Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Rivoluzione russa del 1917

La notte che decide

Lenin e Trotsky

Il 7 novem­bre 1917 (25 otto­bre, secon­do il calen­da­rio giu­lia­no in vigo­re all’e­po­ca in Rus­sia), le mas­se popo­la­ri rus­se con alla testa il Par­ti­to bol­sce­vi­co di Lenin e Tro­tsky con­clu­se­ro, por­tan­do­lo vit­to­rio­sa­men­te a ter­mi­ne, il pro­ces­so rivo­lu­zio­na­rio ini­zia­to dodi­ci anni pri­ma, nel 1905, pren­den­do infi­ne il pote­re e imboc­can­do la stra­da per la costru­zio­ne di una socie­tà socia­li­sta. Sugli avve­ni­men­ti che si svi­lup­pa­ro­no duran­te tut­to quel­l’ar­co tem­po­ra­le rin­via­mo i nostri let­to­ri ai tan­ti testi pub­bli­ca­ti nel­la sezio­ne “Rivo­lu­zio­ne rus­sa del 1917” di que­sto sito, uti­li per ave­re un pano­ra­ma com­ple­to degli eventi.
Ci pia­ce dun­que ricor­da­re que­sta ricor­ren­za pre­sen­tan­do la testi­mo­nian­za pro­prio di León Tro­tsky, pro­ta­go­ni­sta di quel pro­ces­so, pub­bli­can­do uno dei capi­to­li del­la sua ope­ra, La mia vita: quel­lo cioè che riper­cor­re i fre­ne­ti­ci momen­ti che pre­ce­det­te­ro la pre­sa del potere.
Buo­na lettura.
La redazione

La notte che decide


León Trotsky

 

Si avvi­ci­na l’ora solen­ne del­la rivo­lu­zio­ne. Lo Smol’nyj si tra­sfor­mò in una for­tez­za. V’erano in sola­io, ere­di­tà del vec­chio Comi­ta­to ese­cu­ti­vo, cir­ca ven­ti mitra­glia­tri­ci. II coman­dan­te del­lo Smol’nyj, il capi­ta­no Gre­kov, era un nostro nemi­co dichia­ra­to. Il coman­dan­te dei mitra­glie­ri inve­ce ven­ne a dir­mi che i sol­da­ti era­no coi bol­sce­vi­chi. Io inca­ri­cai qual­cu­no – for­se Mar­kin? – di esa­mi­na­re le mitra­glia­tri­ci. La rispo­sta fu che era­no in cat­ti­vo sta­to e tra­scu­ra­te. I sol­da­ti era­no sta­ti appo­sta con le mani in mano per­ché non inten­de­va­no difen­de­re Keren­skij. Io feci veni­re allo Smol’nyj un repar­to di mitra­glie­ri fre­sco e fida­to. Era l’alba gri­gia del 24 Otto­bre. Io anda­vo da un pia­no all’altro, un po’ per non star fer­mo, un po’ per sin­ce­rar­mi che tut­to fos­se in ordi­ne e per inco­rag­gia­re colo­ro che ave­va­no biso­gno di inco­rag­gia­men­to. Sul­le pie­tre dei cor­ri­doi lun­ghis­si­mi del­lo Smol’nyj, anco­ra nel­la penom­bra, i sol­da­ti face­va­no scor­re­re le mitra­glia­tri­ci con alle­gro fra­stuo­no. Era il repar­to che ave­vo fat­to veni­re. I pochi social­ri­vo­lu­zio­na­ri e men­sce­vi­chi rima­sti nel­lo Smol’nyj spor­ge­va­no dal­le por­te le fac­ce spa­ven­ta­te. Sic­co­me quel­la musi­ca non pro­met­te­va nul­la di buo­no si affret­ta­va­no ad abban­do­na­re lo Smol’nyj uno dopo l’altro. Noi restam­mo i padro­ni asso­lu­ti del Palaz­zo che si pre­pa­ra­va ad alza­re la sua testa bol­sce­vi­ca sopra la cit­tà e il Paese.
La mat­ti­na pre­sto incon­trai per le sca­le un lavo­ra­to­re e una lavo­ra­tri­ce che veni­va­no di cor­sa dal­la tipo­gra­fia del par­ti­to ad annun­cia­re che il Gover­no ave­va vie­ta­ta la pub­bli­ca­zio­ne dell’organo cen­tra­le del par­ti­to e del gior­na­le del Soviet di Pie­tro­gra­do. Non so che agen­ti del Gover­no ave­va­no mes­so i sug­gel­li alla tipo­gra­fia. Al pri­mo momen­to la noti­zia face­va impres­sio­ne: cos’è mai la poten­za del­le for­ma­li­tà! «Si pos­so­no strap­pa­re i sug­gel­li?» doman­dò l’operaia. «Strap­pa­te pure e per­ché non vi suc­ce­da nul­la vi dare­mo una buo­na scor­ta» rispo­si. «Vici­no a noi c’è un bat­ta­glio­ne di zap­pa­to­ri, i sol­da­ti ci difen­de­ran­no» dis­se l’operaia fidu­cio­sa­men­te. Il Comi­ta­to di guer­ra rivo­lu­zio­na­rio ema­nò tosto que­ste dispo­si­zio­ni: «1. Le stam­pe­rie dei gior­na­li rivo­lu­zio­na­ri devo­no esse­re ria­per­te imme­dia­ta­men­te. 2. Le reda­zio­ni e i tipo­gra­fi ripren­de­ran­no subi­to il lavo­ro per pub­bli­ca­re i gior­na­li. 3. L’onore di pro­teg­ge­re le tipo­gra­fie rivo­lu­zio­na­rie con­tro le mene del­la con­tro­ri­vo­lu­zio­ne è affi­da­to ai glo­rio­si sol­da­ti del reg­gi­men­to litua­no e al 6° bat­ta­glio­ne di zap­pa­to­ri». La tipo­gra­fia ripre­se il lavo­ro sen­za inter­ru­zio­ne e tut­ti e due i gior­na­li uscirono.

Una mani­fe­sta­zio­ne di mas­sa a Pie­tro­gra­do duran­te l’ot­to­bre 1917

II gior­no 24 si incon­tra­ro­no del­le dif­fi­col­tà all’ufficio tele­fo­ni­co: vi si era­no inse­dia­ti gli allie­vi uffi­cia­li, e le tele­fo­ni­ste pro­tet­te da loro s’erano mes­se con­tro il Soviet. Esse smi­se­ro di dar­ci le comu­ni­ca­zio­ni. Quel­la era la pri­ma mani­fe­sta­zio­ne di sabo­tag­gio. II Comi­ta­to rivo­lu­zio­na­rio man­dò all’ufficio tele­fo­ni­co un repar­to di mari­nai che col­lo­ca­ro­no due can­non­ci­ni all’ingresso. I tele­fo­ni con­ti­nua­ro­no a fun­zio­na­re. Così comin­ciò la con­qui­sta del­le isti­tu­zio­ni amministrative.
II Comi­ta­to sede­va in per­ma­nen­za al ter­zo pia­no del­lo Smol’nyj in una stan­zi­na d’angolo. Là con­flui­va­no tut­te le noti­zie sui movi­men­ti di trup­pa, sul mora­le dei sol­da­ti e lavo­ra­to­ri, sull’agitazione nel­le caser­me, sul­le inten­zio­ni dei Cen­to Neri, sul­le tra­me degli uomi­ni poli­ti­ci bor­ghe­si e del­le amba­scia­te este­re, sul­la vita del Palaz­zo d’Inverno, sul­le sedu­te dei par­ti­ti del Soviet. Da tut­te le par­ti arri­va­va­no infor­ma­zio­ni. Veni­va­no lavo­ra­to­ri, sol­da­ti, uffi­cia­li, por­ti­nai, allie­vi uffi­cia­li, socia­li­sti, dome­sti­ci, mogli di impie­ga­ti. Mol­ti comu­ni­ca­va­no del­le scioc­chez­ze, altri por­ta­va­no noti­zie serie e pre­zio­se. Duran­te l’ultima set­ti­ma­na non ero nean­che usci­to dal­lo Smol’nyj, pas­sa­vo le not­ti vesti­to su un sofà di cuo­io, dor­mi­vo nei bre­vi inter­val­li, desta­to con­ti­nua­men­te da cor­rie­ri, esplo­ra­to­ri, cicli­sti, tele­gra­fi­sti e fre­quen­ti chia­ma­te tele­fo­ni­che. Si avvi­ci­na­va il momen­to deci­si­vo. II dado era tratto.
Nelia not­te del 25 Otto­bre, i mem­bri del Comi­ta­to rivo­lu­zio­na­rio si reca­ro­no nei distret­ti. Io rima­si solo. Più tar­di ven­ne Kame­nev. Egli era con­tra­rio all’insurrezione. Ma in quel­la not­te deci­si­va stet­te con me, nel­la stan­zi­na d’angolo del ter­zo pia­no che somi­glia­va ad un pon­te di coman­do. Nel­la stan­za atti­gua, vuo­ta, c’era il tele­fo­no, che scam­pa­nel­la­va sen­za inter­ru­zio­ne per cose impor­tan­ti e per cose futi­li. Quel suo­no dava mag­gior risal­to al silen­zio. Era faci­le imma­gi­nar­si Pie­tro­bur­go abban­do­na­ta, male illu­mi­na­ta, spaz­za­ta dal ven­to autun­na­le. I cit­ta­di­ni e gli impie­ga­ti ran­nic­chia­ti nei loro let­ti cer­ca­no di indo­vi­na­re che cosa avven­ga a quell’ora nel­le stra­de peri­co­lo­se, pie­ne di miste­ro. I quar­tie­ri ope­rai dor­mo­no il son­no vigi­le di un accam­pa­men­to in guer­ra. Nei palaz­zi del­lo zar si riu­ni­sco­no sfi­ni­te le com­mis­sio­ni dei par­ti­ti gover­na­ti­vi, e i fan­ta­smi viven­ti del­la demo­cra­zia incon­tra­no quel­li del­la monar­chia non anco­ra sva­ni­ti. Ogni tan­to le sete e le dora­tu­re del­le sale si immer­go­no nell’oscurità: man­ca il car­bo­ne. Nei distret­ti vigi­la­no i repar­ti di lavo­ra­to­ri, mari­nai e sol­da­ti. I gio­va­ni pro­le­ta­ri si scal­da­no per le stra­de intor­no ai fuo­chi. In due doz­zi­ne di tele­fo­ni si con­cen­tra la vita spi­ri­tua­le del­la capi­ta­le che in que­sta not­te d’autunno esce dal­le stret­to­ie di un’epoca per inau­gu­rar­ne una nuova.
Da tut­ti i distret­ti, dai sob­bor­ghi, dal­le por­te del­la cit­tà arri­va­no le noti­zie. Sem­bra che a tut­to si sia prov­vi­sto. I capi ai loro posti, le comu­ni­ca­zio­ni assi­cu­ra­te. Pen­so se non si è dimen­ti­ca­to nul­la. Que­sta not­te deci­de. Alla vigi­lia ho det­to, pro­fon­da­men­te con­vin­to, ai dele­ga­ti del secon­do Con­gres­so del Soviet: «Se voi non cede­re­te, non ci sarà la guer­ra civi­le. I nostri nemi­ci si arren­de­ran­no subi­to e voi pren­de­re­te il posto che vi spet­ta di dirit­to». Non c’è da dubi­ta­re che vin­ce­re­mo. La vit­to­ria è sicu­ra come può esse­re sicu­ra la vit­to­ria di un’insurrezione. Eppu­re que­ste ore sono pie­ne di pre­oc­cu­pa­zio­ne e di ten­sio­ne, poi­ché è que­sta la not­te che decide.

Mani­fe­sta­zio­ne di deci­ne di miglia­ia di mari­nai di Kron­stadt a sup­por­to del­la cau­sa bolscevica

Il Gover­no ha mobi­li­ta­to gli allie­vi uffi­cia­li dan­do ieri l’ordine all’incrociatore Auro­ra di allon­ta­nar­si dal­la Neva. Si trat­ta di quei mede­si­mi mari­nai bol­sce­vi­chi, ai qua­li nell’agosto Ts’ereteli si era pre­sen­ta­to col cap­pel­lo in mano per pre­gar­li di difen­de­re il palaz­zo d’Inverno con­tro Kor­ni­lov. I mari­nai han­no doman­da­to al Comi­ta­to Mili­ta­re Rivo­lu­zio­na­rio cosa doves­se­ro fare. E que­sta not­te l’Auro­ra è allo stes­so posto di ieri. Mi tele­fo­na­no da Pavlo­v­sk: il Gover­no chie­de da Pavlo­v­sk arti­glie­ria, da Tsar­skoe Selo un bat­ta­glio­ne d’assalto, da Pete­rhof la scuo­la allie­vi uffi­cia­li. Keren­skij ha radu­na­to nel Palaz­zo d’Inverno gli alfie­ri, gli uffi­cia­li, e i bat­ta­glio­ni fem­mi­ni­li. Io ordi­no ai com­mis­sa­ri di col­lo­ca­re dei repar­ti di sbar­ra­men­to sul­le stra­de che con­du­co­no a Pie­tro­gra­do e di man­da­re degli agi­ta­to­ri incon­tro alle trup­pe richie­ste dal Gover­no. Tut­ti i col­lo­qui avven­go­no per tele­fo­no e sono quin­di acces­si­bi­li agli agen­ti del Gover­no. Ma costo­ro sono anco­ra in gra­do di con­trol­la­re i nostri col­lo­qui? «Se non vi rie­sce di fer­ma­re le trup­pe col­le buo­ne, ricor­re­te alle armi. Voi ne rispon­de­te con la vostra testa». Io ripe­to più vol­te que­ste paro­le. Eppu­re non sono ben per­sua­so dell’efficacia dei miei ordi­ni. La rivo­lu­zio­ne è ancor sem­pre trop­po fidu­cio­sa, bona­ria, otti­mi­sti­ca e leg­ge­ra. Essa minac­cia più a paro­le che a fat­ti e spe­ra anco­ra di rag­giun­ge­re tut­to con la paro­la. Per ora ci rie­sce. Gli assem­bra­men­ti nemi­ci si squa­glia­no davan­ti al suo respi­ro infuo­ca­to. Già il 24 fu ema­na­to l’ordine di usa­re, appe­na i Cen­to Neri ten­tas­se­ro di orga­niz­za­re dei pogrom per le stra­de, le armi e di pro­ce­de­re sen­za mise­ri­cor­dia. Ma i nemi­ci non osa­no mostrar­si per le stra­de. Essi si rin­ta­na­no. La stra­da è nostra, tut­te le vie d’accesso sono guar­da­te dai nostri com­mis­sa­ri. La scuo­la allie­vi uffi­cia­li e gli arti­glie­ri non han­no accol­to l’invito del Gover­no. Sol­tan­to una par­te degli alfie­ri di Ora­nien­baum ha var­ca­to di not­te il nostro bloc­co, ed io segui­vo per tele­fo­no la loro avan­za­ta. Essi han­no ter­mi­na­to l’impresa man­dan­do allo Smol’nyj dei par­la­men­ta­ri. Il Gover­no prov­vi­so­rio ha cer­ca­to inu­til­men­te un appog­gio. Gli man­ca il ter­re­no sot­to i piedi.
La guar­dia ester­na del­lo Smol’nyj è sta­ta rin­for­za­ta con un nuo­vo repar­to di mitra­glie­ri. Le comu­ni­ca­zio­ni con tut­te le par­ti del­la guar­ni­gio­ne fun­zio­na­no. Tut­ti i reg­gi­men­ti ten­go­no pron­te del­le com­pa­gnie di guar­dia. I com­mis­sa­ri sono pron­ti. Nel­lo Smol’nyj ci sono dei dele­ga­ti di tut­te le trup­pe a dispo­si­zio­ne del Comi­ta­to rivo­lu­zio­na­rio per il caso che qual­che comu­ni­ca­zio­ne ven­ga inter­rot­ta. Da tut­ti i distret­ti del­la cit­tà si avan­za­no dei repar­ti arma­ti, suo­na­no ai por­to­ni o li apro­no sen­za suo­na­re ed occu­pa­no un uffi­cio dopo l’altro. Qua­si da per tut­to que­sti repar­ti incon­tra­no degli ami­ci che li han­no aspet­ta­ti con impa­zien­za. Alle sta­zio­ni ci sono dei comi­ta­ti nomi­na­ti appo­sta che sor­ve­glia­no i tre­ni in arri­vo e in par­ten­za, sopra tut­to i tra­spor­ti mili­ta­ri, Non c’è nul­la di inquie­tan­te. Tut­ti i pun­ti stra­te­gi­ci del­la cit­tà cado­no nel­le nostre mani: qua­si sen­za resi­sten­za, sen­za lot­ta, sen­za vit­ti­me. Il tele­fo­no annun­cia: «Sia­mo qui».
Tut­to va bene. Non può andar meglio. Pos­so lascia­re il tele­fo­no e mi sie­do sul sofà. La ten­sio­ne ner­vo­sa dimi­nui­sce. Allo­ra un’onda cupa di stan­chez­za mi bat­te alla fron­te. «Mi dia una siga­ret­ta!» dico a Kame­nev. In que­gli anni io fuma­vo anco­ra, ben­ché non sem­pre. Aspi­ro due boc­ca­te ed ho appe­na il tem­po di pen­sa­re: «Non ci man­ca­va che que­sto!» che già per­do i sen­si. La ten­den­za al deli­quio nei dolo­ri fisi­ci e nel males­se­re l’ho ere­di­ta­ta da mia madre. Ciò die­de occa­sio­ne ad un medi­co ame­ri­ca­no di dichia­rar­mi epi­let­ti­co. Quan­do rin­ven­go, vedo sopra me la fac­cia atter­ri­ta di Kame­nev. «Devo anda­re a pren­de­re qual­che medi­ci­na?» mi doman­da. «Sareb­be meglio», dico io dopo bre­ve rifles­sio­ne, «prov­ve­der da man­gia­re». Pro­cu­ro di ricor­dar­mi quan­do ho man­gia­to per l’ultima vol­ta, ma non ci rie­sco: in ogni caso non è sta­to ieri.
Alla mat­ti­na mi pre­ci­pi­to sul­la stam­pa bor­ghe­se e con­ci­lia­tri­ce. Non una paro­la dell’insurrezione. I gior­na­li han­no scrit­to e urla­to da osses­si dell’imminente insur­re­zio­ne di sol­da­ti arma­ti, di sac­cheg­gi, di ine­vi­ta­bi­li disa­stri e fiu­mi di san­gue, tan­to che sem­pli­ce­men­te non si sono accor­ti dell’insurrezione avve­nu­ta. La stam­pa ave­va pre­so per mone­ta sonan­te le nostre trat­ta­ti­ve con lo Sta­to Mag­gio­re e per … inde­ci­sio­ne le nostre dichia­ra­zio­ni diplo­ma­ti­che. Nel frat­tem­po i repar­ti di sol­da­ti e mari­nai han­no occu­pa­to, in base agli ordi­ni ema­na­ti dal­lo Smol’nyj, gli uffi­ci, sen­za con­fu­sio­ne, sen­za con­flit­ti per le stra­de, qua­si sen­za col­po feri­re, sen­za spar­gi­men­to di sangue.
Sot­to il nuo­vo regi­me il cit­ta­di­no si fre­gò gli occhi spa­ven­ta­to. È pro­prio vero che i bol­sce­vi­chi han­no con­qui­sta­to il pote­re? Da me si pre­sen­tò una depu­ta­zio­ne del­la Duma cit­ta­di­na, la qua­le mi fece del­le doman­de ini­mi­ta­bi­li: se inten­de­va­mo fare del­le dimo­stra­zio­ni, qua­li e quan­do, poi­ché la Duma «dove­va saper­lo alme­no 24 ore pri­ma». E qua­li misu­re il Soviet aves­se pre­so per il man­te­ni­men­to dell’ordine? Ecce­te­ra, ecce­te­ra. Io rispo­si spie­gan­do la dia­let­ti­ca del­la rivo­lu­zio­ne e pro­po­nen­do alla Duma cit­ta­di­na di par­te­ci­pa­re median­te un dele­ga­to ai lavo­ri del Comi­ta­to mili­ta­re del­la Rivo­lu­zio­ne. Ciò li spa­ven­tò più che l’insurrezione stes­sa. Io con­clu­si come sem­pre nel­lo spi­ri­to del­la dife­sa arma­ta: «Se il Gover­no use­rà il fer­ro, noi rispon­de­re­mo coll’acciaio». «Lei scio­glie­rà anche noi, per­ché sia­mo con­tra­ri a che il Soviet assu­ma il pote­re?». lo rispo­si: «La Duma cit­ta­di­na è un’espressione del pas­sa­to. Se si ver­rà ad un con­flit­to, noi pro­por­re­mo alla popo­la­zio­ne di rifa­re le ele­zio­ni, per­ché que­ste deci­da­no il pro­ble­ma del pote­re». La dele­ga­zio­ne si allon­ta­nò come era venu­ta. Ma lasciò die­tro a sé la sicu­rez­za del­la vittoria.
In que­sta not­te mol­te cose sono muta­te. Tre set­ti­ma­ne or sono abbia­mo con­qui­sta­to la mag­gio­ran­za nel Soviet di Pie­tro­gra­do. Noi era­va­mo, si può dire, una ban­die­ra: sen­za tipo­gra­fia, sen­za cas­sa, sen­za repar­ti. Anco­ra nel­la not­te scor­sa il Gover­no ha deci­so di arre­sta­re il Comi­ta­to mili­ta­re rivo­lu­zio­na­rio e anda­va rac­co­glien­do i nostri indi­riz­zi. E ora una depu­ta­zio­ne del­la Duma cit­ta­di­na si pre­sen­ta al Comi­ta­to rivo­lu­zio­na­rio “arre­sta­to” per infor­mar­si del pro­prio destino.
II Gover­no risie­de­va, come pri­ma, nel Palaz­zo d’Inverno, ma si muta­va ormai nel­la pro­pria ombra. Poli­ti­ca­men­te esso non esi­ste­va più. Duran­te il 25 otto­bre il Palaz­zo d’Inverno vie­ne cir­con­da­to dal­le trup­pe. Al toc­co io rife­ri­sco al Soviet di Pie­tro­gra­do in meri­to alla situa­zio­ne. I gior­na­li ne par­la­no come segue: «In nome del Comi­ta­to di guer­ra rivo­lu­zio­na­rio io dichia­ro che il Gover­no prov­vi­so­rio non esi­ste più (applau­si). Alcu­ni mini­stri sono sta­ti arre­sta­ti (bene!). Altri ver­ran­no arre­sta­ti nei pros­si­mi gior­ni o nel­le pros­si­me ore (applau­si). La guar­ni­gio­ne rivo­lu­zio­na­ria che è a dispo­si­zio­ne del Comi­ta­to di guer­ra ha sciol­to il Par­la­men­to (applau­si fra­go­ro­si). Noi abbia­mo veglia­to tut­ta la not­te e segui­to per tele­fo­no i repar­ti rivo­lu­zio­na­ri dei sol­da­ti e dei lavo­ra­to­ri che svol­ge­va­no in silen­zio la loro ope­ra. I cit­ta­di­ni han­no dor­mi­to in pace sen­za sospet­ta­re che intan­to un pote­re si sosti­tui­va all’altro. Abbia­mo occu­pa­to le sta­zio­ni, gli uffi­ci posta­li e tele­gra­fi­ci, l’agenzia tele­gra­fi­ca di Pie­tro­gra­do, la Ban­ca di Sta­to (applau­si fra­go­ro­si). II Palaz­zo d’Inverno non è pre­so anco­ra, ma il suo desti­no si deci­de­rà tra pochi minu­ti (applau­si)».
Que­sta nuda rela­zio­ne non dà un’idea pre­ci­sa degli umo­ri dell’assemblea. Aggiun­go dai miei ricor­di: quan­do ebbi rife­ri­to del cam­bia­men­to di Gover­no avve­nu­to nel­la not­te ci fu qual­che secon­do di silen­zio. Poi comin­cia­ro­no gli applau­si, ma non fra­go­ro­si, ben­sì pen­so­si. La sala assor­bi­va gli avve­ni­men­ti con cau­te­la. Quan­do la clas­se lavo­ra­tri­ce si era pre­pa­ra­ta alla lot­ta, un entu­sia­smo inde­scri­vi­bi­le l’aveva per­va­sa. Ora inve­ce che ave­va­mo pas­sa­ta la soglia del pote­re, l’entusiasmo cede­va il posto alla pre­oc­cu­pa­zio­ne e alla rifles­sio­ne. In ciò si rive­la­va un giu­sto istin­to sto­ri­co. Poi­ché davan­ti a noi era­no in aggua­to le resi­sten­ze del vec­chio mon­do, bat­ta­glie, fame, fred­do, disor­di­ne, san­gue e mor­te. Sapre­mo vin­ce­re tut­to ciò? si chie­de­va­no mol­ti fra sé. Quin­di, il momen­to di rifles­sio­ne. La rispo­sta di tut­ti era: la vin­ce­re­mo. In lon­ta­nan­za si vede­va­no lam­peg­gia­re nuo­vi peri­co­li. Ma ora regna­va il sen­ti­men­to del­la gran­de vit­to­ria e que­sto sen­ti­men­to can­ta­va nel san­gue. Esso si sfo­gò nel­la gran­dio­sa acco­glien­za che si fece a Lenin quan­do, dopo quat­tro mesi di assen­za, si pre­sen­tò per la pri­ma vol­ta a quell’assemblea.

Un distac­ca­men­to di guar­die ros­se a Pietrogrado

La sera tar­di, in atte­sa dell’apertura del Con­gres­so dei Soviet, io e Lenin ripo­sa­va­mo in una stan­za accan­to alla sala del­le sedu­te, dove non c’era nul­la all’infuori del­le sedie. Qual­cu­no ste­se sul pavi­men­to del­le coper­te, qual­cu­no (cre­do la sorel­la di Lenin) ci por­tò dei guan­cia­li. Noi gia­ce­va­mo uno accan­to all’altro. II cor­po e lo spi­ri­to si scio­glie­va­no come una mol­la trop­po tesa. Quel­lo era un ripo­so ben meri­ta­to. Ma non pote­va­mo dor­mi­re. Discor­re­va­mo sot­to voce. Lenin si era final­men­te tran­quil­liz­za­to per il ritar­do dell’insurrezione. I suoi timo­ri sva­ni­ro­no. Nel­la sua voce si udi­va un tono di par­ti­co­la­re cor­dia­li­tà. Egli chie­de­va infor­ma­zio­ni sui posti di guar­dia for­ma­ti dal­le guar­die ros­se, dai mari­nai e dai sol­da­ti. «Che spet­ta­co­lo gran­dio­so: il lavo­ra­to­re col fuci­le che si scal­da al falò accan­to al sol­da­to!» anda­va ripe­ten­do com­mos­so. «Final­men­te si son mes­si insie­me il sol­da­to e il lavo­ra­to­re!». Ma ad un trat­to escla­mò: «E il Palaz­zo d’Inverno? Non è anco­ra occu­pa­to, vero? Pur­ché non suc­ce­da qual­che gua­io!». lo vole­vo alzar­mi per anda­re a chie­de­re infor­ma­zio­ni tele­fo­ni­che, ma egli mi trat­ten­ne. «Resti lì, inca­ri­che­rò qual­cu­no». Ma non v’era mol­to tem­po da rima­ner sdra­ia­ti. Nel­la sala atti­gua fu aper­ta la sedu­ta del Con­gres­so del Soviet. La sorel­la di Lenin, Ul’janova cor­se da me. «Dan par­la, chia­ma­no lei». Dan espo­ne­va con voce fio­ca ai “con­giu­ra­ti” le sue riser­ve e pre­di­ce­va il crol­lo ine­vi­ta­bi­le dell’insurrezione. Egli chie­de­va che faces­si­mo una coa­li­zio­ne coi social­ri­vo­lu­zio­na­ri e men­sce­vi­chi. I par­ti­ti che anco­ra ieri, essen­do al pote­re, ave­va­no fat­to la cam­pa­gna con­tro di noi fic­can­do­ci in pri­gio­ne chie­de­va­no oggi, dopo che li ave­va­mo spo­de­sta­ti, che ci inten­des­si­mo con loro. lo rispo­si a Dan e con lui al pas­sa­to del­la rivo­lu­zio­ne: «Quel che è suc­ces­so non fu una con­giu­ra, ma una insur­re­zio­ne. L’insurrezione del­le mas­se popo­la­ri non ha biso­gno di giu­sti­fi­ca­zio­ni. Noi abbia­mo rin­sal­da­to l’energia rivo­lu­zio­na­ria dei lavo­ra­to­ri e dei sol­da­ti. Noi abbia­mo fuci­na­to aper­ta­men­te la volon­tà del­le mas­se ver­so l’insurrezione. La nostra insur­re­zio­ne ha vin­to. Ed ora ci pro­po­ne­te: rinun­cia­te alla vit­to­ria e veni­te a pat­ti. Con chi? Voi sie­te del­le mise­re figu­re effi­me­re, sie­te dei fal­li­ti, la vostra par­te è fini­ta, anda­te al posto che vi com­pe­te da oggi in poi: tra la spaz­za­tu­ra del­la sto­ria». Que­sta era l’ultima repli­ca di quel gran­de dia­lo­go che era comin­cia­to il 3 apri­le, nel gior­no e nell’ora dell’arrivo di Lenin a Pietrogrado.