adottano alcune misure antimperialiste, ma mai superando i limiti del sistema capitalista, né dello Stato borghese: il governo Cárdenas espropriò e nazionalizzò il petrolio nel 1938; il peronismo, da parte sua, nazionalizzò settori molto importanti della produzione: petrolio, energia elettrica, ferrovie, telecomunicazioni; Nasser, in Egitto, nazionalizzò il canale di Suez;
- per contrastare la pressione imperialista, si appoggiano sul movimento di massa, a cui fanno alcune importanti concessioni. La debolezza strutturale delle borghesie nazionali dei paesi arretrati rispetto all’imperialismo le obbliga a cercare l’appoggio dei lavoratori e delle masse;
- esercitano un controllo burocratico e totalitario dei lavoratori e delle masse, per impedirne la mobilitazione e l’organizzazione indipendenti. Trotsky segnalò che le particolari condizioni dello sviluppo capitalista dei Paesi arretrati (con un gran peso del capitale imperialista) determinavano una «relativa debolezza della borghesia nazionale in relazione al proletariato». Questo ferreo controllo viene stabilito sia sul versante politico che nelle organizzazioni sindacali. Sul terreno sindacale, questi governi integrano e subordinano i lavoratori nel movimento, con chiara direzione borghese: in Messico come in Argentina, i sindacati furono praticamente nazionalizzati (legalmente e finanziariamente) e sottoposti alla direzione di burocrati sindacali incondizionatamente fedeli al governo (autentici funzionari statali, più che dirigenti operai), che stabilirono funzionamenti molto totalitari, quasi senza democrazia operaia.
Cárdenas, infatti, aveva espropriato le ferrovie e le imprese del petrolio, innescando un contrasto molto forte con gli Usa e l’Inghilterra, che non sfociò in una risposta armata solo perché frattanto era scoppiata la Seconda guerra mondiale. Aveva assegnato inoltre alle organizzazioni operaie una rilevante parte di responsabilità nell’amministrazione, nella produzione e nel funzionamento dei rami nazionalizzati dell’industria.
Tuttavia, quanto a queste misure, Trotsky evidenziava:
«La nazionalizzazione delle ferrovie e degli impianti petroliferi in Messico non ha, naturalmente, nulla a che vedere col socialismo. È una misura di capitalismo di Stato in un Paese arretrato che cerca in tal modo di difendersi da un lato dall’imperialismo straniero e, dall’altro, dal suo stesso proletariato. L’amministrazione delle ferrovie, degli impianti petroliferi, ecc., attraverso organizzazioni operaie non ha nulla a che vedere con il controllo operaio dell’industria, perché in ultima analisi l’amministrazione si sviluppa tramite la burocrazia sindacale, che è indipendente dagli operai, ma dipende totalmente dallo Stato borghese. Questa misura ha l’obiettivo, da parte della classe dominante di disciplinare la classe operaia, facendola lavorare più al servizio degli interessi comuni dello Stato, che superficialmente sembrano coincidere con quelli della stessa classe operaia. In realtà, il compito della borghesia consiste nel liquidare i sindacati come organismi di lotta di classe e sostituirli con la burocrazia come organismi di dominazione degli operai ad opera dello Stato borghese»[27].
Come si può notare, i tratti caratteristici del bonapartismo sui generis enucleati da Trotsky possono, con i necessari adattamenti dovuti alla mutata realtà politico‑sociale, essere riscontrati nel chavismo: vi ritroviamo, infatti, le frizioni con l’imperialismo, l’adozione di misure “antimperialiste”, le concessioni alle classi subalterne, la statalizzazione e la cooptazione nell’apparato statale delle organizzazioni dei lavoratori. E se guardiamo a questo regime nella prospettiva dell’intero suo corso, ben possiamo sostenere che quello di Chávez era più simile alla “variante di sinistra”, maggiormente “orientata verso la democrazia”; mentre quello di Maduro può meglio essere inquadrato nella “variante di destra”, con una maggiore propensione all’instaurazione di quella che Trotsky definiva “dittatura poliziesco‑militare”.
È chiaro che il nazionalismo borghese del bonapartismo sui generis chavista si è sviluppato in un’epoca differente da quella dei vari Cárdenas, Perón, Nasser, i quali avevano margini di manovra economici e politici molto più ampi di quelli che l’epoca attuale ha assegnato a Chávez o Maduro, sicché la politica di questi ultimi si è sviluppata in un ambito molto più ristretto, con un’azione molto più limitata (soprattutto per il secondo) e in un panorama internazionale differente, in cui – solo per fare un esempio – mancava il “contrappeso” dell’Urss[28]. Tuttavia, è innegabile che il chavismo possa e debba essere caratterizzato facendo utile ricorso alla richiamata categorizzazione offerta da Trotsky.
Come debbono agire i rivoluzionari rispetto al bonapartismo sui generis
In ultima analisi, quello venezuelano è un “capitalismo di Stato”. Come tale, sarebbe assolutamente letale per i rivoluzionari dare al regime chavista, come sta accadendo nel campo della stragrande maggioranza della sinistra internazionale, un sostegno politico: o di tipo “acritico”, postulando il Venezuela come uno Stato socialista (di qualsiasi secolo si voglia!) o in cammino verso il socialismo; oppure, ritenendo il Paese vittima di un golpe militare già in atto o imminente, orchestrato dall’imperialismo statunitense. Un appoggio politico a Maduro e al suo governo non farebbe altro che rafforzarne le politiche di collaborazione col capitalismo e di ulteriore subordinazione del movimento operaio.
Ma non sarebbe meno dannoso, per chi si rifà ai principi del marxismo, liquidare il fenomeno chavista in maniera settaria, senza approfondire un’analisi seria delle concrete misure varate nel tempo allo scopo di elaborare una politica utile per l’attuale situazione venezuelana, fino a giungere – come ad esempio fa la Lit – a dislocarsi oggettivamente nel campo della destra reazionaria, agitando insieme a questa la bandiera del “¡Fuera Maduro!”[29].
Come abbiamo visto, Trotsky inquadrò nella giusta luce la misura cardenista della nazionalizzazione del petrolio. E lo ripete qui:
«L’espropriazione del petrolio non è né socialista né comunista».
Tuttavia, aggiunge:
«È una misura di difesa nazionale altamente progressiva».
E specifica:
«I rivoluzionari non hanno alcuna necessità di cambiare colore […]. Senza rinunciare alla loro identità, tutte le organizzazioni oneste della classe operaia del mondo intero […] hanno il dovere di assumere una posizione inconciliabile contro i ladroni imperialisti, la loro diplomazia, la loro stampa e i loro cortigiani fascisti. La causa del Messico […] è la causa della classe operaia internazionale. La lotta per il petrolio messicano è solo una delle scaramucce d’avanguardia delle future battaglie tra gli oppressori e gli oppressi»[30].
Come si vede, Trotsky difendeva, e non certo criticava, le misure cardeniste; faceva appello alla classe operaia ad appoggiarle e difenderle, pur non essendo “né socialiste, né comuniste”. In altri termini, dissociava quella che vedeva come “una misura di difesa nazionale altamente progressiva” dalle pennellate di “socialismo” con cui le colorava il governo che l’adottava.
Allo stesso modo argomentava per quel che riguarda l’amministrazione delle imprese nazionalizzate:
«Queste misure si inquadrano per intero nei limiti del capitalismo di Stato. Tuttavia, in un Paese semicoloniale, il capitalismo di Stato si trova sotto la forte pressione del capitale privato straniero e dei suoi governi, e non può mantenersi senza l’appoggio attivo dei lavoratori. Ciò spiega perché, senza che il potere reale gli sfugga dalle mani, [il governo messicano] cerca di dare alle organizzazioni operaie una rilevante parte di responsabilità nel funzionamento della produzione dei rami nazionalizzati dell’industria.
Quale dovrebbe essere la politica del partito operaio in queste circostanze? […] Il governo borghese ha portato a termine autonomamente le nazionalizzazioni e si è visto obbligato a chiedere la partecipazione dei lavoratori all’amministrazione dell’industria nazionalizzata. Naturalmente, si può eludere la questione adducendo che, a meno che il proletariato non prenda il potere, la partecipazione dei sindacati nella gestione delle imprese del capitalismo di Stato non può dare risultati socialisti. Tuttavia, una politica così negativa da parte dell’ala rivoluzionaria non sarebbe compresa dalle masse e rafforzerebbe le posizioni opportuniste. Per i marxisti non si tratta di costruire il socialismo con le mani della borghesia, ma di utilizzare le situazioni che si presentano nel capitalismo di Stato e far avanzare il movimento rivoluzionario dei lavoratori»[31].
Anche sotto quest’altro profilo, dunque, Trotsky spingeva i rivoluzionari perché intervenissero senza alcuna forma di settarismo nell’amministrazione delle imprese nazionalizzate, e il prosieguo del testo appena citato lo conferma, laddove spiega che la partecipazione nella gestione di un certo ramo dell’industria offre un’ampia opportunità di opposizione politica, a condizione di lottare instancabilmente, persino da una posizione estremamente marginale (per quanto «di eccezionale importanza»), per l’indipendenza del movimento operaio, per la democrazia operaia[32]. Il senso degli insegnamenti di Trotsky stava dunque nello sviluppare una politica che dialogasse con la base operaia e popolare del cardenismo partendo da una posizione di chiara indipendenza di classe rispetto ad esso.
Ecco perché Trotsky “bacchettava” quegli stessi appartenenti alla Quarta Internazionale che chiamavano all’azione diretta contro Cárdenas, nel contempo accusando lo stesso Trotsky di abbandonare la teoria della rivoluzione permanente in favore di una visione tappista:
«… c’è un’incomprensione della questione del salto delle tappe. La letteratura del movimento rivoluzionario è scritta principalmente dal punto di vista dei Paesi industriali avanzati, ed è compresa solo alla luce di questi Paesi. È così, ad esempio, che i nostri compagni messicani comprendono la questione del salto delle tappe. Perché in Messico non saltare le prossime tappe e giungere direttamente a quella della rivoluzione proletaria? Non si è fatto alcuno sforzo per considerare il movimento dal punto di vista della realizzazione dei compiti democratici. […]
Che la storia possa saltare le tappe è evidente. […] Il proletariato può saltare la tappa della democrazia, ma noi non possiamo saltare le tappe dello sviluppo del proletariato. Credo che i nostri compagni, in Messico e fuori di esso, cerchino in maniera astratta di saltare, quanto al proletariato e persino alla storia in generale, non con le masse sopra certe tappe, bensì sopra la storia in generale e, soprattutto, sopra lo sviluppo del proletariato»[33].
Dunque, i marxisti rivoluzionari debbono costruire la loro politica partendo dallo sviluppo concreto del movimento operaio. Solo così potranno indirizzarlo sulla via della rivoluzione:
«… nel corso della lotta per i compiti democratici, opponiamo il proletariato alla borghesia. L’indipendenza del proletariato, persino all’inizio di questo movimento, è assolutamente necessaria»[34].
Insomma, per Trotsky, il nazionalismo borghese può anche avere – come in Messico con Cárdenas aveva – la direzione del movimento operaio, ma non deve sullo stesso esercitare l’egemonia: di qui la necessità dell’indipendenza della classe operaia rispetto ad esso e rispetto all’organizzazione che lo rappresenta, che Trotsky definisce “fronte popolare sotto forma di partito”.
Il compito per i rivoluzionari, allora, è mantenere l’indipendenza della propria organizzazione e lottare per l’indipendenza delle organizzazioni operaie rispetto al governo:
«… in Messico più che in qualsiasi altro posto, la lotta contro la borghesia e il suo governo consiste innanzitutto nel liberare i sindacati dalla loro dipendenza rispetto al governo. Formalmente, nei sindacati messicani c’è tutto il proletariato. L’essenza del marxismo consiste nell’offrire una direzione alla lotta di classe del proletariato. Ma questa esige la sua indipendenza dalla borghesia. Conseguentemente, la lotta di classe in Messico dev’essere orientata a guadagnare l’indipendenza dei sindacati dallo Stato borghese»[35].
Dunque, in un regime bonapartista sui generis la politica dei rivoluzionari deve essere interamente versata nel lavoro all’interno dei sindacati cooptati nelle istituzioni dello Stato. Contro la politica degli avventuristi, di coloro che leggono schematicamente e astrattamente le dinamiche della lotta di classe, recitando come un mantra in tutti i luoghi e in tutte le condizioni le parole d’ordine della rivoluzione proletaria, Trotsky ammoniva che non si possono saltare le tappe e, soprattutto, quella dello sviluppo concreto del movimento operaio:
«Non possiamo dire agli operai: “Dateci la direzione e noi vi mostreremo ciò che bisogna fare!”»[36].
Ecco perché Trotsky riteneva che il proletariato dovesse “fare la sua esperienza” con il nazionalismo borghese, anche da una posizione minoritaria, purché si perseguisse il compito prioritario dell’indipendenza di classe, pur di fronte a una direzione del movimento da parte di quello:
«[…] questo non è il nostro Stato e dobbiamo essere indipendenti di fronte ad esso. In questo senso, non ci opponiamo al capitalismo di Stato in Messico; ma la prima cosa che rivendichiamo è la nostra propria rappresentazione come lavoratori di fronte allo Stato»[37].
E ciò valeva sia contro gli sterili declamatori dell’azione diretta contro lo Stato nazionalista borghese, sia contro coloro che pensavano di impossessarsi di esso dall’interno, attraverso la partecipazione degli operai all’amministrazione delle imprese nazionalizzate: «Non si può prendere il potere per questa via pacifica – allertava Trotsky – È un sogno da piccoloborghesi».
Conclusioni (necessariamente provvisorie)
Crediamo che lo studio fatto da Trotsky sul nazionalismo borghese di Cárdenas e il suo regime bonapartista sui generis debba, con gli opportuni adattamenti, essere utilizzato per inquadrare il regime chavista e comprendere quale atteggiamento debbano assumere di fronte ad esso i rivoluzionari. Certamente, le condizioni nazionali e internazionali che viveva il Messico di allora, e che vive il Venezuela di oggi, sono molto mutate. Il nazionalismo borghese di Chávez (neanche a parlare di quello di Maduro!), così come fu quello di Cárdenas, è tutt’altro che la realizzazione del socialismo, e non è nemmeno la sua anticamera. Peraltro, come abbiamo visto, le misure adottate da Chávez non somigliano neanche lontanamente alle espropriazioni realizzate da Cárdenas. Ma, a dispetto delle differenze, entrambi hanno agito entro i limiti del sistema capitalista, conservandone integralmente la struttura: entrambi hanno realizzato un capitalismo di Stato.
E allora, al termine di questo necessariamente lungo excursus, crediamo di poter giungere a talune, sia pure necessariamente provvisorie, conclusioni: provvisorie perché un’analisi scientifica di una situazione come quella venezuelana, utilizzando il metodo marxista, presuppone uno studio cauto sulle condizioni date, osservando le tendenze sulla base dei rapporti di forza esistenti e a partire da essi, altrimenti si cade nell’impressionismo e nell’avventurismo. È il caso, ad esempio, del minacciato intervento militare statunitense. In questo momento, come abbiamo già specificato, non sembrano sussistere le concrete condizioni perché questa sia un’ipotesi attuale. Poi, come dovrebbe essere chiaro a tutti, ove dovessero mutare quelle condizioni, potremmo trovarci di fronte a uno scenario diverso. E non dubitiamo che quegli stessi impressionisti e avventuristi direbbero: “Visto? Avevamo ragione noi” … Come peraltro fanno quelli che, tutti entusiasti, dichiarano al mondo intero che per due volte al giorno l’orologio rotto ha segnato l’ora esatta che loro avevano previsto.
Ma conclusioni provvisorie non vuol dire conclusioni estemporanee. A nostro avviso, in questo momento, la tendenza in Venezuela pare dirigersi verso la stabilizzazione. Lo scenario internazionale non depone affatto per una concretizzazione delle smargiassate di Trump. A livello nazionale, il marchingegno costituzionale ideato da Maduro indirizza il Paese verso una maggiore bonapartizzazione del regime, con minori spazi di democrazia (borghese) per l’opposizione della Mud[38]. Se non dovessero nel frattempo esserci importanti rivolgimenti – per i quali, allo stato, non è possibile fare previsioni – una nuova valutazione andrà fatta in autunno, quando si terranno le elezioni regionali che il governo Maduro ha sempre rinviato per evitare un consolidamento e un approfondimento della propria sconfitta elettorale già maturata nel dicembre 2015: e, naturalmente, qualsiasi risultato dovesse uscire dalle urne, dovrà essere letto alla luce della nuova architettura costituzionale partorita da un’assemblea costituente postasi al di sopra dei poteri che promanano dalla Costituzione chavista contraddittoriamente pur sempre in vigore.
Il dramma del Venezuela – un Paese che si dibatte nell’agonia di un’illusione, l’illusione cioè che si possa instaurare un nuovo regime sociale senza rovesciare il capitalismo – sta anche nel fatto che il chavismo ha fatto in tutti questi anni terra bruciata rispetto ad ogni possibile opposizione alla sua sinistra, complice la capitolazione a Chávez, e al suo “socialismo del XXI secolo”, della sinistra internazionale (e persino di molte correnti che si richiamano al trotskismo): la polarizzazione tra un regime sempre più dispotico e una destra innervata da settori fascisti è il frutto amaro di questa politica di capitolazione in cui una parte importante dei dirigenti del movimento operaio venezuelano ha sacrificato la prospettiva rivoluzionaria per integrarsi nel Psuv e nei sindacati di regime, pensando che fosse possibile, come denunciava Trotsky, impossessarsi dello Stato dall’interno, e rinunciando di fatto al suo ruolo di direzione: consegnando così mani e piedi se stessa e la classe lavoratrice alla burocrazia chavista.
La situazione da cui oggi debbono ripartire i rivoluzionari è estremamente difficile, ma non si sviluppa in un panorama desertificato. Alcuni settori del c.d. “chavismo critico”, dei chavisti che hanno rotto col governo, del movimento operaio venezuelano, della sinistra democratica e autonoma, stanno emergendo in opposizione al regime, e tra essi va allacciata un’interlocuzione. È necessario che le differenze non siano di ostacolo alla creazione di un fronte unico che miri a dialogare con la base operaia e popolare del chavismo e a sottrarre fette sempre più grandi della classe lavoratrice all’influenza di quello stesso chavismo che le sta condannando alla passività di fronte allo scontro tra due borghesie che, in rappresentanza di interessi contrapposti, puntano ad avere il governo dello Stato per gestire le enormi risorse di cui il Venezuela dispone. Solo sviluppando questa politica, sarà possibile canalizzare lo scontento del popolo chavista e di settori con inclinazioni di sinistra strappandoli alla possibile influenza della Mud. Una grande responsabilità incombe anche sulla sinistra rivoluzionaria internazionale, che deve sostenere lo sforzo di unificazione di quei settori perché, riprendendo gli insegnamenti di Trotsky, lottino per affermare, anche da posizioni estremamente minoritarie, l’indipendenza di classe del movimento operaio e la democrazia operaia.
Negli scritti che abbiamo più volte citato, il vecchio Trotsky, nell’enunciare le possibilità rivoluzionarie che possono aprirsi dal lavoro all’interno degli organismi di amministrazione delle imprese nazionalizzate, si chiedeva se in ultima analisi sarebbe stato il capitalismo di Stato attraverso i suoi sindacati controllati a contenere gli operai, sfruttarli crudelmente e paralizzarne la resistenza; oppure gli operai stessi dalle loro posizioni nei rami industriali nazionalizzati a portare l’attacco contro le forze del capitale e dello Stato borghese. E rispondeva, nell’impossibilità di predirlo, che tutto sarebbe dipeso dalla lotta delle differenti tendenze della classe operaia, dall’esperienza dei lavoratori e dalla situazione mondiale. Ma – aggiungeva – in ogni caso, per utilizzare questa forma di attività nell’interesse dei lavoratori e non della burocrazia, è necessario un partito marxista rivoluzionario che, studiando attentamente tutte le forme di attività della classe operaia, ne critichi ogni deviazione, educhi e organizzi i lavoratori, guadagnando influenza nei sindacati e assicurando una rappresentazione operaia rivoluzionaria nell’industria nazionalizzata.
Lo stesso può dirsi del Venezuela di oggi, dove manca del tutto quel partito e dove perciò è sterile accademicismo avventurista e impressionista – oltre a rappresentare un’oggettiva complicità con la destra reazionaria della Mud – agitare la parola d’ordine della cacciata di Maduro; né quel partito esisterà mai se si darà invece sostegno politico al governo chavista rafforzandone le tendenze bonapartiste e sempre più autoritarie.
L’unica politica concreta che oggi possono elaborare e sviluppare i rivoluzionari è, nelle difficoltà della situazione nazionale e internazionale descritta, gettare le basi per la costruzione – a partire da quei settori della sinistra venezuelana cui abbiamo accennato – del partito rivoluzionario.
[*] L’articolo, in realtà, è il frutto di un’approfondita discussione all’interno del Collettivo “Assalto al cielo”, non solo sulla tesi portata avanti da chi lo ha firmato, ma anche sul materiale di ricerca e teorico che lo fondamenta.
Note
[1] La Mesa de la Unidad Democrática – che poi tanto “opposizione” non è, visto che dispone della maggioranza parlamentare – è una coalizione molto ampia di diversi partiti che vanno dalla democrazia cristiana, al liberalismo, al socialismo democratico, al cristianesimo sociale, al progressismo, al sindacalismo socialista, all’ambientalismo. Solo alcuni di essi esprimono il radicalismo reazionario della più becera borghesia venezuelana direttamente legata agli interessi di quella statunitense.
[2] Ma che più accuratamente Marx definiva “socialisti borghesi”. Parliamo qui di coloro che negli anni hanno sempre individuato a livello internazionale un riferimento da sbandierare, forse per contrastare la propria crescente irrilevanza politica: pensiamo, ad esempio, a Rifondazione comunista, che di volta in volta ha assunto come propri “vessilli” Jospin, Lula, Lafontaine, Chávez, fino a Tsipras.
[3] Un esempio di queste è la Lit, che pone al centro del proprio programma politico per il Venezuela la parola d’ordine della cacciata di Maduro.
[4] «La diminuzione della povertà è uno dei pilastri della gestione di Hugo Chávez», dichiarava senza mezzi termini un articolo della BBC (“Entre los números y la realidad”, alla pagina https://tinyurl.com/y87uk8j).
[5] Nell’attuale governo Maduro, 11 ministri su 32 sono membri delle forze armate. Gli Stati di Carabobo, Apure, Bolívar, Guárico, Zulia, Yaracuy, Trujillo, Nueva Esparta, Portuguesa, Vargas e Táchira hanno militari come governatori. La presenza militare in Pdvsa è aumentata dall’inizio di quest’anno. La Fanb (Forza armata nazionale bolivariana) dirige e controlla tutta una serie di imprese: la banca BanFanb, l’impresa agricola AgroFanb, quella dei trasporti Emiltra, delle comunicazioni EmcoFanb, il canale televisivo TvFanb, l’impresa mista di progetti di tecnologia Tecnomar, il fondo d’investimento Fimnp, l’impresa di costruzioni ConstruFanb, l’impresa mista CancorFanb, delle acque minerali Água Tiuna, nonché la Caminpeg, una compagnia anonima di industrie minerali, petrolifere e del gas, creata nel febbraio 2016 e che passa per essere una Pdvsa parallela. Poco tempo fa, Maduro ha promosso in un solo giorno 195 ufficiali al rango di generali: i più di 2.000 generali esistenti godono di enormi privilegi, come favorevoli tassi di cambio dei dollari, oltre a controllare il sistema di distribuzione dei generi alimentari. Il generale Vladimir Padrino López, attuale ministro della Difesa, fra i suoi poteri ha quello di controllare i porti del Paese e settori delle industrie minerarie e petrolifere.
[6] È fin troppo famoso un discorso pronunciato il 24 marzo 2007 al Teatro Teresa Carreño, in cui Chávez si pronunciò contro l’autonomia sindacale con le parole: «I sindacati non devono essere autonomi, bisogna finirla con questa storia!».
[7] E i negoziati sono proseguiti anche durante la presidenza Maduro: nel giugno 2015, Diosdado Cabello, il più “illustre” rappresentante della boliborghesia venezuelana, già membro delle forze armate e numero due del partito unico e del regime, si incontrò con Thomas Shannon, consigliere del Dipartimento di Stato Usa, «con l’intenzione di normalizzare le relazioni diplomatiche nel rispetto della legislazione internazionale, la sovranità e l’autodeterminazione dei popoli» (https://tinyurl.com/ybtctakh). Proprio in questi giorni, Maduro ha dato disposizioni al suo ministro degli Esteri, Jorge Arreaza, di organizzare un incontro con il presidente Usa, Donald Trump, allo scopo di instaurare buone relazioni col Paese nordamericano e discutere della situazione del Venezuela (https://tinyurl.com/ybw78bn4).
[8] Tanto che, oggi, il Venezuela è il terzo fornitore di greggio degli Stati Uniti.
[9] L’art. 115 della Costituzione venezuelana garantisce il diritto di proprietà e la possibilità di espropriazione solo pagando un “giusto indennizzo”. L’art. 113 garantisce l’iniziativa privata nello sfruttamento delle risorse naturali e nei servizi pubblici: è ciò che rende possibile alle multinazionali imperialiste Chevron o Exxon‑Mobil di controllare il 40% della produzione ed esportazione di petrolio. Nel settore automobilistico tale quota sale fino a oltre il 90%.
[10] “Avanza il controllo statale sui sindacati in Venezuela”, alla pagina https://tinyurl.com/y9k6t98f.
[11] “Informe sobre el derecho a la libertad sindical en Venezuela presentado a la Comisión Interamericana de Derechos Humanos”, all’indirizzo https://tinyurl.com/y792sasc.
[12] Benché non siano certo il carisma personale o l’autorevolezza le qualità politiche da tenere presenti in un’analisi di classe.
[13] Si è così verificato il paradosso di un regime che ritiene “superata” la Costituzione da esso stesso varata e di un’opposizione che, dopo averla “subita” è scesa in piazza per difenderla!
[14] Solo di passata, ci piace evidenziare come un’organizzazione della sinistra che si richiama al trotskismo come la Lit, che ha costruito tutta la sua politica per il Brasile negando l’esistenza di un golpe parlamentare che la destra ha messo in atto per sostituire Dilma Rousseff con Michel Temer, oggi gridi al golpe istituzionale posto in essere da Maduro … Potremmo definirla la via schizofrenica al socialismo!
[15] Non sappiamo se l’anomalo procedimento possa preludere all’allungamento di un anno del mandato presidenziale di Maduro.
[16] D’altronde, a sconfessare la tesi dell’embargo – ad esempio, da parte dell’imperialismo statunitense – basta soffermarsi sulle tabelle dell’import‑export Usa/Venezuela, da cui emerge che, sia durante la presidenza Chávez, sia sotto quella Maduro, i rapporti commerciali in materia di commodities tra i due Paesi sono sempre stati costanti, al di là dell’oscillazione dei prezzi del petrolio. Non a caso, il The New York Times ha allertato sulle negative conseguenze per l’economia e la politica estera stessa degli Usa, nel caso si decidesse di sospendere le forniture di greggio venezuelano (“Estados Unidos podría resentir las sanciones contra Venezuela”, 27/7/2017, all’indirizzo https://tinyurl.com/yc3swxrq).
[17] Lo sbilanciamento sulle politiche estrattive implica risentire poi le conseguenze dell’andamento dei prezzi del petrolio. La Pdvsa stessa ha informato che nel 2016 le sue entrate – che rappresentano il 96% di quelle dell’intero Paese! – sono diminuite del 33,5% rispetto all’anno precedente: 48 miliardi di dollari rispetto ai 72,17 del 2015 e ai 121,89 del 2014; mentre i profitti netti sono stati nell’ordine degli 828 milioni di dollari nel 2016, a fronte dei 7,34 miliardi del 2015 e dei 9,07 miliardi del 2014 (https://tinyurl.com/y8skzqcg).
[18] Il carattere redditiero (totalmente dipendente dall’esportazione del petrolio) dell’economia venezuelana ha favorito il forte processo di deindustrializzazione, tanto che nel 2013, il Pil manifatturiero rappresentava solo meno del 10% del Pil totale (nel 1986 raggiungeva quasi il 20%): http://ref.scielo.org/rmm838.
[19] I dati della produzione agricola sono catastrofici: nel dicembre 2016, si è calcolato che essa è in costante discesa dagli otto anni precedenti e che attualmente soddisfa solo tra il 10 e il 45% delle necessità della popolazione. In precedenza, la caduta della produzione non era così evidente, perché il governo sopperiva alla mancanza di prodotto con le importazioni. Ma da quando l’entità di queste è a sua volta crollata, è risultato evidente il collasso del settore agricolo e la sua incapacità di soddisfare le esigenze di consumo a causa delle politiche governative sbagliate.
[20] “La ‘opción militar’ de Trump podría beneficiar a Maduro”, all’indirizzo https://tinyurl.com/y8uffenn.
[21] “EEUU: Gobierno venezolano donó $500.000 para la toma de posesión de Donald Trump a través de Citgo”, alla pagina https://www.aporrea.org/tiburon/n307237.html.
[22] Https://tinyurl.com/yczqvmf4.
[23] Https://tinyurl.com/y8uoy3ka.
[24] L. Trotsky, “La industria nacionalizada y la administración obrera”, in Escritos latinoamericanos, Ceip “León Trotsky”, 2007, p. 170.
[25] L. Trotsky, “Los sindicatos en la era de la decadencia imperialista”, ivi, pp. 179 e s.
[26] In realtà, Trotsky ha utilizzato il termine “bonapartismo sui generis” associandolo indistintamente ai concetti di “governo” e “regime”, ma pare più corretto riferire la definizione al concetto di “regime”.
[27] L. Trotsky, op. ult. cit., pp. 182‑183.
[28] Basti pensare che la semplice minaccia da parte dell’Urss di entrare militarmente a fianco dell’Egitto nel conflitto armato che era scoppiato a seguito della crisi di Suez indusse Regno Unito e Francia a porvi fine, abbandonando le proprie mire sul Sinai.
[29] Vestendosi da finti ingenui, taluni dirigenti di questa tendenza cercano di respingere sdegnosamente tale accusa. Ma invano! Perché, in assenza delle condizioni per una rivoluzione socialista in Venezuela – come poi vedremo – la parola d’ordine della cacciata di Maduro è capitalizzata dalla destra che egemonizza le piazze: sicché, agitandola, ci si colloca oggettivamente nel campo di quest’ultima, condividendone con essa lo slogan.
[30] L. Trotsky, “México y el imperialismo británico”, ivi, pp. 94‑95.
[31] L. Trotsky, “La industria nacionalizada …” cit., ivi, p. 171.
[32] «In Messico è il compito più importante: liberare i sindacati dalla propria burocrazia, liberare gli operai dalla dittatura dei burocrati sindacali. Questa è la democrazia operaia. È necessario sottolineare il fatto che oggi i sindacati non possono essere sindacati democratici nel vecchio senso del termine. Gli imperialisti non possono tollerarlo. […] in Messico sono, o strumenti della borghesia imperialista, oppure organizzazioni rivoluzionarie contro la borghesia imperialista. Perciò noi cominciamo … con parole d’ordine come: indipendenza rispetto allo Stato, democrazia operaia, libera discussione, ecc. Ma sono solo parole d’ordine transitorie, che conducono a parole d’ordine più importanti dello Stato operaio. Si tratta solo di una tappa che può darci la possibilità di rimpiazzare le attuali direzioni dei sindacati con una direzione rivoluzionaria» (L. Trotsky, “Discusión sobre América Latina”, in op. cit., p. 143).
[33] Ivi, pp. 133‑135.
[34] Ibidem.
[35] L. Trotsky, “Problemas de la sección mexicana”, in op. cit., p. 150.
[36] L. Trotsky, “Discusión …” cit., in op. cit., p. 144.
[37] L. Trotsky, ibidem.
[38] Basti pensare al fatto che l’assemblea costituente, con proprio decreto, ha di fatto usurpato il potere legislativo spettante al parlamento, autoassegnandoselo.