Il Brasile, il golpe e l’arresto di Lula spiegati a mio nonno
La traiettoria del lulismo e la prospettiva per il movimento operaio
Valerio Torre
«Come giungerà il proletariato alla comprensione soggettiva del compito storico che gli pone la sua situazione oggettiva?
Se il proletariato come classe fosse capace di comprendere da subito il suo compito storico, non sarebbero necessari né il partito né i sindacati: la rivoluzione proletaria sarebbe sorta insieme al proletariato. Al contrario, il processo attraverso cui il proletariato comprende la sua missione storica è lungo e penoso, ed è segnato da contraddizioni interne.
Solo attraverso prolungate lotte, dure prove, tanti errori e una larga esperienza, la concezione corretta delle strade e dei metodi di sviluppo vengono assimilati dai migliori elementi che formano l’avanguardia della classe operaia»
(L. Trotsky, “Una spiegazione necessaria ai sindacalisti comunisti”, 12 aprile 1923)
Un chiarimento preliminare dell’autore
Mio nonno era un piccolissimo artigiano del legno, un maestro d’ascia: costruiva barche. Era proprietario solo della sua cassetta degli attrezzi che, quand’era più giovane, si caricava in spalla per andare a lavorare in un modesto cantiere, dopo aver percorso a piedi svariati chilometri. Ha costruito barche in legno fino all’età di novant’anni con le nude mani e la falange di un dito in meno, troncata di netto dalla sua stessa sega, ed è passato attraverso due guerre mondiali, la fame e la miseria, con cinque figli lasciatigli in eredità da una moglie scomparsa troppo presto.
Da piccolo, passavo molte ore a guardarlo all’opera, ammirato dalla maestria con cui dal legno grezzo faceva nascere quelle imbarcazioni da pescatori. Gli parlavo mentre lui lavorava, e gli raccontavo quello che – eravamo all’incirca a metà degli anni 60 – era importante ai miei occhi ingenui di bambino. Ricordo, ad esempio, che, dopo aver visto qualche film sul vecchio West, cercavo di spiegargli chi fossero i cow‑boy. E non era semplice, perché mio nonno era un uomo dell’Ottocento italiano, che dell’America aveva sentito parlare solo quando qualche suo coetaneo era costretto ad andarci per emigrare. Ma mi sforzavo comunque di trovare le parole più semplici per farglielo capire. Non so se io ci sia mai riuscito. Non so se mio nonno annuisse per condiscendenza.
* * *
Dalle analisi con cui diverse organizzazioni della sinistra italiana hanno spiegato quanto è accaduto e sta accadendo in Brasile, mi sono reso conto che le letture che di quella realtà vengono fornite sono basate, non su un quadro d’insieme, ma su elementi frammentari: ogni articolo, quando viene pubblicato, dà per scontato che il lettore – sia esso un militante della sinistra, oppure un semplice curioso che si interessa dell’America Latina – abbia presenti gli antefatti, prodottisi molti anni prima, che hanno portato alla situazione che viene esposta. Per di più, da quanto ho potuto verificare, ho rinvenuto, nella traduzione italiana della realtà brasiliana, due ricostruzioni opposte, simmetricamente sbagliate a mio avviso, del lulismo e della sua traiettoria nei quattordici anni di suoi governi.
Ho provato quindi, nello scritto che segue, a ripercorrere questo lasso di tempo soffermandomi in particolare sugli ultimi anni e sugli eventi che hanno portato alla destituzione di Dilma Rousseff e all’arresto di Lula. E ho cercato di farlo con lo stesso spirito di quando parlavo a mio nonno dei cow‑boy e delle praterie del vecchio West. Non perché io supponga di rivolgermi a lettori sprovveduti: no, sarei un presuntuoso. Ma per provare a fornire quel quadro d’insieme che manca in altre analisi.
E proprio per questa ragione, la redazione di questo Blog ha anche deciso di pubblicare il testo tutto insieme e non in più parti, nonostante la lunghezza consigliasse di farlo, presentandolo perciò così com’è.
Mi auguro che questa scelta non sfidi la pazienza dei lettori. Così come mi auguro di essere riuscito nell’impresa di risultare chiaro. Più di quanto sia stato capace di fare con mio nonno.
L’ascesa di Lula al governo e i suoi due mandati
Quando, nel gennaio del 2011, Lula lasciò la presidenza del Paese dopo aver compiuto il suo secondo mandato, godeva – fatto unico, più che raro – del 87% del consenso popolare. Due anni prima, nel 2009, il presidente degli Usa, Barack Obama, lo aveva definito «il politico più popolare della Terra»[1]. Aveva assunto l’incarico quando l’economia brasiliana era la tredicesima nel mondo: nel 2015, sotto il mandato di Dilma Rousseff – che egli aveva imposto quale suo successore – l’economia del Brasile era ascesa al nono posto.
Benché Lula abbia applicato, addirittura con maggior zelo, le politiche richieste dal Fmi[2], una particolare e favorevole congiuntura spinse la situazione economica globale del Paese verso un notevole miglioramento. Infatti, l’aumento della domanda mondiale (dovuto, in particolare, a quella cinese), unito al boom delle materie prime e al forte afflusso di investimenti esteri, determinò un’importante crescita dell’economia del Brasile: il Pil, che nel 2002 – ultimo anno del governo Cardoso – era cresciuto del 3,1%, aumentò durante il mandato Lula del 4% nel 2006 e del 7,5 nel 2010. A prezzi correnti, nel 2011, il Pil brasiliano è stato il sesto al mondo (2.520 miliardi di dollari, contro i 2.480 della Gran Bretagna e i 2.276 dell’Italia) e, a parità di potere d’acquisto, il settimo con 2.260 miliardi di dollari. L’inflazione, che nel 2002 era al 12,5%, scese nel 2010 al 5,1%. Con riferimento a questi stessi anni, il tasso di disoccupazione passò dal 10,5% al 5,7%, con un aumento di 21 milioni di posti di lavoro nel decennio degli anni 2000[3].
Inoltre, il salario minimo registrò una crescita significativa, mentre l’incremento delle entrate fornì al governo le risorse per lanciare quei piani sociali – “Fome Zero”, “Minha casa, minha vida”, “Bolsa Família”[4] – che hanno permesso una importante diminuzione del tasso di povertà assoluta[5] dal 26,7% nel 2002 al 15,3% nel 2009: di conseguenza, circa 26 milioni di brasiliani uscirono dal livello di povertà. Anche la disuguaglianza, misurata con l’indice Gini[6], scese dallo 0,6 nel 2002 allo 0,54 nel 2009, benché in termini relativi si sia mantenuta ad alti livelli, in Brasile così come in quasi tutti i Paesi dell’America Latina.
Completarono il quadro della mutata situazione economica brasiliana: l’aumento, a partire dal 2005, degli investimenti statali nell’istruzione, che produsse un ampliamento considerevole della popolazione studentesca, favorendo in particolare le famiglie meno abbienti che mai avrebbero potuto mandare i propri figli alle scuole superiori e addirittura all’università; e una maggiore facilitazione per l’accesso al credito, che fece crescere la platea dei “consumatori”, favorendo l’ingresso nel mercato dei beni durevoli (casa, automobile, elettrodomestici) di quei settori che prima ne erano esclusi in ragione della loro condizione economica.
Tutto ciò portò, soprattutto durante il primo mandato di Lula, all’aumento di un modesto benessere per fasce sempre più ampie di masse popolari, determinando un’ulteriore crescita del suo consenso, nonostante i grandi scandali per corruzione che investirono il suo governo, ma dai quali egli fu appena sfiorato[7]. Nel complesso, era cresciuta la generale sensazione di un miglioramento con i governi del Pt in coincidenza con gli anni di crescita economica: una sensazione che si fondava sull’immagine di un’economia controllata, con un diffuso aumento del tenore di vita di ampi settori della popolazione che potevano, rispetto a prima e grazie al credito concesso, comprare una casa, un’automobile, gli elettrodomestici.
In realtà, però, il lulismo aveva mantenuto del tutto inalterato il modello neoliberale, dandogli semmai un tono “sviluppista”, tant’è che del netto miglioramento della situazione economica le classi subalterne ricevettero solo le briciole. Chi invece ne beneficiò realmente, facendo profitti in misura spettacolare, fu la borghesia. Era questo il tributo che, a spese dei lavoratori e del popolo brasiliano, Lula e il Pt dovevano pagarle per averne ottenuto il sostegno e il consenso a governare. E Lula stesso non si fece scrupolo di confessarlo candidamente: «Se c’è una cosa di cui nessun imprenditore brasiliano può lamentarsi nei miei sei anni di mandato è che mai sono stati guadagnati tanti soldi come nel mio governo»[8].
I profitti del sistema finanziario brasiliano nei due mandati di Fernando Henrique Cardoso (1995‑2002) furono di 95 miliardi di real: “noccioline”, rispetto a quelli realizzati durante il doppio mandato di Lula, 428 miliardi di real[9]. Inoltre, il rendimento delle banche raggiunse, nel 2012, il 16,8%. Per avere un termine di paragone, nello stesso periodo quello delle due maggiori banche statunitensi fu del 9,9%.
Il fatturato delle cinquecento più grandi imprese brasiliane, in undici anni di governo petista (otto di Lula e i primi tre di Dilma Rousseff), è stato di 15,4 trilioni di real[10]. Nel 2011, le loro vendite hanno rappresentato il 48% del Pil del Paese. Il 72% di questa ricchezza prodotta è andato a imprese e banche, il 19% allo Stato e solo il 9% ai lavoratori.
Il sistema economico dei governi a guida Pt si è basato in massima parte su esonero dal pagamento di imposte per il padronato e decontribuzioni, il cui montante è stato di 44 miliardi di real nel 2011, 72 miliardi nel 2012 e circa 91 miliardi nel 2013. Secondo calcoli dello stesso governo, le industrie favorite dalla decontribuzione avrebbero dovuto pagare all’Inss (l’istituto nazionale di previdenza brasiliano) 21,5 miliardi di real nel 2013, ma per effetto dei benefici fiscali hanno pagato solo 8,7 miliardi.
La borghesia è stata favorita anche dagli interventi sugli asset strategici del Paese: aste dei pozzi di petrolio; costruzioni di infrastrutture (principalmente idroelettriche e porti) in partnership con privati; concessioni di strade federali, settore elettrico e delle telecomunicazioni; privatizzazione di aeroporti; finanziamento di scuole superiori private; vendita delle partecipazioni in banche statali.
Le giornate di giugno 2013
Quando, nel gennaio 2011, Lula terminò l’incarico presidenziale passandolo nelle mani di Dilma Rousseff, le lasciò un’economia che andava a tutto vapore e che ancora non aveva risentito in pieno gli effetti della crisi economica mondiale scoppiata nel 2007‑2008. Eppure, già sul finire del secondo governo Lula iniziava a prodursi un rallentamento della crescita brasiliana: per questo egli aveva cominciato ad applicare, poco prima di lasciare definitivamente l’incarico presidenziale, una politica “ortodossa” di riduzione della spesa pubblica. Dilma Rousseff continuò su questa stessa strada, approfondendola ma anche restringendo il credito. Tuttavia, nonostante l’apprezzamento dei mercati internazionali per queste scelte[11], l’economia del Paese stava vistosamente rallentando.
Dopo una timida espansione nel 2011 (3,9%), il Pil sostanzialmente ristagnò nel 2014 (0,1%) per poi crollare nel 2015 (-3,8%)[12]. Il peso del contesto internazionale fu determinante, a partire dal rallentamento dell’economia cinese, dall’aspettativa (andata delusa) di un aumento dei tassi di interesse degli Usa e dal crollo dei prezzi delle commodities, in particolare soia e petrolio, prodotti centrali nelle esportazioni brasiliane. Il solo annuncio, poi, da parte della Banca centrale statunitense, della fine del quantitative easing provocò una ingente fuga di capitali[13], col conseguente crollo degli investimenti esteri. Il real si deprezzò in breve tempo, determinando l’aumento dell’inflazione: e per contenerla, le autorità monetarie brasiliane decisero l’aumento dei tassi di interesse, misura che però scoraggiò gli investitori nazionali, stroncò la domanda di credito al consumo e aggravò il debito pubblico. L’aumento di tasse già insostenibili per la stragrande maggioranza della popolazione fece scoppiare le gigantesche proteste del giugno 2013, che posero fine alla narrazione trionfalistica che proprio in quel periodo il petismo stava propagandando[14].
La scintilla che fece esplodere la protesta fu l’aumento di 20 centesimi di real[15] del prezzo di trasporti sovraffollati, lenti, inefficienti e pericolosi. Ma sin da subito gli argini della pura e semplice rivendicazione economica cedettero per sfociare nella messa in discussione delle istituzioni statali. Come spesso accade, infatti, dietro la relativa esiguità delle rivendicazioni immediate, era dissimulata la reale dimensione del malcontento popolare: un’insoddisfazione generalizzata che sfociò in una protesta con rivendicazioni di migliore qualità nell’offerta dei servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione, e contro l’alto livello di corruzione venuto alla luce soprattutto nella costruzione delle grandi opere e infrastrutture per la Coppa del Mondo del 2014 e le Olimpiadi del 2016, finanziate tagliando i bilanci dei servizi pubblici.
L’imprevista, gigantesca e montante ondata di proteste in tutto il Paese colse di sorpresa le istituzioni statali mettendole spalle al muro. La borghesia cercò in un primo momento di sminuire il senso della mobilitazione dileggiando i manifestanti: in risposta allo slogan che attraversava le manifestazioni – «Non è solo per 20 centesimi!» – un editorialista del conservatore telegiornale della Rede Globo non si fece scrupolo di affermare in un servizio televisivo: «I rivoltosi non valgono neanche 20 centesimi!».
Ma ben presto, quando i cortei divennero imponenti, occupando stabilmente le principali arterie del centro di tante grandi città, il tono delle classi dominanti cambiò. L’irrisione cedette il posto alla mano libera lasciata alla polizia militare perché reprimesse violentemente le proteste. Si distinse in questo il quotidiano Folha de S. Paulo, che in un duro editoriale[16] intimò alle forze dell’ordine di sloggiare senza indugio i manifestanti. E allora, la repressione si scatenò, ferocissima, contro i cortei che invadevano le strade e le piazze di centinaia di città brasiliane, raggiungendo il suo acme il 13 giugno, quando perfino molti giornalisti vennero arrestati o rimasero gravemente feriti.
Nei giorni seguenti, la reazione dei manifestanti all’azione repressiva delle forze dell’ordine si trasformò nella critica generalizzata al modello di sicurezza pubblica prevalente in Brasile, basato su truppe militarizzate di sorveglianza onnipresenti nelle strade e dedite a pratiche quotidiane arbitrarie e irrispettose persino dei diritti umani; ma si trattò, in realtà, di una reazione rabbiosa, cieca, priva di unità programmatica e organizzativa che potesse darle continuità, sicché inevitabilmente rifluì.
Ma non fu solo questa la ragione del riflusso. Ce n’erano altre che andremo di qui a poco ad analizzare. Prima di farlo, però, è necessario esaminare qual era la composizione di classe di quelle manifestazioni.
La proletarizzazione della classe media e la reazione della borghesia
Come abbiamo visto, i primi due governi Lula, con gli investimenti (benché minimi) su welfare, sanità e istruzione, e con l’ampliamento dei benefici dell’assistenza sociale, avevano determinato la riduzione della miseria, un significativo aumento della scolarizzazione e dell’istruzione superiore e l’accesso al mercato di settori sociali che prima ne erano esclusi; ma l’offerta di lavoro, anche durante l’ultimo ciclo espansivo prima della stagnazione economica, non aumentò il salario medio, né ridusse la rotatività di manodopera, né invertì la tendenza all’emigrazione, né infine ridusse la criminalità. E così pure, abbiamo visto che i salari di occupazioni di livello superiore ebbero un ritmo di lenta caduta, tanto che la differenza fra il salario medio di impieghi che richiedono un basso tasso di scolarità e quelli di scolarità media e superiore diminuì significativamente negli anni. In altri termini, la diseguaglianza salariale si ridusse sì, ma verso il basso.
Questo processo economico produsse in quegli anni, non già il sorgere di una robusta “nuova classe media”, come alcuni studi interessatamente sostenevano: al contrario, si verificò un importante fenomeno di proletarizzazione di ampi settori di classe media salariata. E, principalmente, furono proprio questi settori proletarizzati della società brasiliana (prevalentemente giovanili e ad elevato tasso di scolarizzazione) a scendere in piazza nel giugno del 2013 inscenando le gigantesche manifestazioni che attraversarono tutto il Paese[17] e dando corpo a un movimento spontaneo, di massa, che non aveva un programma definito, né unità organizzativa, ma che andò esprimendo l’insoddisfazione profonda di larghe fasce sociali: non verso il governo del Pt in particolare, ma verso l’insieme dell’ordine sociale.
Insomma, c’era il pericolo che questo diffuso sentimento si incanalasse pericolosamente su un versante “di sinistra”, mettendo a rischio la stabilità del regime stesso ed esponendolo a convulsioni dall’esito imprevedibile. Questo pericolo venne lucidamente percepito dalle classi dominanti, che cercarono il modo, non solo di governare, dirigere e finalmente depotenziare il processo, ma anche di liberarsi dell’incomodo di un esecutivo che non era direttamente “loro” e che cominciava a mostrarsi non all’altezza di amministrare nel loro esclusivo interesse la crisi che iniziava a far sentire i suoi effetti.
Fu per questo che la strategia della borghesia cambiò di registro[18].
Scesero in campo i grandi mezzi di comunicazione al servizio delle classi dominanti, che nel giro di poche ore mutarono il segno dei loro servizi giornalistici per creare la base di un consenso ideologico di massa utile a frenare l’impatto delle mobilitazioni svuotandole del significato antisistema che andavano assumendo. Questo risultato fu ottenuto attraverso una martellante campagna di stampa che, innanzitutto, divideva i manifestanti in “vandali” e cittadini “pacifici”, descrivendo le manifestazioni inscenate da questi ultimi come “atti civici” meritevoli di ascolto, e anzi dettandone addirittura l’agenda che doveva avere al centro la parola d’ordine della “lotta alla corruzione”. Il bombardamento mediatico in tal senso – “tutti i partiti sono corrotti”, “tutta la politica è corrotta” – produsse l’effetto di una “spoliticizzazione” delle proteste: entrarono in scena settori di massa, sia di classe media che di sottoproletariato, che manifestavano cantando l’inno nazionale, inalberavano la bandiera brasiliana e vietavano l’esposizione delle bandiere rosse e, in generale, dei simboli dei partiti di sinistra, fisicamente espulsi dai cortei da gruppi di fascisti. Nuove parole d’ordine risuonavano: «Abbasso i politici!», «Abbasso i partiti!», «Il mio partito è il Brasile!».
Il veleno della reazionaria ideologia antipartito sparso a piene mani dai media fu essenziale per disorganizzare politicamente le manifestazioni e non fu contrastato dalla classe operaia: che pure partecipava alle proteste, ma lo faceva nella condizione individuale di insieme di “cittadini” e non come classe portatrice di interessi antitetici e contrapposti a quelli delle classi dominanti.
Per completare il quadro, le istituzioni politiche decisero di “venire incontro” alle rivendicazioni originarie delle mobilitazioni, congelando gli aumenti tariffari.
Fu grazie a questo complesso di circostanze che le manifestazioni scemarono fino a rifluire del tutto.
Il pericolo era dunque stato scongiurato. La borghesia aveva ottenuto il risultato che si era prefisso, ma con un esito favorevole in più: il governo Dilma, che solo verso la metà del mese di marzo del 2013 godeva di un altissimo livello di consenso popolare (il 63% degli intervistati considerava il suo esecutivo ottimo o buono e il 79% approvava l’operato personale della presidente), in giugno vide precipitare quel consenso al 30%. Due settimane di proteste in tal modo eterodirette furono sufficienti a distruggere la popolarità di innumerevoli governi municipali e statali a guida Pt, oltre a quella del governo federale. Un significativo arretramento della coscienza politica di un vasto settore della classe lavoratrice nell’identificazione con l’azione politica del Pt si produsse quando le aspettative di una rilevante trasformazione sociale che in questo partito erano state riposte vennero frustrate dalla percezione del suo adeguamento al sistema di corruttele insito nel sistema brasiliano: e ciò, come abbiamo visto, ha rappresentato al contempo la base per quell’ideologia antipartito e anticorruzione costruita dalla martellante propaganda mediatica, su cui poi le classi dominanti hanno costruito il marchingegno giudiziario che ha aperto la strada all’impeachment e all’allontanamento dal governo di Dilma e all’arresto di Lula.
La destituzione di Dilma
Crediamo, sulla base di tutto quanto abbiamo sinora detto, che non sia possibile sospettarci di simpatie luliste. Se lo ribadiamo a questo punto del testo, è solo perché è da questo momento in poi che insorgono le divergenze nelle analisi che si fanno nella sinistra a proposito delle vicende brasiliane dal 2014 ai giorni nostri. Vediamo.
Nel marzo del 2014, la magistratura iniziò le indagini che diedero il via a un’operazione denominata “Lava Jato” (Autolavaggio), che avrebbe scosso dalle fondamenta l’universo politico brasiliano disvelando una gigantesca rete di corruzione che coinvolgeva l’impresa statale del petrolio, Petrobras, e grandi imprese di costruzione, come la Odebrecht. Dall’inchiesta è emerso un giro di tangenti del valore complessivo stimato in oltre 10 miliardi di real (circa 2,5 miliardi di euro).
Benché non sia mai risultato alcun coinvolgimento personale di Dilma Rousseff, è indubbio che le indagini siano state focalizzate principalmente sul suo partito, il Pt, a dispetto del fatto che le risultanze istruttorie facessero emergere responsabilità di politici e partiti sia della maggioranza che dell’opposizione. È apparso chiaro, in molte fasi dell’inchiesta, il tentativo forzato di coinvolgere, oltre a Lula, anche Dilma, oppure di utilizzare gli elementi di prova raccolti per spingere in direzione dell’impeachment della presidente[19].
D’altronde, quello di liberarsi di Dilma Rousseff, era l’obiettivo scoperto del Psdb[20], il partito che contro di lei aveva, alle elezioni del 2014, candidato Aécio Neves, risultato poi sconfitto per un esiguo margine. Ma subito dopo l’esito elettorale, il Psdb non riconobbe il risultato e chiese il riconteggio dei voti. Respinta questa richiesta da parte del Tribunal Superior Eleitoral (l’organo di giustizia che si occupa di processi elettorali), lo sconfitto convocò manifestazioni di piazza per protestare contro il riconoscimento dell’incarico a Dilma.
Le mobilitazioni furono di massa ed espressione della crescita di una destra virulentemente reazionaria, anticomunista, antidemocratica e antipopolare[21]: una crescita frutto di quell’ideologia antipolitica che, come abbiamo visto, era stata instillata dalla martellante campagna stampa dei grandi mezzi di comunicazione borghesi durante le giornate del giugno 2013 e ormai diventata senso comune in larghi settori della società, da un lato; dall’altro, prodotto delle incongruenze e contraddizioni del governo Dilma, che, continuando e approfondendo la politica di accordi e concessioni a politici conservatori e alla grande borghesia, promuovendo maggiori tagli ai bilanci dei servizi pubblici, garantendo i profitti del capitale finanziario e reprimendo le proteste dei movimenti, soprattutto in occasione dei Mondiali di calcio e dei Giochi olimpici, assestò un ulteriore colpo a quella coscienza di “essere di sinistra” che costituiva la base di massa del Pt.
Fu così che, quando lungo il 2015, le strade si riempirono di orde reazionarie che reclamavano l’allontanamento di Dilma dal governo, non ci fu nessuna risposta popolare, soprattutto per il disorientamento indotto dalle burocrazie politiche e sindacali legate a lei e al suo partito, che non vollero affatto convocare manifestazioni di segno contrario nella prospettiva del negoziato permanente con l’opposizione. Un’opposizione che, invece, non aveva alcuna voglia di negoziare poiché sentiva sempre più forte l’odore del potere.
Questo fu il clima sociale che si era determinato quando il Tribunal de Contas da União – l’equivalente della nostra Corte dei Conti – fece dei rilievi, tutto sommato veniali, alle modalità con cui l’esecutivo aveva predisposto il bilancio dello Stato federale. Ma ciò bastò perché si spalancassero le porte di un procedimento di impeachment rapidamente introdotto e autorizzato anche da una parte della coalizione che sosteneva il governo Dilma.
L’inatteso assist fornito dal Tribunal de Contas – per quanto zoppicante, discutibile e ambiguo – servì ad agglutinare le forze necessarie per portare avanti il processo che sarebbe culminato poi nella deposizione della presidente e la sua sostituzione con l’ex alleato, il vicepresidente Michel Temer.
Fu un golpe?
In seno alla sinistra brasiliana si aprì subito un dibattito, se cioè quello che aveva portato alla defenestrazione di Dilma Rousseff fosse o meno un golpe. Una parte – per vero estremamente minoritaria – ha sostenuto (e ancora sostiene) che non si trattò di golpe, ma di uno scontro tutto interborghese, anche perché non c’era stato alcun intervento militare (circostanza che, sola, legittimerebbe, secondo questo settore, l’utilizzo di tale categoria), e poi perché si era trattato di un meccanismo previsto dall’ordinamento giuridico brasiliano, per il quale erano stati rispettati tutti i passaggi dettati dalla legge.
Ci soffermeremo più avanti sulle posizioni specifiche di questa parte della sinistra, analizzandole approfonditamente. Per il momento, intendiamo esaminare invece la più generale categoria di golpe, partendo in particolare dal secondo argomento utilizzato da coloro che ne negano l’occorrenza nel caso di Dilma.
Si sostiene che sia stata osservata scrupolosamente tutta la ritualità ordinamentale: fu presentata una denuncia al presidente della Camera dei Deputati, essa venne calendarizzata, si formò una commissione che decise di dare seguito al processo, la Camera in seduta plenaria la approvò e la rinviò al Senato, e così via; in ogni passaggio, ci fu spazio per i rappresentanti dell’accusa e della difesa; il Supremo Tribunale Federale, custode della Costituzione, vigilò su tutto il procedimento. Dove sarebbe il golpe?
Il fatto è che, ragionando in questi termini, si bada solo all’aspetto formale della questione, e cioè si cade nel formalismo. Prendiamo, ad esempio, il caso di Cesare Battisti, l’ex terrorista condannato con sentenza definitiva per quattro omicidi e oggi considerato latitante proprio in Brasile. Chi lo accusa si sofferma sull’osservanza scrupolosa dei tre gradi di giudizio. Eppure, c’è – e noi tra quelli – chi lo considera condannato senza alcuna prova. Dunque, sulla base di una visione formalistica del caso Battisti, non c’è discussione: le sentenze sono passate in giudicato e il condannato dovrà scontare la sua pena. Noi riteniamo, invece, che manchino del tutto le prove della sua colpevolezza, perché quelle portate in tribunale non possono essere considerate tali, né gli indizi possono essere ritenuti gravi, precisi e concordanti.
Torniamo al caso di Dilma. Innanzitutto, va considerato che l’accusa di manipolazione del bilancio dello Stato riguarda un episodio che si riferisce al suo primo mandato. Eppure, tutto il procedimento è iniziato durante il successivo. Trattandosi di un procedimento politico, e non giudiziario (benché abbia veste formale giuridica e debba avere ad oggetto reati contro lo Stato), sembra evidente la forzatura, quasi vi fosse una sorta di ultrattività del mandato.
Ma c’è un altro problema, e riguarda ciò di cui Dilma Rousseff è stata accusata, che i giuristi più accreditati non ritengono configurare una condotta connotata dall’antigiuridicità necessaria per avviare un procedimento di impeachment (crime de responsabilidade)[22]. In realtà, se la Camera ha introdotto l’azione contro la presidente, è perché la maggioranza che la sosteneva si è sfaldata: un pezzo, quello di cui era espressione il vicepresidente Temer, ha “cambiato casacca”, allineandosi con l’opposizione che non aveva mai riconosciuto la vittoria di stretta misura di Dilma.
Quanto, invece, al primo argomento – e cioè l’essere mancato qualsiasi tipo di intervento militare nella vicenda per lo spossessamento della presidente – va brevemente osservato che, come ha acutamente dimostrato Alvaro Bianchi[23], benché il golpe militare sia stata la forma “tipica” cui abbiamo assistito durante il XX secolo, per la comprensione della realtà odierna devono viceversa risultare chiari:
«[…] il protagonista di ciò che viene definito “coup d’état”, i mezzi che caratterizzano l’azione e i fini perseguiti. Il soggetto del colpo di stato moderno è […] una frazione della burocrazia statale. Il colpo di stato non è un golpe nello Stato o contro lo Stato. Il suo protagonista si trova all’interno dello stesso Stato, potendo essere, perfino, lo stesso governante[24]. I mezzi sono eccezionali, cioè, non sono caratteristici del funzionamento regolare delle istituzioni politiche. Tali mezzi si caratterizzano per l’eccezionalità dei procedimenti e delle risorse messe in atto. Il fine è il mutamento istituzionale, una alterazione radicale nella distribuzione di potere fra le istituzioni politiche, con la sostituzione o meno dei governanti. Sinteticamente, colpo di stato è un cambiamento istituzionale promosso sotto la direzione di una frazione dell’apparato dello Stato che utilizza a tale scopo misure e risorse eccezionali che non appartengono alle regole usuali del gioco politico».
Proprio perché deve risultare chiaro qual è “il protagonista di ciò che viene definito ‘coup d’état’”, si può dare o meno la possibilità che esso sia oppure no rappresentato dalle forze armate, dal momento che l’uso della forza, in particolare quella militare, non è una componente necessaria per la definizione di colpo di stato: la violazione delle “regole usuali del gioco politico” può essere posta in essere per altre strade. Ecco perché, secondo molti politologi, perché ci sia un golpe non sono necessari l’appoggio e l’azione positiva delle forze armate, che possono invece mostrare neutralità o addirittura passività. In altri termini, quello militare è solo una modalità di golpe, che si verifica quando si manifesta con l’uso delle armi e della forza; mentre possono darsi ipotesi di golpe giudiziario, quando vengono usati precetti e cavilli legali per rovesciare un governo; o di golpe parlamentare, quando è una coalizione parlamentare a raggiungere quest’obiettivo[25].
D’altronde, in tempi recenti abbiamo avuto almeno due casi di golpe parlamentare o parlamentare‑giudiziario: quello in Paraguay contro Lugo nel 2012 e quello in Honduras contro Zelaya nel 2009. Ma su entrambi questi episodi, come su altri, ci soffermeremo più oltre nel testo.
Nel caso della deposizione di Dilma Rousseff, si può allora concludere con certezza che vi fu un uso opportunistico del procedimento previsto dall’ordinamento allo scopo di realizzare l’obiettivo ipotizzato sin dall’esito elettorale che aveva visto la riconferma di Dilma: e cioè, la sua esautorazione. Per farlo, venne messo in campo un insieme di elementi che puntavano tutti allo stesso fine: procedimenti legali per il riconteggio dei voti, l’uso della piazza, i grandi mezzi di comunicazione, e infine, quando emerse la giustificazione “accettabile” inopinatamente offerta dalla giurisprudenza contabile, il procedimento di impeachment previo il cambio di casacca di una parte della coalizione di maggioranza[26].
In questo senso, sì, quello contro Dilma Rousseff fu un golpe.
Le ragioni del golpe
Perché questa puntigliosità argomentativa per definire “golpe” la manovra che portò alla defenestrazione della presidente? Non si corre il rischio così – come accusano alcune organizzazioni della sinistra brasiliana – di porsi nel campo politico del Pt e del suo (ormai ex) governo? O peggio – secondo un’accusa ancor più pesante – di essere il “vagone di coda” del lulismo?
Come abbiamo già in precedenza sostenuto, crediamo di avere squadernato fin qui parecchie ragioni per non essere sospettati di simpatie luliste. Se approfondiamo l’analisi della manovra giudiziario‑parlamentare che ha portato all’impeachment di Dilma Rousseff e la definiamo come un “golpe”, non è certo perché siamo “tifosi” del Pt e dei suoi governi, ma è per comprendere le profonde ragioni che hanno portato la grande borghesia imprenditoriale e finanziaria a farla finita con quegli esecutivi che le hanno fatto guadagnare tanti soldi quanti mai in precedenza nella storia del Brasile[27]. Perché mai la grande impresa avrebbe dovuto liberarsi di governi che le sono stati così utili?
Eppure, le ragioni c’erano. Ne sono state individuate almeno quattro che giustificavano ampiamente la rottura degli industriali con il lulismo[28]:
- perché essi ritenevano chiuso il ciclo di sviluppo economico basato sull’espansione del credito e del consumo gestito dai governi Lula e Dilma;
- perché non credevano più che il governo Dilma fosse capace di ristabilire una dinamica di crescita economica attraverso una manovra correttiva dei conti e la riforma del mercato del lavoro, ritenute indispensabili;
- perché ritenevano che la crisi politica costituisse un ostacolo alla ripresa economica, dato che creava una situazione di cattiva amministrazione, diminuendo la possibilità di manovra della squadra di governo dell’economia[29];
- perché non erano disposti ad attendere le successive elezioni per una vittoria dell’opposizione, volendo giungere invece a una soluzione immediata della crisi, che non poteva non passare attraverso la direzione del Pmdb[30] e di Michel Temer.
Per contro, sostenere che si sia trattato di una contesa interborghese, che alla fin fine sostituire Dilma con Temer abbia avuto il solo significato di installare un governo borghese al posto di un altro, non è “semplice”. È semplicistico! E non fa intendere la natura, la profondità e la portata delle trasformazioni che si sono verificate in Brasile. Ciò a cui abbiamo assistito non è stato un mero mutamento della persona che occupava il Palácio do Planalto, ma un cambio significativo – e, nelle intenzioni di chi lo ha voluto, definitivo – introdotto unilateralmente da una frazione dell’apparato dello Stato borghese, che ha utilizzato a proprio vantaggio un meccanismo formalmente legale per potere poi imporre alle masse popolari le controriforme necessarie affinché la borghesia potesse invertire la tendenza alla caduta del saggio di profitto e ripristinare un ciclo economico ascendente che l’aveva fino a un certo punto beneficiata.
Ecco a cosa serviva il golpe.
E tuttavia, il solo fatto di avere installato un governo “purosangue”, diretta espressione delle classi dominanti e tale da rispondere direttamente ad esse, senza mediazioni, non è stato ritenuto sufficiente. Per portare a termine il disegno e renderlo davvero “definitivo” era necessario mettere a punto un ulteriore tassello, e non il meno importante: eliminare dal quadro politico Lula, che ancora godeva di un rilevante appoggio popolare, tanto da risultare primo nei sondaggi per le prossime presidenziali, mentre nessun esponente della parte a lui avversa appariva in grado di assicurare le vittoria alla nuova coalizione. È evidente che il disegno reazionario era incompatibile con un Lula rieletto: per quanto, infatti, egli abbia governato, come abbiamo visto – direttamente o per il tramite di Dilma Rousseff – principalmente nell’interesse della borghesia brasiliana facendole realizzare profitti favolosi, il leader del Pt non poteva essere considerato pienamente affidabile in una congiuntura economica in cui le risorse non possono essere dirottate neanche in minima parte su politiche compensatorie come quelle che il lulismo ha attuato. Anzi. La crisi richiede che, con mano energica, quanto è stato concesso ai lavoratori e alle fasce più povere ed emarginate della società brasiliana debba essere ripreso con gli interessi, a tutto vantaggio dei capitalisti. L’uso del meccanismo giudiziario è perciò sembrato il più appropriato per togliere di mezzo Lula.
Al termine di un processo basato sostanzialmente su illazioni (a detta dello stesso magistrato che ha condotto le indagini), è stato disposto l’arresto dell’ex presidente, poi eseguito su ordine del giudice Sergio Moro dopo che il Supremo Tribunal Federal (Stf) aveva negato l’habeas corpus a Lula.
L’ondata reazionaria e il tassello che mancava
Che cosa ha significato l’arresto di Lula?
Ci sembra chiaro, sulla scorta della ricostruzione fin qui fatta, che il ciclo culminato con le giornate del giugno 2013 si sia definitivamente chiuso; mentre, a partire dal 2015, è iniziata un’offensiva reazionaria molto forte che dura tuttora: un’ondata conservatrice in cui si è affermata una corrente neofascista con influenza di massa su taluni settori di classe media, rappresentata nelle più alte istituzioni dal deputato Jair Bolsonaro, ex militare, esponente del reazionarismo religioso nazionalista, omofobo e sessista, dalle dichiarate simpatie per il periodo della dittatura militare, sostenitore della tortura, ammiratore di Pinochet e di Fujimori, interprete dei desiderata dei grandi latifondisti e dei signori dell’agrobusiness[31], candidato alle prossime elezioni con buone possibilità, secondo i sondaggi, di arrivare al ballottaggio. Ma si tratta anche di una corrente che ha solide basi nella macchina statale, con un’evidente articolazione nell’apparato militare e ramificazioni nelle milizie paramilitari clandestine che non hanno mai smesso di operare in Brasile.
L’esercito, in particolare, sta vivendo una stagione di intenso protagonismo politico. Nel settembre del 2017, il generale Antonio Hamilton Mourão dichiarò che, se la magistratura non avesse fatto piazza pulita dei corrotti prima delle prossime elezioni (trasparente, qui, il riferimento a Lula), l’esercito non si sarebbe fatto scrupolo di realizzare un intervento militare[32]. Tre mesi dopo ribadì il concetto[33].
Alla vigilia dell’udienza dinanzi al Supremo Tribunal Federal che doveva decidere sulla richiesta di habeas corpus di Lula, il generale Eduardo Villas Bôas, comandante in capo dell’esercito, rilasciò dichiarazioni che chiaramente intendevano fare indebite pressioni sui giudici[34]: «Assicuro la nazione che l’esercito brasiliano condivide le ansie di tutti i cittadini dabbene di ripudio dell’impunità e di rispetto della Costituzione, della pace sociale e della democrazia, così come rimane attento alla propria missione istituzionale»[35].
Ancora più esplicito è stato il generale della riserva, Luiz Gonzaga Schroeder Lessa, che, sempre per l’eventualità che Lula fosse stato salvato da Stf, dichiarò[36]: «Se dovessero esserci simili macchinazioni e un tale cambiamento della legge, non dubito che resta solo il ricorso alla reazione armata. In tal caso, sarebbe dovere delle Forze armate restaurare l’ordine. Anche se non credo che arriveremo a tanto».
Quando il governo Temer decise l’intervento dell’esercito a Rio de Janeiro con la scusa di far cessare gli episodi di violenza che si stanno verificando nella capitale e nello Stato[37], il generale Walter Braga Netto ipotizzò, senza troppi giri di parole, che la misura si sarebbe potuta estendere all’intero Paese[38]: «Rio de Janeiro è ora un laboratorio per il Brasile. Se ciò che faremo qui sarà allargato al resto del Paese non spetta a me dirlo». In altri termini, ipotizzando la possibilità dell’instaurazione di uno stato d’eccezione a livello nazionale.
L’assassinio politico di Marielle Franco e del suo autista[39] ad opera di bande paramilitari dopo quelli, da lei denunciati, dei giovani delle favelas, l’assalto a colpi d’arma da fuoco contro i due autobus su cui viaggiava l’entourage di Lula[40] e un altro contro l’accampamento dei suoi sostenitori riuniti per reclamarne il rilascio[41], ci confermano l’esistenza di un contesto favorevole a quella corrente neofascista, di cui dicevamo all’inizio di questo paragrafo, che, pur avendo influenza di massa su taluni settori di classe media[42], è per il momento ancora minoritaria, ma si nutre del clima reazionario che si respira nel Paese.
Tutto ciò significa che c’è il concreto pericolo di un golpe militare o fascista in Brasile? Assolutamente no. Nell’attuale fase storica, le classi dominanti, nella loro stragrande maggioranza, sostengono la via istituzionale per potere applicare in tutta tranquillità le controriforme necessarie. D’altronde, perché possa profilarsi un siffatto pericolo occorrerebbe che ci fosse la contrapposta minaccia di una rivoluzione socialista, ma è del tutto evidente che non c’è, ad oggi, un ampio e radicalizzato movimento della classe lavoratrice in grado di mettere a rischio la dominazione della borghesia e l’ordine capitalista. E infine, il movimento reazionario stabilizzatosi a partire dal 2015 non rappresenta ancora un movimento fascista di massa.
In questo quadro – al momento, non consolidato – l’arresto di Lula ha rappresentato il tassello finale, l’elemento che mancava per chiudere il ciclo del golpe parlamentare che, attraverso l’impeachment, ha destituito dall’incarico Dilma Rousseff. Ha avuto il significato di un “impeachment preventivo”, come è stato felicemente definito dal politologo brasiliano Renato Lessa.
La borghesia ha messo la parola fine all’esperimento dei governi di conciliazione di classe per insediare al loro posto un governo “purosangue”. Ma solo questo non le bastava: doveva per sempre cancellare dall’immaginario collettivo un “simbolo” che, pur avendo fatto gli interessi delle classi dominanti, aveva commesso il “peccato originale” di voler entrare nel salotto buono della società brasiliana con le mani sporche del tornitore meccanico che egli era stato decenni prima.
E poco importava che quelle mani sporche fossero solo un pallido ricordo, un simbolo sbiadito delle lotte operaie dell’ABC paulista[43], ma che Lula aveva ripulite proprio per entrare nel Palácio do Planalto: alla fin fine, egli era pur sempre un intruso al quale solo per necessità la borghesia aveva consegnato le chiavi del Paese[44]. E doveva fare la fine che meritano gli intrusi: sbattuto dentro, umiliato per soddisfare le pulsioni più reazionarie che attraversano la società brasiliana. E perché non gli venisse in mente, forte del consenso popolare che comunque i sondaggi gli attribuivano, di provare di nuovo ad entrare nel salotto buono. Ora quel salotto ha bisogno di una bella ripulita, e così pure la società: le classi popolari tornino a stare al posto loro! Neanche le briciole che Lula ha distribuito dovranno più avere!
Una posizione minoritaria di una sinistra contraddittoria
Contro il golpe e l’arresto di Lula, e per il suo diritto a candidarsi, è scesa in piazza la gran parte della sinistra brasiliana, ad eccezione di un settore estremamente minoritario – composto principalmente dal Pstu e dalla sua organizzazione internazionale, la Lit – che ha caratterizzato diversamente la situazione che abbiamo sin qui descritto: sostenendo innanzitutto che non c’era stato nessun golpe e quindi, con l’assunzione della parola d’ordine della lotta alla corruzione, rifiutandosi di manifestare, sia contro il golpe che poi contro la detenzione dell’ex presidente[45].
Abbiamo già illustrato a sufficienza gli argomenti che smentiscono la tesi contraria alla sussistenza del golpe (mancato intervento militare; utilizzo e piena osservanza di meccanismi costituzionali per l’impeachment), sicché non vi ritorneremo. Ci preme, invece, soffermarci in questa sede sulle analisi che questa parte della sinistra fece in altre occasioni, per evidenziare le enormi contraddizioni rispetto alla posizione assunta oggi e alle sue conseguenze.
Come abbiamo già scritto altrove[46], nella smania di non apparire come un difensore del governo borghese del PT a guida Rousseff, il Pstu ha strombazzato ai quattro venti che la sua sostituzione con il vicepresidente significava “trocar seis por meia duzia”[47], cioè mettere un governo borghese al posto di un altro[48]. Per questo motivo, ha accusato le altre organizzazioni, che erano in piazza a manifestare contro il golpe, di sostenere con la loro iniziativa un governo borghese e di essere il vagone di coda del lulismo.
E però, in passate situazioni, identiche o molto simili, il Pstu e la Lit si regolarono diversamente. Vediamone qualche esempio.
- Paraguay
Quando nel 2012 il presidente del Paraguay, Fernando Lugo, fu destituito in favore del suo vice, Federico Franco, con una manovra di impeachment basata su un voto parlamentare (assolutamente identica a ciò che è accaduto in Brasile), gli stessi Pstu e Lit denunciarono «il golpe bianco … dissimulato dietro una facciata di legalità attraverso un “processo politico” realizzato dal parlamento»[49], definendolo un «colpo di Stato reazionario, sostenuto dalla destra tradizionale paraguaiana, … con un processo politico lampo consumato nel parlamento»[50], e anche «un golpe contro il movimento sindacale, contadino, popolare e studentesco. È un attacco diretto alle libertà democratiche conquistate durante decenni di lotte popolari», sicché «il compito principale ora è sconfiggere il golpe reazionario nelle strade, attraverso l’organizzazione e le mobilitazioni popolari. La principale parola d’ordine di tutto il movimento di massa e della sinistra deve essere: Abbasso il golpe parlamentare! Abbasso il governo golpista di Franco!»[51].
Perché quello contro Lugo era un golpe (benché senza intervento dei militari e correttamente caratterizzato come “parlamentare”) e invece quello contro Dilma – assolutamente identico per le modalità e gli esiti – no?
- Honduras
E così pure, nel 2009, Manuel Zelaya, presidente dell’Honduras, decise di convocare un referendum con la proposta di eleggere un’Assemblea costituente cui demandare il compito di approvare una nuova Costituzione allo scopo di superare il divieto di rielezione, immodificabile per via ordinaria, posto da quella vigente[52]. Il provvedimento venne annullato dalla magistratura e, di fronte all’insistenza di Zelaya, la Corte suprema decretò il suo arresto per alto tradimento e attentato alla Costituzione. Il 28 giugno 2009, un reparto di militari lo prelevò dal Palazzo presidenziale e lo espulse dal Paese, mentre il parlamento ne sanciva con il voto la destituzione. Come si vede, non si trattò affatto di un golpe militare, dal momento che Zelaya venne destituito con un procedimento costituzionale votato dal suo stesso partito: l’intervento delle forze armate fu solo destinato al suo arresto e all’espulsione. Certo, nei giorni successivi, di fronte alle proteste di piazza, il parlamento deliberò lo stato d’assedio che ebbe come conseguenza alcuni morti, parecchi feriti e decine di arresti. Però, l’intervento delle truppe nelle strade non costituì un golpe su iniziativa dei vertici militari, bensì una decisione del Congresso a seguito dell’impeachment per porre fine ai moti popolari dei seguaci di Zelaya.
Ebbene, la Lit definì quegli eventi “un golpe civile”[53] e chiamò alla resistenza delle masse, reclamando peraltro il ritorno di Zelaya e il suo reinsediamento. Come si vede, un altro esempio di contraddizione nella politica di un’organizzazione che si mostra ondivaga a seconda del momento. Peraltro, giova soffermarsi proprio sulla rivendicazione relativa alla restituzione al potere del presidente deposto. Usiamo le parole di una dichiarazione ufficiale della Lit del 20 agosto 2009:
«Una delle questioni più discusse è se si debba o meno rivendicare il ritorno di Zelaya al governo […], visto che si tratta di un “dirigente borghese”. Sicché, rivendicare il suo reinsediamento sarebbe “capitolare alla borghesia”. La Lit non ha alcun dubbio su chi sia Zelaya: un dirigente borghese reazionario proveniente dall’oligarchia honduregna […]. Ma settori maggioritari di massa … lo vedono come un “loro” dirigente e sono disposti a lottare … perché torni al governo. […] Questi processi di lotta, benché in essi vi sia l’elemento negativo della fiducia nella direzione borghese, sono molto progressivi […]. D’altro lato, il “ritorno” del “dirigente borghese”, in questo caso Zelaya, è un elemento imprescindibile affinché le masse possano fare la loro esperienza con lui e progredire nella propria coscienza […]»[54].
E allora, anche qui: se quello contro Zelaya era un procedimento cui venne data “una copertura di legalità” per poterlo “destituire costituzionalmente”[55], e questo procedimento la Lit ebbe a definire “golpe civile”, perché non adottare lo stesso criterio per la defenestrazione di Dilma (che peraltro era accusata di “crimini” molto meno gravi di quelli imputati a Zelaya, e non era certamente – a differenza di questi – “un dirigente borghese reazionario proveniente dall’oligarchia”)? Se la Lit, pur consapevole del carattere borghese dell’ex presidente dell’Honduras, ritenne allora di rivendicarne il ritorno affinché le masse potessero “fare la loro esperienza con lui”, perché non ha fatto lo stesso con Dilma? Perché, se volle – per parafrasare le sue stesse parole – essere “il vagone di coda dello zelaysmo”, non ha voluto invece opporsi all’impeachment della presidente brasiliana?
- Bolivia
La crisi politica scoppiata nel 2008 in Bolivia, derivante dal conflitto autonomistico tra i governatorati controllati dall’opposizione di destra della regione denominata “Media Luna” (Santa Cruz, Tarija, Beni y Pando) e il governo centrale di Evo Morales, sfociò in un referendum “revocatorio” dei mandati del presidente e dei governatori, che si svolse in un clima di violenze etniche e di classe scatenate da movimenti reazionari espressione dei ricchi dipartimenti che rivendicavano l’autonomia contro le popolazioni indigene del resto dei territori.
La consultazione si concluse con la riconferma sia di Evo Morales che di quasi tutti i governatori dell’opposizione. Ma ciò che importa qui sottolineare è che, nell’imminenza del voto, la Lit, pur denunciando giustamente l’attitudine conciliatrice del governo boliviano con la borghesia della “Media Luna”, scriveva sul sito del Pstu[56]: «Siamo contro la politica di negoziato permanente. Siamo contro lo sviamento delle lotte nelle urne. Ma non siamo a favore del rovesciamento del governo da parte della borghesia reazionaria. Perciò, non siamo a favore del No a Evo, proposto dall’oligarchia. E neppure siamo a favore dell’astensione che, in questo caso, significherebbe la stessa cosa: astenersi è come non prendere posizione in questa battaglia contro la destra, in pratica finirebbe per rappresentare un sostegno silenzioso per la stessa. Se il mandato di Evo venisse revocato in questo referendum, sarebbe una sconfitta per la classe lavoratrice, per i contadini e il popolo in generale, che ripone ancora molte speranze in questo governo. Sarebbe una capitolazione verso la destra. Facciamo appello agli operai, ai contadini e ai giovani perché […] diano un voto critico a Evo».
Anche in questo caso: perché sostenere addirittura col voto Evo Morales per evitare che il suo governo venisse “rovesciato” (non da un colpo di stato ma dall’esito referendario) e non opporsi invece all’impeachment di Dilma Rousseff? Perché, così come fece per la Bolivia, il Pstu e la Lit non hanno “preso posizione nella battaglia contro la destra” in Brasile?
- Argentina
Dopo il golpe del settembre del 1955, definito “Revolución libertadora”, Juan Domingo Perón abbandonò il Paese e si esiliò, dapprima in Paraguay e quindi in Spagna.
Nahuel Moreno – che sarebbe poi stato il fondatore e il principale dirigente della futura Lit – praticava con il suo partito l’“entrismo organico” nelle organizzazioni peroniste[57]. Queste ultime vedevano proscritte le proprie liste, sicché non potevano partecipare alle elezioni. Allo stesso Perón veniva impedito di candidarsi.
Ebbene, Moreno si rese coprotagonista della campagna per i diritti democratici dell’ex presidente e per la legalizzazione delle organizzazioni peroniste affinché potessero partecipare alle elezioni: campagna che poi sfociò nel fallito tentativo di far rientrare Perón in patria (“Operativo Retorno de Perón”).
Certo: nell’Argentina di quegli anni c’era stato un colpo di stato militare, cosa che sicuramente non si è verificata nel Brasile di oggi; così come si potranno trovare mille altre differenze tra le due situazioni. E tuttavia, perché si sostenne il diritto democratico a candidarsi di Perón e si organizzò un’operazione per farlo tornare dall’esilio, mentre non si è fatta una campagna per la libertà di Lula?
La borghesia archivia un’epoca
Gli esempi che abbiamo portato non hanno minimamente l’obiettivo di fare una polemica sterile nei confronti di un’organizzazione, in cui nondimeno chi scrive ha militato, pur senza mai proclamarsi “morenista” considerando la propria provenienza da una tradizione politica differente della Quarta Internazionale. L’obiettivo – qui – è, invece, analizzare la situazione politica nel più grande Paese del continente latinoamericano alla luce delle posizioni assunte da quell’organizzazione (e dalle poche altre che ne condividono il pensiero al riguardo), che riteniamo erronee e foriere di gravi pregiudizi per la classe lavoratrice e le masse popolari brasiliane.
Ciò che, infatti, questi settori sembrano non aver compreso è che, dietro a quello che essi negano – e cioè l’esistenza del golpe (parlamentare, istituzionale, di palazzo, bianco: chiamiamolo come vogliamo) con cui è stata destituita Dilma, e che è culminato poi nella condanna senza prove e l’arresto di Lula – c’è ben altro che la “sostituzione di un governo borghese con un altro”: c’è invece un attacco frontale e senza precedenti ai diritti democratici, lavorativi, previdenziali, sociali dei lavoratori e delle classi subalterne, per imporre una sconfitta storica che cristallizzi e sviluppi ulteriormente l’avanzata reazionaria della borghesia.
Ma – dicono costoro – è possibile negare che gli attacchi contro la classe lavoratrice sono cominciati prima, e cioè già coi governi petisti? No, rispondiamo, non è possibile. Effettivamente, l’offensiva padronale rimonta ad anni addietro e si è servita dell’opera di quei governi. Ma è altrettanto innegabile che è stato l’esecutivo di Temer, nel quadro della radicalizzazione della brutalità dei rapporti di classe, a intensificare ferocemente quegli attacchi: riforma del diritto del lavoro, aumento della terziarizzazione che istituzionalizza una generalizzata intermediazione di manodopera (legge 13.429/17), congelamento degli investimenti per opere e servizi sociali (sanità, istruzione, ecc.) per la durata di un ventennio (Pec – cioè “Proposta di emendamento costituzionale” – n. 241, poi denominata Pec 55 in sede di votazione nell’altro ramo del parlamento), blocco della spesa per il salario minimo, aumento delle privatizzazioni.
Oltre a queste misure economiche, è enormemente aumentata la militarizzazione della società (di cui l’intervento dell’esercito a Rio de Janeiro è solo l’esempio più eclatante[58]), con il corollario dell’assassinio di Marielle Franco e del suo autista, Anderson Gomes. Né si contano più gli omicidi ai danni di giovani di colore delle favelas ad opera di squadroni paramilitari e della polizia stessa, così come di attivisti indigeni e sem‑terra da parte delle bande che difendono gli interessi dell’agrobusiness.
Ciò che la Lit e un settore minoritario di altre organizzazioni negano, pur di fronte all’evidenza, è invece la dimostrazione che per la borghesia è definitivamente tramontata l’epoca della conciliazione di classe di cui il lulismo è stata l’incarnazione, e che si è chiuso per sempre il ciclo in cui i profitti favolosi per il capitale industriale e finanziario brasiliano sono stati realizzati sull’altare di una sorta di “patto sociale” che prevedeva la redistribuzione di briciole per le classi più disagiate allo scopo di controllarne le dinamiche sociali; è, insomma, la dimostrazione che le classi dominanti ora non intendono lasciar cadere dal tavolo neanche una di quelle briciole. Vogliono tutto. E lo vogliono perché si sentono forti e non hanno più bisogno di un “intermediario” che è estraneo al loro milieu: ora sostituiscono il controllo delle dinamiche di massa ad opera di un agente nel loro interesse con la repressione diretta e generalizzata delle stesse.
Ma ciò che è ancor più grave è che queste organizzazioni hanno assunto, introiettandole e riproponendole come proprio programma, le parole d’ordine utilizzate dalla borghesia per modificare il segno – come abbiamo in precedenza visto – delle proteste del giugno 2003. Sventolando la bandiera dell’anticorruzione, sono arrivate al punto da ululare insieme ai lupi dell’estrema destra rivendicando con loro la cacciata di Dilma e l’arresto di Lula.
Quale prospettiva per il movimento operaio brasiliano? La necessità del fronte unico
Perché sottolineiamo con forza l’erroneità di queste posizioni? Non certo – l’abbiamo detto – per amor di polemica fine a se stessa.
Nell’attuale situazione sociale del Brasile, in cui le classi dominanti sono all’offensiva e la grande maggioranza del movimento operaio è disorientata, incerta e priva di un’autorevole direzione, è necessario prendere coscienza della fase e inquadrarne i confini.
Sostenere che i lavoratori stanno rompendo, non solo col lulismo[59], ma col regime nel suo insieme; sbandierare che sono pronti già oggi a lanciarsi nello scontro frontale col nemico di classe; affermare un giorno sì e l’altro pure che il Brasile vive una situazione prerivoluzionaria che può rapidamente evolvere verso la rivoluzione; asserire che il governo Temer è in crisi perché “debole”[60]; sopravvalutare le lotte parziali e gli scioperi di categoria – che pure ci sono, benché siano fenomeni di settori d’avanguardia – ritenendo che siano perciò già mature (o prossime alla maturazione) le condizioni per chiamare da subito a una “ribellione”[61] (espressione che, peraltro, non si capisce a cosa alluda, se all’assalto finale per la presa del potere, o se a manifestazioni di piazza); tutto questo non tiene conto del fatto che il sentimento predominante nella maggioranza dei lavoratori non è, ad oggi, la disposizione immediata alla lotta consapevole per rovesciare rapidamente il sistema vigente e sostituirlo con un altro, ma l’incertezza e il disorientamento. Al contrario, questo modo di ragionare conduce inevitabilmente al volontarismo e, in ultima analisi, all’avventurismo.
Questi settori della sinistra brasiliana sembrano non aver affatto compreso che dietro la compressione dei diritti democratici di Lula sta la mortificazione e la riduzione (fino a un potenziale azzeramento) dei diritti democratici e sociali delle classi lavoratrici.
L’operazione “Lava Jato”, che per parecchi aspetti è sovrapponibile all’inchiesta italiana “Mani pulite”[62], al pari di quest’ultima ha avuto come esito un mutamento ai vertici delle istituzioni statali. Ma lo sbilanciamento dei poteri in favore dell’esecutivo, che da allora in poi si è registrato in Italia, non è per nulla paragonabile alla radicale bonapartizzazione della società brasiliana, caratterizzata – come abbiamo visto – da un crescente protagonismo (al limite dell’autonomizzazione) delle forze armate, che segna l’acuirsi e l’approfondirsi di una fase (la c.d. “onda conservatrice”) che cambia in peggio il tratto già negativo di una “democrazia blindata”[63].
E allora, di fronte all’acuirsi della brutalità della spoliazione ai danni delle classi subalterne, non c’è tempo per risposte sbagliate: da un lato, non si può essere alla coda del Pt e delle burocrazie sindacali che esso controlla, facendosi irretire dalla loro politica immobilista che confida ancora nel negoziato con le forze con cui fino alla vigilia del golpe hanno governato[64]; così come, d’altro lato, non si può restare prigionieri di un’analisi sbagliata in quanto impressionista, e che eleva a rango di “realtà” i propri intimi desideri, sfociando nel volontarismo, nel velleitarismo e nell’avventurismo.
Se il primo atteggiamento è dannoso perché codista, il secondo non lo è da meno in quanto indebolisce l’insieme di quei settori politici e sociali che devono, invece, organizzare la resistenza all’offensiva del capitalismo. Di fronte al pericolo che incombe, infatti, è necessario lanciare, attraverso un’ampia politica di fronte unico e il più vasto raggruppamento di forze, la costruzione di una piattaforma unificante delle lotte che denunci e si opponga alle manovre delle forze golpiste organizzando la risposta dei lavoratori contro gli attacchi della borghesia: denunciando l’opportunismo delle cupole burocratiche sindacali e politiche che rappresentano un freno per l’azione dei lavoratori; creando comitati di base nei luoghi di lavoro e di studio in cui vengano democraticamente discussi le forme e i metodi di reazione all’aggressione contro i diritti democratici, lavorativi, sociali, contro la previdenza, la sanità, l’istruzione; mettendo in piedi gruppi di autodifesa contro la violenza della polizia e dei gruppi neofascisti.
È necessario, insomma, varare un fronte unico che, dapprima difensivo, costituisca, attraverso una necessaria fase di accumulazione di forze, uno strumento di mobilitazione del proletariato e si trasformi quindi in offensivo. E le differenze politiche – che pure esistono tra le organizzazioni che debbono riconoscersi in questo percorso se non vogliono che la borghesia imponga una sconfitta epocale alla classe lavoratrice brasiliana – non debbono spaventare o rappresentare un alibi per non procedere in questo senso: storicamente, infatti, si sono dati casi di fronti unici difensivi sorti tra forze diversissime tra loro, ma che, grazie ai principi di una discussione autenticamente democratica nel quadro della più ampia democrazia operaia, si sono trasformati in offensivi tanto da determinare una vittoria (sia pure parziale e temporanea) contro la reazione[65].
Quella sconfitta epocale che il capitale vuole infliggere in Brasile alle masse popolari non si è ancora verificata. Ci sono tuttora abbondanti riserve di energie per opporvisi e invertire il segno reazionario di questa fase. Ma un esito positivo per le classi subalterne non cadrà dal cielo. Dipenderà, in ultima analisi, dalla direzione che prenderanno le organizzazioni della sinistra brasiliana; e, naturalmente, della sinistra internazionale. Siamo di fronte, come abbiamo visto, a due strade simmetricamente sbagliate e a un tragitto difficile, stretto, impervio, ma necessario da percorrere, sebbene – come recita la citazione posta all’inizio di questo scritto – segnato “da contraddizioni interne”. Occorreranno “prolungate lotte, dure prove, tanti errori e una larga esperienza”, ma confidiamo che la tradizione di lotta della classe operaia brasiliana farà pendere dalla propria parte la bilancia.
Note
[1] “Obama diz que Lula é «o político mais popular da Terra»”, BBC Brasil, 2/4/2009 (https://tinyurl.com/yd4wpzgn).
[2] Ricordiamo che nella famosa “Lettera al popolo brasiliano”, divulgata dalla direzione petista prima delle elezioni del 2002, Lula si impegnava a portare avanti le leggi sulla responsabilità fiscale e sull’avanzo primario, promettendo di pagare – cosa che poi farà durante tutti gli anni del suo mandato – il debito estero. Più che al “popolo brasiliano”, la lettera doveva intendersi indirizzata al Fmi e agli investitori internazionali, allo scopo di tranquillizzarli sul fatto che un governo del Pt avrebbe osservato i limiti di compatibilità del capitalismo. E, per offrire un margine di garanzia in più, Lula si presentò in coalizione con i partiti del centro e con settori conservatori, cui offrì posti di rilievo nella compagine governativa.
[3] Occorre tuttavia segnalare che la quasi totalità di questi nuovi posti di lavoro fruttava ai lavoratori un salario di una volta e mezza quello minimo. Al contempo si sono persi 4.300.000 posti di lavoro con un salario superiore a cinque volte quello minimo. In altri termini, la disuguaglianza salariale si è ridotta verso il basso: i salari di occupazioni di livello superiore hanno avuto un ritmo di lenta caduta, tanto che la differenza fra il salario medio di impieghi che richiedevano un basso tasso di scolarità e quelli di scolarità media e superiore è significativamente diminuita negli anni.
[4] Letteralmente, “Fame Zero”, “Casa mia, vita mia”, Borsa Famiglia”. Particolarmente significativo del carattere tutt’altro che “rivoluzionario” di quest’ultima misura di inclusione sociale è il fatto che, lungi dall’essere mal tollerata e respinta dalle istituzioni finanziarie internazionali, essa era anzi additata a modello positivo: sia Banca Mondiale che Fmi non si stancavano di ripetere, infatti, che il suo costo era estremamente limitato (0,5% del Pil), e ciononostante favoriva 50 milioni di persone.
[5] Cioè di coloro che avevano entrate per meno di 2,5 dollari al giorno.
[6] Si tratta di un indice che misura la disuguaglianza nelle entrate economiche: l’uguaglianza assoluta è data dallo zero, la disuguaglianza massima dall’uno.
[7] Ci riferiamo qui, in particolare, al famosissimo scandalo del “mensalão” (mensile). In pratica, membri del governo Lula pagavano somme mensili ad alcuni deputati per ottenerne il voto favorevole su disegni di legge essenziali per l’esecutivo. Lo scandalo ebbe anche dei risvolti involontariamente comici, con l’assistente di uno dei parlamentari del Pt arrestato in aeroporto mentre portava 200.000 real in una valigetta e altri 100.000 nascosti nelle mutande.
[8] “Empresas nunca ganharam tanto, diz Lula”, Folha de S. Paulo, 22/5/2009 (https://tinyurl.com/ycsxjqwe).
[9] Fonte: Banco Central do Brasil.
[10] Utilizziamo qui la scala in uso nei Paesi anglosassoni, adottata anche dal Brasile, per misurare le grandezze economiche: sicché, un trilione è equivalente a mille miliardi. Conseguentemente, la cifra indicata nel testo è pari a 15.400 miliardi di real.
[11] Non a caso, il presidente del Fmi, Christine Lagarde, si sperticava in complimenti per le misure di riequilibrio dei conti adottate da Dilma Rousseff. Va peraltro evidenziato che, per accaparrarsi la fiducia dei circoli finanziari internazionali, nel novembre del 2014 la stessa Dilma – pur avendolo, anni addietro, spregiativamente definito “un burocrate del Fmi” – aveva nominato come ministro delle Finanze Joaquim Levy, un economista liberista formatosi alla scuola di Chicago: una garanzia, insomma, per i fautori di politiche economiche di segno conservatore.
[12] Dati forniti dalla Banca Mondiale e reperibili all’indirizzo https://tinyurl.com/yajxs7jg.
[13] Nel mese di dicembre 2014, il flusso di capitali in uscita dal Brasile ammontò a 14,5 miliardi di dollari.
[14] Forte della sua popolarità, Lula girava infatti tutto il Paese per divulgare un opuscolo autocelebrativo dei dieci anni di governo del Pt (due mandati suoi e metà del primo mandato di Dilma Rousseff), presentati come un’inversione di tendenza rispetto al neoliberalismo imposto dai precedenti governi del Psdb.
[15] Equivalenti, al cambio dell’epoca, a circa 6 centesimi di euro.
[16] “Retomar a Paulista” (“Riconquistare la Paulista”, cioè la principale strada del centro di San Paolo), Folha de S. Paulo, 13/6/2013 (https://tinyurl.com/lalq4j7).
[17] Si calcola che le varie mobilitazioni abbiano raggruppato nelle strade del Brasile tre milioni di manifestanti, con proteste che si sono dipanate in oltre 400 città del Paese.
[18] È utile, per un approfondimento al riguardo, riferirsi in particolare a: M. Badaró Mattos, “A multidão nas ruas: construir a saída de esquerda para a crise política, antes que a reação imprima sua direção”, Blog Esquerda On Line, 26/6/2013 (https://tinyurl.com/yaatm8nt) e a F. Demier, “Nas ruas por direitos: uma análise das jornadas de junho de 2013”, Blog Junho, 28/6/2015 (https://tinyurl.com/y8g4powm).
[19] “Sergio Moro trabalha pelo impeachment via TSE”, Esquerda Diário, 24/2/2016 (https://tinyurl.com/ydy977jb).
[20] Partito della social democrazia brasiliana.
[21] Il 13 marzo 2015, si svolsero 300 manifestazioni per l’impeachment di Dilma Rousseff che totalizzarono 3,6 milioni di partecipanti. Quella di San Paolo vide la presenza di mezzo milione di persone. Poi ci furono quelle del 15 marzo, del 12 aprile, del 16 agosto e del 13 dicembre, con la partecipazione in tutto il Paese, rispettivamente, di due milioni, 660.000, 790.000 e 60.000. A San Paolo, 210.000, 100.000, 135.000 e 40.000. Queste mobilitazioni si svolsero all’insegna di slogan inequivoci: “Il popolo è sovrano! L’intervento militare non è un crimine!”; oppure, “Perché non li hanno uccisi tutti nel 1964?” (chiaro riferimento al golpe militare di quell’anno).
[22] Potremmo citare il parere di numerosissimi giuristi brasiliani. Ci limitiamo a rinviare al ponderoso testo di M. Labanca Corrêa de Araújo e F. José Roman, “Impeachment é Golpe de Estado?” (L’impeachment è un colpo di stato?), Jota.info, 1/4/2016 (https://tinyurl.com/ydhonsag) che, ritenendo che l’intero procedimento sia stato viziato dalla mancanza di “tipicità” della condotta addebitata a Dilma (in base al principio universale per cui nessuno può essere ritenuto responsabile per un fatto che non è considerato dalla legge produttivo di responsabilità), chiudono il loro corposo saggio con queste parole: «… è possibile concludere che i due punti ammessi dalla Presidenza della Camera dei Deputati […] non costituiscono neanche in tesi un delitto di responsabilità. Sono fatti atipici. […] Detto ciò, può anche concludersi che il semplice utilizzo di un procedimento costituzionalmente previsto (impeachment) non lo rende giuridicamente valido. Pensare il contrario significherebbe attribuire al potere legislativo il diritto di processare il capo del potere esecutivo senza la necessità della caratterizzazione del delitto di responsabilità, dicendo che qualcosa rappresenta un delitto senza che lo sia». Per i due autori si tratta, in definitiva, di «un tentativo giuridicamente illegittimo di accesso al potere». In altri termini, concludiamo noi, di un golpe (vedremo poi, nel prosieguo del testo, di che tipo).
[23] “O que é um golpe de estado?”, Blog Junho, 26/3/2016 (https://tinyurl.com/y7d434xx).
[24] Non sono rari, infatti, i casi di c.d. “autogolpe”: si pensi a quello posto in essere da Fujimori in Perù nel 1992.
[25] Cfr. R. Perissinotto, “Por que golpe?”, Academia, (https://tinyurl.com/yageomcy) e gli autori da lui citati.
[26] «Dal punto di vista formale, il progetto di destituzione di Dilma è un piccolo capolavoro di tecnica antidemocratica. Tutti gli attori hanno operato con una straordinaria sintonia», scrive R. Vecchi, “L’impeachment di Dilma e lo spiacevole malinteso della democrazia in Brasile”, Limes, 21/4/2016 (https://tinyurl.com/h4jsfaw).
[27] V. nota 8 che precede.
[28] A. Bianchi, “Por que a Fiesp apoia o impeachment?”, Blog Junho, 18/12/2015 (https://tinyurl.com/y95mpqdv).
[29] Ricordiamo che, nel momento in cui la Fiesp (la federazione degli industriali di San Paolo) ha pubblicamente dichiarato di sostenere il procedimento di impeachment, a capo del ministero dell’economia c’era Joaquim Levy (v. nota 11), cioè un uomo di fiducia della borghesia finanziaria.
[30] Partido do Movimento Democrático Brasileiro. Faceva parte della maggioranza che appoggiava l’esecutivo di Dilma Rousseff fino alla rottura che aprì la strada al procedimento di impeachment. Esprime l’attuale presidente, Michel Temer.
[31] “Agronegócio mais perto de Bolsonaro”, Esquerda online, 4/5/2018 (https://tinyurl.com/y86ttq9o).
[32] “General fala em intervenção se Justiça não agir contra corrupção”, Folha de S. Paulo, 17/9/2017 (https://tinyurl.com/yck2uu9s).
[33] “General Mourão diz que Temer faz ‘balcão de negócios’ para governar”, Folha de S. Paulo, 8/12/2017 (https://tinyurl.com/ybfbpove).
[34] “Do general Villas Bôas à reserva, a ofensiva dos militares que querem voz na política”, El País, ed. Brasile, 4/4/2018 (https://tinyurl.com/y8fausua).
[35] E possiamo ben immaginare a quale “missione istituzionale” il generale intendesse riferirsi!
[36] “Se Lula for eleito, a alternativa será uma intervenção militar, diz general da reserva”, Estadão, 3/4/2018 (https://tinyurl.com/ybl7u67h).
[37] Ne abbiamo parlato nell’articolo “Marielle Franco: un delitto politico in piena regola”, Blog Assalto al cielo, 16/3/2018 (https://tinyurl.com/yc2njas5).
[38] “«O Rio de Janeiro é agora um laboratório para o Brasil», diz general”, Diário de noticias, 27/2/2018 (https://tinyurl.com/ycnaaykn).
[39] V. nota 37.
[40] “Ônibus da caravana de Lula é atacado a tiros no Paraná”, Correio do Povo, 27/3/2018 (https://tinyurl.com/y9doalnv).
[41] “Ataque a tiros a campamento pro‑Lula deja heridos y eleva tensión en Curitiba”, El Periódico, 29/4/2018 (https://tinyurl.com/yd9spqcz).
[42] Come le grandi manifestazioni in favore dell’impeachment del 2015 hanno dimostrato.
[43] La regione industriale dello Stato di San Paolo, dove sono insediate le principali industrie (soprattutto automobilistiche) e che fu protagonista di grandi lotte operaie esplose sul finire degli anni 70 e all’inizio del decennio successivo, dalle quali emersero poi il Pt di Lula e la Cut, il più grande sindacato brasiliano.
[44] Rinviamo al bell’articolo di F. Demier, “Il senso di un arresto: Lula, la democrazia e i commensali nei salotti”, pubblicato in italiano in questo stesso sito.
[45] In verità, questa del rifiuto a manifestare contro l’arresto di Lula è una posizione più sfumata che una delle organizzazioni in questione, il Pstu/Lit, ha adottato dopo avere invece addirittura reclamato e rivendicato l’arresto. Ne abbiamo parlato in quest’articolo.
[46] V. l’articolo indicato nella nota precedente.
[47] Letteralmente: “cambiare sei con una mezza dozzina”. L’italiano prevede, come espressione equivalente, “se non è zuppa, è pan bagnato”.
[48] È paradossale che un’organizzazione che si richiama al trotskismo abbia dimenticato che non tutti i governi borghesi sono uguali, che fra quelli di fronte popolare (come quello di Dilma e, prima, di Lula) e gli altri puramente borghesi (come quello di Temer) c’è un’importante differenza qualitativa!
[49] “Golpe da direita depõe presidente do Paraguai”, Pstu, 23/6/2012 (https://tinyurl.com/yafh8y79).
[50] “Golpe de Estado no Paraguai: Derrotemos o golpe parlamentar e o governo de Franco nas ruas!”, Pstu, 11/7/2012 (http://tinyurl.com/hngsm6r).
[51] “Golpe de Estado no Paraguai”, Lit, 11/7/2012 (http://tinyurl.com/h9wmly5).
[52] Articoli 237 e 374 della Costituzione honduregna.
[53] “La crisis del gobierno Dilma y la farsa del golpe”, Lit, 1/4/2016 (https://tinyurl.com/ya8u64ho).
[54] “Honduras: La resistencia en una encrucijada”, Lit, 20/8/2009 (https://tinyurl.com/y9vod8ug).
[55] Nel testo intitolato “La heroica resistencia contra el golpe y el nefasto papel de Zelaya” (Marxismo Vivo n. 22, 2009, p. 8), la Lit segnala infatti che coloro che deposero il presidente «cercarono di dare una copertura di legalità all’azione, accusando Zelaya di diversi “crimini” e destituendolo “costituzionalmente”» e «si presentarono come una “transizione” per una soluzione istituzionale nel quadro della democrazia borghese, proponendo da subito di tenere le elezioni in novembre col riconoscimento di chiunque le avesse vinte. In tal modo volevano mostrare alle istituzioni internazionali che non era loro intenzione insediare un regime simile a quello di Pinochet in Cile».
[56] “O que pretende a burguesia e o governo Morales com o referendo revogatório?”, Pstu, 9/8/2008 (https://tinyurl.com/ydebcobe).
[57] Un entrismo talmente profondo da sconfinare nella dissoluzione della propria corrente in quella peronista. Non a caso, Palabra Obrera, il giornale dell’omonima organizzazione morenista, sotto i caratteri del titolo portava la didascalia «agli ordini del generale Perón» e si autodefiniva “organo del peronismo operaio rivoluzionario”. Un entrismo, peraltro, che faceva perdere di vista l’obiettivo della costruzione di un partito rivoluzionario, visto che la parola d’ordine del morenismo all’interno del peronismo era «costruire subito un partito centrista di sinistra legale» (al riguardo, v. E. González, El trotskismo obrero e internacionalista en la Argentina, Editorial Antídoto, 1995, t. I, pp. 236 e s. Per l’analisi del periodo storico in questione, oltre a op. ult. cit., t. II e t. III, v. anche O. Coggiola, Historia del trotskismo en Argentina y América Latina, Ediciones ryr, 2006).
[58] V. nota 37.
[59] Recenti sondaggi indicano che, benché il Pt abbia sofferto un certo distanziamento del proprio elettorato a causa delle vicende che hanno portato all’arresto di Lula, nondimeno è saldamente in testa nelle intenzioni di voto. La spiegazione sta nel fatto che si tratta di un partito dalla struttura solida e che, soprattutto nei quattordici anni di governo, si è molto radicato nel Paese.
[60] L’incredibile impressionismo di quest’analisi da parte del Pstu è clamorosamente smentita dalla realtà: benché quello di Temer sia l’esecutivo probabilmente più screditato della storia del Brasile, nondimeno è appoggiato dalla stragrande maggioranza del capitalismo nazionale e internazionale, nonché da praticamente tutti i partiti del panorama statale. Per di più, è “blindato” dall’azione del potere giudiziario. Bizzarro che un governo così “debole” sia riuscito a far passare la propria reazionaria agenda di attacchi ai lavoratori senza incontrare una significativa resistenza sociale e senza mostrare segni di contraddizioni interne alla coalizione borghese che lo sostiene!
[61] “As propostas socialistas contra a crise”, Pstu, 10/5/2018 (https://tinyurl.com/yaxyuhva).
[62] Non è un caso che il giudice Sergio Moro, il grande inquisitore che ha fatto della persecuzione contro Lula il principale, se non l’unico, fine della propria carriera, sia un fan dell’operazione che in Italia portò alla decapitazione del sistema politico della c.d. Prima repubblica: “Como a Lava Jato foi pensada como uma operação de guerra”, CartaCapital, 19/10/2015 (https://tinyurl.com/ycv4p7um). V. anche: “Il magistrato brasiliano anti‑casta a lezione da un maestro di Mani pulite”, Il Foglio, 30/3/2016 (https://tinyurl.com/y7ecz5bw).
[63] Ci riferiamo qui a quel processo che si verifica nel quadro della controffensiva del capitale sul lavoro, che tende a rendere i regimi democratico‑borghesi immuni dalle rivendicazioni popolari – o meno recettivi rispetto ad esse – sgombrando le istituzioni dagli “eccessi” di democrazia in grado di paralizzare la “vitalità” dei mercati: si ha quindi un mutamento “qualitativo” dall’interno dei regimi liberali, benché essi formalmente conservino la stessa “pelle”, attraverso una stretta sempre più autoritaria della democrazia parlamentare borghese. È utile, in questa prospettiva, rifarsi alle feconde analisi di F. Demier, “Depois do golpe: a força e a fraqueza da democracia blindada brasileira”, Blog Junho, 19/10/2016 (https://tinyurl.com/y9cb6b59). Dello stesso autore, “A democracia blindada”, Blog Junho, 25/8/2016 (https://tinyurl.com/y8ko264v) e “A formação da democracia blindada no Brasil”, Blog Junho, 31/8/2016 (https://tinyurl.com/yb8taprh).
[64] Una posizione del genere viene spudoratamente adottata in Italia, tra gli altri, da Rifondazione comunista, da Potere al popolo e dalla Rete dei comunisti.
[65] Un esempio emblematico ci è fornito dall’Ottobre asturiano del 1934, su cui pubblicheremo prossimamente un articolo su questo sito.