«La violenza è la levatrice
di ogni vecchia società,
gravida di una società nuova.
È essa stessa una potenza economica»
(K. Marx, Il Capitale)
Lo stalinismo, in quanto degenerazione e negazione del marxismo e del leninismo, svolge per sua natura una funzione controrivoluzionaria: per adempiere la quale sceglie di stare da parte della borghesia e dell’imperialismo. Di esempi storici se ne possono citare parecchi, ma non è questa la sede adatta. Di esempi molto più vicini a noi, invece, possiamo ricordarne uno di qualche anno fa, quando, in occasione delle enormi manifestazioni contro le misure di austerità in Grecia, gli stalinisti del Kke organizzarono insieme alla polizia un cordone a difesa del parlamento borghese dalle masse inferocite che volevano assaltarlo, addirittura “arrestando” alcuni manifestanti.
Un altro è quello che si è verificato in questi giorni in Cile: la “suffragetta” stalinista Camila Vallejo, dirigente e parlamentare del Partito comunista cileno, non si è fatta scrupolo di affiancare la portavoce del putrido governo Piñera nel condannare “gli atti di violenza”, facendo appello a partecipare alle manifestazioni “in modo pacifico”.
Come sempre, ciò che resta dello stalinismo assolve alla funzione controrivoluzionaria di spegnere sul nascere i fuochi rivoluzionari, dislocandosi nel campo della borghesia.
L’articolo che segue, pubblicato nella pagina Revista de Frente, stigmatizza questa politica spiegando, invece, dove affondano le radici della vera violenza, quella del capitalismo imperialista.
Lo presentiamo tradotto in italiano perché, pur non condividendo l’uso del termine “neoliberale” (a nostro avviso scorretto da un punto di vista marxista) che ricorre in un paio di occasioni, riteniamo il testo – che peraltro non concede nulla allo sterile avanguardismo del “gesto esemplare” – molto efficace nella polemica sviluppata.
Buona lettura.
La redazione
Il nostro diritto alla violenza rivoluzionaria
Nicolás Valenzuela
Abbiamo, nella nostra ricerca della libertà, il diritto alla violenza. Abbiamo il diritto ad esercitare la forza e a ribellarci di fronte a un sistema ingiusto. È il diritto più fondamentale di ogni popolo. E oggi non è frutto di un capriccio. Non è arbitrario. È la legittima risposta a più di quarant’anni di abusi, in cui le istituzioni si sono mostrate indifferenti ai dolori degli oppressi. Sono stati quarant’anni di mobilitazioni, giornate di protesta, marce, picchetti, blocchi, scioperi, scioperi della fame, “funas”[1], interpellanze e tante altre forme di lotta. Quarant’anni in cui i ricchi e i potenti esibiscono sfrontatamente i loro privilegi mentre i politici si fanno beffe della nostra miseria.
L’esperienza del Cile neoliberale ci ha mostrato che lo Stato e i governi sono esistiti per assicurare innanzitutto i profitti alle oligarchie e alle multinazionali. Questo, ad esempio, è il vero obiettivo delle Afp[2] e delle Isapres[3], non certo provvedere alle nostre pensioni e alla nostra salute. La loro normalità è violenza. La loro governabilità, indifferenza e pace sociale è violenza. È sfruttamento, povertà, diseguaglianza, saccheggio, inquinamento. Sono le pensioni da 100 “lucas”[4], sono le liste di attesa, sono la mancanza di farmaci e specialisti negli ospedali, sono i salari da fame, sono le aree permanentemente contaminate da industrie altamente inquinanti, fra altri tantissimi esempi.
Mentre loro ci rubano la vita vogliono che restiamo sottomessi. E una grande responsabilità hanno avuto in ciò i mezzi di comunicazione, la stampa, la radio e la televisione. Ci hanno convinti che se ci proclamiamo contro la violenza saremo persone dabbene, ci hanno inculcato la parola d’ordine della non violenza nelle piazze come uno slogan quasi irrazionale e automatico, mentre mentono e manipolano.
E oggi, oltre a tutto questo, ci sono morti, torture, stupri e abusi. Ma per fortuna ci siamo svegliati. E abbiamo tirato fuori la rabbia e la furia che ci facevano ammalare consumandoci da dentro.
Siamo scesi in piazza manifestando ancora, in massa, come un solo popolo. E sì, abbiamo usato violenza. Non come l’unico mezzo, né il principale, ma l’abbiamo usata. Però la nostra violenza è diversa. Non la usiamo contro la vita, né contro i corpi, ma contro i simboli della loro violenza e contro i responsabili della repressione. Contro i supermercati, le banche, le farmacie, le multinazionali, la loro stampa e contro ogni altra istituzione li rappresenti. Questa violenza è rivoluzionaria. Questa è la violenza che difendiamo. È la violenza che dice basta ai potenti. Hanno approfittato sin troppo della nostra nobiltà d’animo e ora le cose cambieranno.
Vada, in questo senso, un riconoscimento a tutti coloro, giovani e meno giovani, che sono in prima linea e contengono le forze della repressione affinché la grande maggioranza possa manifestare. Se così non fosse, ci sarebbe solo un fuggi fuggi generale e verremmo dispersi dai manganelli, i lacrimogeni e gli idranti.
Non ci chiedano di farci carico della loro violenza. La violenza neoliberale, il sottoproletariato, sono il frutto della loro violenza. Dell’aver seminato individualismo, concorrenza, patriarcato, droghe e disuguaglianze. Vogliono usare questa “violenza” per dividerci, vogliono organizzare delle messinscene per dividerci. Non ci riusciranno. Abbiamo già imparato.
Forse è per tutto quanto detto che i conduttori di programmi tv, i burocrati e i tecnocrati condannano tanto il “vandalismo”. Debbono sapere, nel profondo dei loro cuori, che gli stipendi, le vacanze e in definitiva il loro modo di vita rappresentano e incarnano la violenza. Sanno che, in poco tempo, le loro proprietà e il loro lusso possono far parte di ciò che il popolo vuole che bruci, come simbolo della fine dei loro privilegi. E, naturalmente, essi non vogliono perderli.
Per questo, fa imbestialire il fatto di vedere i dirigenti comunisti, del Frente Amplio[5] e dei grandi movimenti sociali “condannare la violenza”, “avallare la protesta pacifica, ma non quella violenta”. Fa imbestialire perché si dislocano nel campo della destra per dividerci. Si allineano con la politica di normalizzazione che richiede repressione e criminalizzazione. Basta col buonismo verso i potenti! Se pretendono di essere rappresentanti del popolo, come si dice nelle piazze, devono esserlo in tutto, altrimenti che rappresentano?
Non ripetiamo il mantra contro il “vandalismo”, e neppure gli appelli a condannare la violenza “da qualsiasi parte provenga”. Gridiamo la parola giustizia, unità, popolo, manifestazione. Senza timore. Perché l’odore di gomma bruciata ci appartiene ed è il segnale di una furia popolare che merita di essere ascoltata e condivisa.
(Traduzione di Ernesto Russo. Tutte le note che seguono sono del traduttore)
Note
[1] “Funa” è un vocabolo che deriva dall’idioma Mapuche e ha il significato di “cosa che marcisce, si decompone”. In Cile è il nome che viene dato alle manifestazioni di denuncia e ripudio pubblico contro una persona o un gruppo responsabile di azioni delittuose che non sono state perseguite dalla giustizia. In pratica, viene organizzata una marcia pacifica ma molto rumorosa fin davanti alla casa o il luogo di lavoro del “funado” e se ne denunciano pubblicamente i crimini, distribuendo volantini con la sua fotografia, l’indirizzo, il numero di telefono e la descrizione delle malefatte che non sono state sanzionate penalmente. L’obiettivo delle “funas” è suscitare un ripudio sociale che dia luogo a una sanzione morale pubblica e collettiva. In Cile le “funas” vengono organizzate contro personaggi legati al regime della dittatura.
[2] Amministrazioni dei fondi pensione.
[3] Le Isapres sono società di assicurazioni private che finanziano le spese sanitarie a cui una persona può dover fare fronte: in pratica, sono il fulcro del sistema privatistico della sanità in vigore in Cile.
[4] “Luca” è la denominazione popolare del biglietto da 1.000 pesos cileni. Cento “lucas” corrispondono, quindi, a 100.000 pesos, poco più di 120 euro al cambio attuale.
[5] Una coalizione di partiti che si colloca nel centrosinistra cileno.