Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Lotta di classe

Su salari e reddito

Su salari e reddito


Assal­to al Cielo

Pro­spet­ti­va Operaia

 

A segui­to dell’inasprimento del­la cri­si avve­nu­to negli ulti­mi due anni, ina­spri­men­to che ha por­ta­to a uno straor­di­na­rio incre­men­to dell’inflazione, mai così alta da quarant’anni a que­sta par­te, la que­stio­ne sala­ria­le e quel­la occu­pa­zio­na­le sono tor­na­te al cen­tro del dibat­ti­to poli­ti­co in Ita­lia e in tut­ta Euro­pa. Il pano­ra­ma mon­dia­le è attual­men­te carat­te­riz­za­to da una guer­ra impe­ria­li­sta, scop­pia­ta all’interno di una cri­si sani­ta­ria, di cui non si vede la fine, che con­ti­nua a lascia­re milio­ni di vit­ti­me e mor­ti in tut­to il mon­do. Que­sto pro­ces­so irre­ver­si­bi­le di imbar­ba­ri­men­to descri­ve la decom­po­si­zio­ne sto­ri­ca del domi­nio del capi­ta­le e si è tra­dot­to in un attac­co sen­za pre­ce­den­ti alla clas­se ope­ra­ia inter­na­zio­na­le, di cui la que­stio­ne sala­ria­le rap­pre­sen­ta il più evi­den­te e imme­dia­to aspet­to economico.
Nel vec­chio con­ti­nen­te, dal pun­to di vista poli­ti­co la rispo­sta a tale pro­ble­ma si è limi­ta­ta alme­no per ora a un accor­do pre­li­mi­na­re ine­ren­te all’introduzione di un sala­rio mini­mo tra i pae­si ade­ren­ti alla UE. Que­sto accor­do è sta­to sti­pu­la­to nel giu­gno scor­so a Stra­sbur­go tra Com­mis­sio­ne, Par­la­men­to e Con­si­glio e pre­ve­de una misu­ra che, nono­stan­te il limi­te di due anni per rece­pir­lo, non avrà nes­sun carat­te­re impo­si­ti­vo né tan­to meno esten­si­vo a tut­te le cate­go­rie di lavo­ra­to­ri, lascian­do liber­tà di agi­re ai gover­ni dei sin­go­li Sta­ti, mostran­do alla sto­ria come una rea­le inte­gra­zio­ne eco­no­mi­ca e socia­le in Euro­pa sia una chi­me­ra, nean­che scru­ta­bi­le all’orizzonte[1].
Le dif­fe­ren­ze tra le eco­no­mie e i rela­ti­vi mar­gi­ni d’intervento si sono rese evi­den­ti anche nel modo in cui i vari pae­si stan­no affron­tan­do le que­stio­ni sul lavo­ro. In Ger­ma­nia, per esem­pio, il Bun­de­stag ha aumen­ta­to a 12 euro l’ora il sala­rio mini­mo, anti­ci­pan­do anche le diret­ti­ve euro­pee. Il sala­rio mini­mo è attual­men­te pre­sen­te in 21 pae­si dell’UE (sep­pur in Bul­ga­ria, per esem­pio, risul­ta esse­re poco di più di 300 euro). In altri pae­si come Bel­gio, Spa­gna si discu­te anche di un’eventuale ridu­zio­ne dell’orario di lavo­ro a pari­tà di sala­rio[2]. L’Italia, come vedre­mo, rap­pre­sen­ta sem­pre più un fana­li­no di coda su que­sti temi.
La neces­si­tà del­la poli­ti­ca bor­ghe­se di far i con­ti da un lato con le cri­si strut­tu­ra­li del capi­ta­li­smo nel­la sua fase seni­le e dall’altro con i biso­gni del­le mas­se impo­ve­ri­te è al cen­tro del­la impas­se in cui si tro­va­no i gover­ni di tut­to il mon­do e del­le rela­ti­ve cri­si di gover­no. Era così pri­ma del­la pan­de­mia, soprat­tut­to per gli sta­ti più col­pi­ti dal­la cri­si del 2008, con lo scop­pio di ribel­lio­ni popo­la­ri che ha riguar­da­to soprat­tut­to popo­la­zio­ni sog­get­te a con­di­zio­ni di vita più pre­ca­rie; lo è oggi in manie­ra più cri­ti­ca ed este­sa ter­ri­to­rial­men­te. Lo sarà anche doma­ni, nel­la pro­spet­ti­va di ulte­rio­ri aggra­va­men­ti del­la cri­si eco­no­mi­ca, di una laten­te e irre­ver­si­bi­le cri­si ambien­ta­le e sani­ta­ria e di una guer­ra impe­ria­li­sta per­ma­nen­te, che incom­be ine­so­ra­bi­le sul­le sor­ti del pro­le­ta­ria­to e dell’umanità intera.

L’anomalia Ita­lia: il mala­to d’Europa
Tra le vec­chie poten­ze eco­no­mi­che del con­ti­nen­te euro­peo, l’Italia è il cuo­re del­la cri­si. Il “Bel Pae­se” è quel­lo che ospi­ta mag­gior­men­te le con­di­zio­ni mate­ria­li per l’esplosione di una bom­ba socia­le e allo stes­so tem­po con­tem­pla l’impotenza di qual­sia­si gover­no del­la bor­ghe­sia nel dare una rispo­sta sod­di­sfa­cen­te a tale situa­zio­ne. Anche dal pun­to di vista sala­ria­le e occu­pa­zio­na­le, infat­ti, la situa­zio­ne ita­lia­na appa­re assai più cri­ti­ca rispet­to a quel­la degli altri pae­si dell’eurozona.
A con­fer­ma di ciò, un arti­co­lo usci­to su La Stam­pa il 30 mag­gio scor­so ha divul­ga­to un gra­fi­co dell’Ocse, dove si mostra­va come tra i pae­si euro­pei l’Italia fos­se l’unico in cui negli ulti­mi trent’anni i sala­ri han­no subi­to una con­tra­zio­ne rispet­to al pote­re d’acquisto: ‑2,6%. Ben­ché fos­se essen­zial­men­te cosa nota, que­sto arti­co­lo ha dato il “la” a un ampio dibat­ti­to pub­bli­co tra par­ti socia­li e par­ti­ti politici.
Que­sta ten­den­za a una mag­gio­re per­di­ta del pote­re d’acquisto da par­te dei lavo­ra­to­ri e del­le lavo­ra­tri­ci in Ita­lia si è con­fer­ma­ta in manie­ra più acu­ta anche negli ulti­mi due anni. Nel mese di giu­gno, infat­ti, è sta­to pub­bli­ca­to uno stu­dio dal­la fon­da­zio­ne Di Vit­to­rio[3] che mostra come nel 2021 rispet­to all’Eurozona in Ita­lia non fos­se sta­to anco­ra recu­pe­ra­to il livel­lo sala­ria­le medio pre­ce­den­te alla pan­de­mia, in un con­te­sto aggra­va­to ulte­rior­men­te dal caro vita.
In Cgil si ten­de a limi­ta­re il pro­ble­ma dei sala­ri, cir­co­scri­ven­do­lo ai lavo­ra­to­ri che non han­no un con­trat­to nazio­na­le rin­no­va­to. Tut­ta­via, gli ulti­mi con­trat­ti rin­no­va­ti non pre­ve­do­no aumen­ti lega­ti all’inflazione e ai costi ener­ge­ti­ci e di con­se­guen­za non tute­la­no, a loro vol­ta, il pote­re d’acquisto.
Inol­tre, l’analisi por­ta­ta avan­ti dal­lo stu­dio attri­bui­sce alla sta­gna­zio­ne dei sala­ri la caren­za di posti occu­pa­ti nel­le pro­fes­sio­ni più qua­li­fi­ca­te. Que­sto fat­to­re è sta­to un cam­pa­nel­lo d’allarme, che ha suo­na­to in manie­ra sem­pre più assor­dan­te dai tem­pi del­la cri­si di Leh­man Bro­thers, ma che nes­su­no dei tan­ti gover­ni che si sono sus­se­gui­ti alla gui­da del pae­se ha sapu­to affrontare.
Le radi­ci eco­no­mi­che di que­sta “ano­ma­lia” e del­la seve­ri­tà con la qua­le la cri­si ha inve­sti­to l’Italia han­no ori­gi­ni lon­ta­ne e van­no ricer­ca­te soprat­tut­to nel­la debo­lez­za del­la strut­tu­ra indu­stria­le dell’economia ita­lia­na, mol­to lega­ta alla pre­sen­za del­la pic­co­la impre­sa che occu­pa una per­cen­tua­le di gran lun­ga più alta nel nostro tes­su­to indu­stria­le in con­fron­to agli altri tes­su­ti pro­dut­ti­vi euro­pei, com­po­sti da un nume­ro più gran­de di impre­se di medie dimen­sio­ni, le qua­li sono quel­le mag­gior­men­te dedi­te agli inve­sti­men­ti, non solo rispet­to alle pic­co­le ma anche rispet­to ai gran­di monopoli.
Infat­ti, se in ter­mi­ni nume­ri­ci il com­par­to Pmi del nostro Pae­se è alli­nea­to rispet­to all’Europa, con una per­cen­tua­le sul tota­le di impre­se simi­le ai Pae­si vici­ni qua­li Fran­cia e Spa­gna, si regi­stra un diva­rio sul­la pre­sen­za del­le microim­pre­se e ancor più sul­le gran­di. La pre­sen­za di microim­pre­se in Ita­lia (95%) è infat­ti più spic­ca­ta rispet­to alla media euro­pea (93%) e ad alcu­ni Pae­si, come la Ger­ma­nia (82%). Di con­tro, solo lo 0,09% del­le impre­se ita­lia­ne supe­ra i 250 addet­ti, con­tro lo 0,14% fran­ce­se, lo 0,19% euro­peo, e addi­rit­tu­ra lo 0,48% tede­sco. In Ita­lia, nel­le impre­se con meno di 10 dipen­den­ti lavo­ra­no il 45% degli occu­pa­ti, con­tro il 30% del­la Fran­cia, il 19% del­la Ger­ma­nia ed il 29,5% dell’UE. Nel­le gran­di impre­se, inve­ce, la for­za lavo­ro impie­ga­ta è solo il 21%, con­tro il 33% del­la Fran­cia, il 37% del­la Ger­ma­nia, e il 33% dell’UE[4].
Tali limi­ti del­la strut­tu­ra indu­stria­le si lega­no indis­so­lu­bil­men­te alla que­stio­ne sala­ria­le, a quel­la occu­pa­zio­na­le e alle dif­fi­col­tà ogget­ti­ve d’investimento; di con­se­guen­za anche all’aumento del­la spe­sa e del debi­to pub­bli­co (a cau­sa dell’aumento del­le poli­ti­che assi­sten­zia­li a cui si è sta­ti costret­ti), al ridi­men­sio­na­men­to degli spa­zi di mer­ca­to a cau­sa del­la dif­fi­col­tà di que­sto nel rias­sor­bi­re i con­su­mi, che a loro vol­ta han­no subi­to una dra­sti­ca ridu­zio­ne. Per­tan­to si deno­ta come le impre­se non inve­sto­no capi­ta­li e allo stes­so tem­po i capi­ta­li­sti si tro­va­no costret­ti a sva­lu­ta­re il capi­ta­le varia­bi­le (i sala­ri) per bilan­cia­re l’erosione dei pro­fit­ti. L’economia dei distret­ti, spe­cia­liz­za­ti nel­le pro­du­zio­ni “Made in Ita­ly”, a bas­so inve­sti­men­to tec­no­lo­gi­co, ha con­dan­na­to l’insieme dell’economia ad una insuf­fi­cien­te pro­dut­ti­vi­tà e ad una scar­sa for­ma­zio­ne di lavo­ra­to­ri spe­cia­liz­za­ti, e di con­se­guen­za a sof­fri­re le eco­no­mie con com­po­si­zio­ni orga­ni­che maggiori.
D’altro lato, un aumen­to degli sti­pen­di mini­mi e una ridu­zio­ne dell’orario di lavo­ro por­te­reb­be­ro ine­vi­ta­bil­men­te al fal­li­men­to di tan­te pic­co­le e micro impre­se. La man­can­za di pro­fes­sio­ni qua­li­fi­ca­te è anch’essa lega­ta alle ano­ma­lie del tes­su­to pro­dut­ti­vo: oltre il 40% del­le impre­se ita­lia­ne dichia­ra di non voler assu­me­re lau­rea­ti, a fron­te del 18% del­la Spa­gna e del 20% del­la Germania.
Quest’ultimo fat­to­re influi­sce for­te­men­te sul­la disoc­cu­pa­zio­ne gio­va­ni­le, che in Ita­lia è da mol­ti anni supe­rio­re alla media euro­pea (25% con­tro il 13%). Essa dipen­de essen­zial­men­te dal com­bi­na­to di un calo di lun­go perio­do del­la doman­da aggre­ga­ta e del­la cre­scen­te fra­gi­li­tà del­la nostra strut­tu­ra pro­dut­ti­va, par­ti­co­lar­men­te nel Mez­zo­gior­no, dove è caren­te la gran­de pro­du­zio­ne e la disoc­cu­pa­zio­ne gio­va­ni­le rag­giun­ge in alcu­ne zone anche pic­chi del 60%. A que­sta situa­zio­ne si è aggiun­to anche il bloc­co del­le assun­zio­ni nel pub­bli­co impie­go. Inol­tre, mol­te impre­se han­no tro­va­to con­ve­nien­te, in una fase reces­si­va, non licen­zia­re lavo­ra­to­ri alta­men­te qua­li­fi­ca­ti per non dover soste­ne­re i costi del­la for­ma­zio­ne dei neo‑assunti[5].
Un ele­men­to strut­tu­ra­le che, inol­tre, ren­de dif­fi­ci­le l’imposizione di un sala­rio mini­mo nel­le pic­co­le impre­se è la con­ti­gui­tà tra l’apparato giu­di­zia­rio del­lo Sta­to bor­ghe­se e il siste­ma del­le micro‑imprese (in par­ti­co­la­re bar e risto­ran­ti, soprat­tut­to al sud‑Italia) che con­sen­te lo sfrut­ta­men­to in nero di for­za lavo­ro gio­va­ni­le con livel­li sala­ria­li infi­mi e sen­za alcun con­trat­to rego­la­re di lavo­ro. Que­sto ele­men­to strut­tu­ra­le va appro­fon­di­to anche alla luce del­le ten­den­ze mon­dia­li del siste­ma capi­ta­li­sti­co a ricor­re­re in misu­ra sem­pre mag­gio­re al lavo­ro infor­ma­le (61% del lavo­ro com­ples­si­vo stan­do all’Ocse[6]).
In ogni sua fase la pan­de­mia ha evi­den­zia­to tali aspet­ti: da quel­la ini­zia­le in cui abbia­mo assi­sti­to a un aumen­to mag­gio­re del­la disoc­cu­pa­zio­ne (che ha col­pi­to soprat­tut­to i lavo­ra­to­ri meno qua­li­fi­ca­ti) e alle gran­di som­me di liqui­di­tà stan­zia­te per sal­va­re la pic­co­la impre­sa duran­te i loc­k­do­wn; fino al lasci­to attua­le di un’economia che si appre­sta ad entra­re in una fase di stag­fla­zio­ne, dove l’aumento dell’inflazione si sta spo­san­do con una cre­sci­ta qua­si ine­si­sten­te, già appiat­ti­ta rispet­to al rim­bal­zo veri­fi­ca­to­si nel 2021.
Tut­ta­via l’Italia era già entra­ta in que­sta nuo­va fase di cri­si del capi­ta­li­smo in con­di­zio­ni di estre­ma debo­lez­za. Gli ulti­mi decen­ni sono sta­ti carat­te­riz­za­ti dal­la chiu­su­ra di azien­de, dal­la per­di­ta di posti di lavo­ro, dall’aumento del­la pre­ca­rie­tà e dei lavo­ra­to­ri pove­ri (i wor­king poors nel 2019 era­no al 13% tra gli uomi­ni e al 10,1% tra le don­ne[7]) e dal­la scar­si­tà di inve­sti­men­ti pub­bli­ci e pri­va­ti, che han­no con­dan­na­to l’economia ita­lia­na a oscil­la­re costan­te­men­te tra la reces­sio­ne e la cre­sci­ta di qual­che deci­ma­le, ai limi­ti del collasso.
In que­sta cri­si straor­di­na­ria, il “mala­to d’Europa” ha com­bi­na­to la gra­vi­tà del­la cri­si glo­ba­le col decli­no irre­ver­si­bi­le del capi­ta­li­smo dei distret­ti indu­stria­li, giun­to alla fine dei suoi pochi decen­ni di gloria.

Cri­si politica
Le con­di­zio­ni pre­ca­rie in cui ver­sa l’economia ita­lia­na han­no reso il pae­se sem­pre più ingo­ver­na­bi­le, da qual­sia­si for­za del­la bor­ghe­sia. La cri­si pecu­lia­re del capi­ta­li­smo ita­lia­no ha ridot­to for­te­men­te i mar­gi­ni di mano­vra del rifor­mi­smo poli­ti­co: que­sto è il filo che lega i fal­li­men­ti di tut­ti i gover­ni che han­no gui­da­to il pae­se dal 2008 ad oggi, la faci­li­tà con cui le for­ze poli­ti­che per­do­no con­sen­si duran­te il pro­prio man­da­to e la ten­den­za all’astensione elettorale.
D’altro can­to, una rifor­ma strut­tu­ra­le del tes­su­to pro­dut­ti­vo ita­lia­no, neces­sa­ria per ridur­re il gap con le altre eco­no­mie, si scon­tre­reb­be ester­na­men­te con la cri­si eco­no­mi­ca glo­ba­le e inter­na­men­te con lo sta­to pre­ca­rio del­la cre­sci­ta eco­no­mi­ca aggra­va­to dal­la cri­si di debi­to che inve­ste il pae­se. Inol­tre, indur­reb­be uno shock tale da ali­men­ta­re ine­vi­ta­bil­men­te un’accelerazione del­la cri­si socia­le, che potreb­be dive­ni­re ingestibile.
L’instabilità del pote­re in Ita­lia mostra nel­la sua pecu­lia­ri­tà più cri­ti­ca l’impossibilità attua­le del gran­de capi­ta­le di gene­ra­re con­sen­si attor­no ad esso. È il rifles­so su sca­la nazio­na­le del­la per­di­ta di ini­zia­ti­va stra­te­gi­ca del­la bor­ghe­sia, che a livel­lo glo­ba­le sta tra­sci­nan­do l’umanità al cospet­to di una cata­stro­fe bel­li­ca mon­dia­le sen­za precedenti.
Ed è in que­sto con­te­sto di impas­se poli­ti­ca pri­va di una via d’uscita non cata­stro­fi­ca che si svi­lup­pa il dibat­ti­to poli­ti­co su pre­ca­rie­tà e disoc­cu­pa­zio­ne. Quan­do in pas­sa­to si è cer­ca­to di dare rispo­sta a pro­ble­ma­ti­che socia­li, mano­vre come Quo­ta 100 e Red­di­to di Cit­ta­di­nan­za si sono rive­la­te truf­fe e ne sono usci­te note­vol­men­te ridi­men­sio­na­te rispet­to alle pro­mes­se elet­to­ra­li; nel tem­po, poi, sono sta­te anche sman­tel­la­te. Allo stes­so modo, oggi la que­stio­ne del sala­rio mini­mo per come vie­ne posta dal­le for­ze rifor­mi­ste non garan­ti­reb­be il supe­ra­men­to del­le con­di­zio­ni di vita pre­ca­ria di gran par­te del­la clas­se lavo­ra­tri­ce. Da un lato esi­ste la neces­si­tà di inter­ve­ni­re su que­sti temi per evi­ta­re che la rab­bia socia­le pos­sa pren­de­re una for­ma atti­va e anche per far ripar­ti­re i con­su­mi, dall’altro c’è la dife­sa del gran­de capi­ta­le, che in man­can­za di inve­sti­men­ti rie­sce a col­ti­va­re gli uti­li tenen­do bas­si i sala­ri, e allo stes­so tem­po del­la pic­co­la impre­sa, in cui lavo­ra la qua­si metà degli ita­lia­ni e che non reg­ge­reb­be una simi­le onda d’urto.
Su que­ste tema­ti­che sono venu­te fuo­ri “ani­me diver­se” in par­la­men­to, dove il M5S e il Pd, o quan­to­me­no una sua par­te, appog­gia­no a paro­le un sala­rio mini­mo impo­sto per leg­ge (9 euro lor­de l’ora, che, oltre a rap­pre­sen­ta­re comun­que una mise­ria, non risol­ve­reb­be il pro­ble­ma del­la pre­ca­rie­tà) e difen­do­no, in par­te, il red­di­to di cit­ta­di­nan­za, come misu­ra neces­sa­ria per tam­po­na­re la disoc­cu­pa­zio­ne; nel mez­zo c’è Ita­lia Viva, con­tra­ria al red­di­to e favo­re­vo­le al sala­rio mini­mo; men­tre Lega, FdI, Fi sono for­te­men­te con­tra­rie a entram­be le misu­re. Attac­ca­no il red­di­to di cit­ta­di­nan­za per­ché fa con­cor­ren­za a con­trat­ti da fame pre­sen­ti in diver­si set­to­ri; attac­ca­no il sala­rio mini­mo in quan­to non si leghe­reb­be il sala­rio alla pro­dut­ti­vi­tà. La loro stra­te­gia è quel­la di schie­rar­si in manie­ra più diret­ta dal­la par­te degli inte­res­si imme­dia­ti del­le impre­se. È la ten­den­za per cui si sono distin­ti i gover­ni di destra nel mon­do negli ulti­mi anni (come Trump negli Sta­ti Uni­ti, Bol­so­na­ro in Bra­si­le, John­son in Inghil­ter­ra e pre­ce­den­te­men­te Macri in Argen­ti­na), che han­no appro­fon­di­to cri­si poli­ti­che ed eco­no­mi­che. La recen­te gestio­ne pan­de­mi­ca è un esem­pio di que­sto approc­cio, dove il virus vie­ne lascia­to cir­co­la­re libe­ra­men­te, pur di man­te­ne­re atti­va la pro­du­zio­ne. Se il cen­tro­de­stra doves­se sali­re al gover­no, potreb­be sol­tan­to appro­fon­di­re la cri­si di regime.
La via d’uscita indi­ca­ta da Dra­ghi, come pure da Lan­di­ni che ha accom­pa­gna­to con le lacri­me la cri­si del gover­no dei miglio­ri, era la stra­da del pat­to socia­le. Già per­cor­sa in que­sti anni da gover­ni, Con­fin­du­stria e buro­cra­zie dei sin­da­ca­ti con­fe­de­ra­li, que­sta stra­da ha sem­pli­ce­men­te favo­ri­to la sta­gna­zio­ne dei sala­ri e l’impoverimento del­la clas­se ope­ra­ia e i licen­zia­men­ti di diver­se miglia­ia di lavo­ra­to­ri da un lato e il fal­li­men­to del­la tran­si­zio­ne tec­no­lo­gi­ca per garan­ti­re all’industria ita­lia­na una mag­gio­re com­pe­ti­ti­vi­tà sui mer­ca­ti mon­dia­li dall’altro. Il Pat­to per la fab­bri­ca del 2018 per esem­pio è sta­to pro­mo­to­re di quel­la poli­ti­ca sala­ria­le che non solo non con­ce­de aumen­ti, ma non tute­la nean­che il pote­re d’acquisto di fron­te al caro vita. Una del­le poche con­ces­sio­ni di Con­fin­du­stria è sta­to l’adeguamento dei sala­ri rispet­to all’indice di rife­ri­men­to IPCA, più bas­so dell’inflazione rea­le ed anche epu­ra­to dagli aumen­ti ener­ge­ti­ci. Se tale stra­da ha por­ta­to inne­ga­bil­men­te il pro­le­ta­ria­to alle enne­si­me scon­fit­te sul pia­no eco­no­mi­co e poli­ti­co, allo stes­so tem­po non è nean­che riu­sci­ta a con­so­li­da­re il pote­re del­lo Sta­to e del­la bor­ghe­sia, né a lasciar­gli spi­ra­gli di cre­sci­ta eco­no­mi­ca scru­ta­bi­li all’orizzonte.
All’interno del­le stes­se for­ze che com­pon­go­no il pat­to socia­le, Uil, Cisl e Con­fin­du­stria si sono dichia­ra­te con­tra­rie all’introduzione di un sala­rio mini­mo per leg­ge. Per Stir­pe (Con­fin­du­stria) si potreb­be par­la­re di sala­rio mini­mo in una per­cen­tua­le tra il 40% e il 60% del sala­rio medio, una buf­fo­na­ta che quan­ti­fi­che­reb­be un even­tua­le sala­rio mini­mo tra i 4‑5 euro l’ora.
In ogni caso, per affron­ta­re il pro­ble­ma del­la per­di­ta di pote­re d’acquisto, il gover­no Dra­ghi duran­te il suo man­da­to non è anda­to oltre dei bonus una tan­tum, ridi­co­li negli impor­ti e otte­nu­ti attra­ver­so detas­sa­zio­ni; le uni­che pro­po­ste con­cre­te su aumen­ti sala­ria­li inve­ce non sono anda­te oltre il taglio del Cuneo fiscale.
Qua­lun­que sarà il gover­no che lo sosti­tui­rà dovrà fare i con­ti con la stes­sa impas­se sem­pre più pro­fon­da con cui si sono scon­tra­ti i gover­ni precedenti.

La neces­si­tà di una rispo­sta di classe
Nono­stan­te due anni di pan­de­mia, la guer­ra, gli attac­chi al sala­rio, l’aumento del­la disoc­cu­pa­zio­ne, il caro­vi­ta, i licen­zia­men­ti e la pre­ca­rie­tà, in Ita­lia non si è anco­ra regi­stra­ta una rispo­sta par­te­ci­pa­ta del­la clas­se, sfi­du­cia­ta, diso­rien­ta­ta e total­men­te orfa­na di un rife­ri­men­to poli­ti­co. La cri­si del­la poli­ti­ca bor­ghe­se ha tra­sci­na­to con sé anche quel­la di tut­ta la sini­stra (libe­ra­le, radi­ca­le, “di clas­se”), del sin­da­ca­to e del­la dire­zio­ne poli­ti­ca del pro­le­ta­ria­to, che in segui­to alle scon­fit­te del ‘900 ha fini­to per far­si det­ta­re l’agenda poli­ti­ca dal­la bor­ghe­sia. In que­sto modo le sini­stre ten­den­ti all’opportunismo han­no fat­to pro­pria l’agonia del­la bor­ghe­sia arric­chen­do di anno in anno le deco­ra­zio­ni per il pro­prio fune­ra­le, tra­sci­nan­do fal­li­men­tar­men­te i loro pro­gram­mi e la loro stra­te­gia ver­so la vec­chia social­de­mo­cra­zia, nell’epoca di decom­po­si­zio­ne del capi­ta­li­smo dove rifor­me che pos­sa­no por­ta­re a miglio­ra­men­ti di vita sono impraticabili.
Ben­ché venia­mo da una lun­ga fase di asso­pi­men­to poli­ti­co del pro­le­ta­ria­to inter­na­zio­na­le, la clas­se ope­ra­ia è l’unico sog­get­to che, per la strut­tu­ra stes­sa del­la socie­tà capi­ta­li­sta, abbia nel­le sue mani l’iniziativa poli­ti­ca di fron­te alla cri­si e alla cata­stro­fe. L’unica stra­da per­cor­ri­bi­le in tali sce­na­ri è quel­la del­la lot­ta di clas­se basa­ta su una stra­te­gia poli­ti­ca indi­pen­den­te, che sle­ghi la sua azio­ne da quel­la del­la bor­ghe­sia e del­le buro­cra­zie sin­da­ca­li, sem­pre più impe­gna­te a spe­gne­re il fuo­co e tene­re sepa­ra­te le lot­te, viven­do esse stes­se nel peren­ne timo­re di un risve­glio con­flit­tua­le del­le mas­se lavo­ra­tri­ci, il qua­le mine­reb­be i pri­vi­le­gi mate­ria­li di una casta che vive al di sopra e sul­le spal­le di quei lavo­ra­to­ri che dichia­ra di difendere.
La via dell’unità nazio­na­le spon­so­riz­za­ta da gover­ni, impre­se e buro­cra­zie sin­da­ca­li, tesa a paci­fi­ca­re il con­flit­to tra le clas­si, sta por­tan­do il pro­le­ta­ria­to e l’umanità inte­ra ver­so la cata­stro­fe eco­no­mi­ca, socia­le, mili­ta­re e nuclea­re. Essa non paci­fi­ca il con­flit­to né a livel­lo loca­le, dove le bri­cio­le lascia­te ai lavo­ra­to­ri e alle lavo­ra­tri­ci risul­ta­no esse­re insuf­fi­cien­ti a fre­na­re la pre­ca­rie­tà cre­scen­te, né a livel­lo inter­na­zio­na­le dove nel con­te­sto di putre­scen­za del capi­ta­li­smo ne innal­za­no il livel­lo ver­so qual­co­sa che non ha pre­ce­den­ti nel­la sto­ria: una guer­ra mon­dia­le su sca­la ter­ri­to­ria­le assai più ampia del­le pre­ce­den­ti e con un poten­zia­le distrut­ti­vo mai testa­to prima.
Le con­di­zio­ni ogget­ti­ve attua­li sol­le­va­no la que­stio­ne del pote­re. Le con­ti­nue cri­si poli­ti­che, com­pre­sa l’ultima del gover­no Dra­ghi ne sono la dimo­stra­zio­ne. Nascon­de­re que­sta real­tà sot­to la pol­ve­re dell’arretratezza del fat­to­re sog­get­ti­vo con­du­ce solo ad appro­fon­di­re lo stes­so pro­ble­ma di arre­tra­tez­za, lascian­do nel­le mani del­la bor­ghe­sia le sor­ti dell’umanità e arren­den­do­si alla scon­fit­ta e alla “fine del­la Sto­ria”, che di fron­te alla real­tà attua­le appa­re più che mai come una con­ce­zio­ne grot­te­sca. Qual­sia­si scor­cia­to­ia alla lot­ta per il pote­re del­la clas­se sfrut­ta­ta por­ta a vico­li cie­chi oppu­re ad approc­ci pura­men­te a‑dialettici e idea­li­sti, non­ché autoassolutori.
Ma tale lot­ta per il pote­re non va dichia­ra­ta, va costrui­ta, con tut­te le dif­fi­col­tà dell’attuale con­te­sto. Muo­ver­si in tale con­te­sto è però una prio­ri­tà per i rivo­lu­zio­na­ri, neces­sa­rio per costrui­re una rispo­sta di clas­se e un pon­te tra l’attuale livel­lo di coscien­za e di sfi­du­cia nel­la lot­ta e la costru­zio­ne di un pros­si­mo scio­pe­ro gene­ra­le real­men­te par­te­ci­pa­to fino alla com­pren­sio­ne da par­te del­le mas­se pro­le­ta­rie del­la neces­si­tà del­la rivo­lu­zio­ne, posta sem­pre più in evi­den­za dal­la storia.
La lot­ta per il red­di­to, per il sala­rio, per l’occupazione, per una ridu­zio­ne dell’orario lavo­ra­ti­vo (fer­mo a 50 anni fa, nono­stan­te i pro­gres­si del­la tec­no­lo­gia) a pari­tà di sala­rio, con­ti­nua ad esse­re attua­le in quan­to rispec­chia le esi­gen­ze imme­dia­te del­le mas­se, col­pi­te sem­pre più dal­la cri­si. Le vec­chie riven­di­ca­zio­ni del pro­gram­ma mini­mo assu­mo­no oggi più di ieri un valo­re poli­ti­co, che va oltre la sem­pli­ce lot­ta eco­no­mi­ca e con­ser­va­no, quin­di, la loro vita­li­tà solo nel qua­dro di un’ottica rivo­lu­zio­na­ria. Sen­za que­sta pro­spet­ti­va sono con­dan­na­te alla scon­fit­ta e ad ali­men­ta­re la sfi­du­cia nel­la lot­ta stes­sa, come è suc­ces­so in que­sti anni.
Le riven­di­ca­zio­ni di sala­rio e lavo­ro non sono in con­tra­sto con quel­la del red­di­to ai disoc­cu­pa­ti, come sosten­go­no talu­ne orga­niz­za­zio­ni “di clas­se” eclet­ti­che e mas­si­ma­li­ste ma, soprat­tut­to, total­men­te avul­se dai biso­gni ele­men­ta­ri del­le mas­se, in par­ti­co­la­re nel Mez­zo­gior­no d’Italia. Ma non sono nean­che riven­di­ca­zio­ni sepa­ra­bi­li per cui una cer­ta sini­stra di movi­men­to pun­ta tut­to su red­di­to di base, red­di­to uni­ver­sa­le, red­di­to di cit­ta­di­nan­za (defi­ni­zio­ne che infat­ti non nasce con la pro­po­sta filo­pa­dro­na­le del Movi­men­to 5 Stel­le ma con quel­la di un pez­zo di sini­stra auto­no­ma e anta­go­ni­sta), e via discor­ren­do, sci­vo­lan­do nel più insul­so e aclas­si­sta anti‑lavorismo. Riven­di­ca­re la pie­na occu­pa­zio­ne resta l’asse cen­tra­le del­la poli­ti­ca dei comu­ni­sti in tema di lavo­ro e van­no con­tem­po­ra­nea­men­te riven­di­ca­ti tut­ti gli stru­men­ti per otte­ner­la, come la ridu­zio­ne dell’orario di lavo­ro a pari­tà di sala­rio, ma va riven­di­ca­to anche il sala­rio di disoc­cu­pa­zio­ne per tut­ti quei pro­le­ta­ri e quel­le pro­le­ta­rie che nel frat­tem­po que­sto mala­to mer­ca­to del lavo­ro non rie­sce ad assorbire.
Per­tan­to, alla cri­si socia­le gene­ra­liz­za­ta che inglo­ba nel tem­po un nume­ro sem­pre più ampio di per­so­ne biso­gna rispon­de­re con una cam­pa­gna di agi­ta­zio­ne nei luo­ghi di lavo­ro, nel sin­da­ca­to e nei ter­ri­to­ri, che par­ta dai biso­gni mate­ria­li del­le mas­se lavo­ra­tri­ci e disoc­cu­pa­te e dimo­stri l’incompatibilità del­le loro riven­di­ca­zio­ni con il domi­nio del capi­ta­le, che costrui­sca su tali biso­gni un pro­gram­ma poli­ti­co di lot­ta alle poli­ti­che bor­ghe­si, le qua­li per sop­pe­ri­re alla loro cri­si sto­ri­ca non pos­so­no che aumen­ta­re il livel­lo di sfrut­ta­men­to, di pre­ca­rie­tà e di mise­ria socia­le. Per una rispo­sta ope­ra­ia su que­sti temi cre­dia­mo sia neces­sa­rio rivendicare:

– Con­tro l’impoverimento cre­scen­te del­la clas­se ope­ra­ia a van­tag­gio dei capitalisti:
Sala­rio mini­mo per tut­te le cate­go­rie di alme­no 1600 euro net­ti; sca­la mobi­le dei sala­ri ossia l’agganciamento auto­ma­ti­co dei sala­ri al caro­vi­ta che la cri­si e la guer­ra pro­dur­ran­no sem­pre più.
CONDIZIONI DI VITA DECENTI PER TUTTI!

– Occor­re uni­re i lavo­ra­to­ri e i disoc­cu­pa­ti che le for­ze del­la bor­ghe­sia cer­ca­no sem­pre di met­te­re gli uni con­tro gli altri, quindi:
Sca­la mobi­le del­le ore di lavo­ro, ossia la redi­stri­bu­zio­ne di tut­to il lavo­ro che c’è tra i lavo­ra­to­ri, occu­pa­ti e disoc­cu­pa­ti; ridu­zio­ne del­la gior­na­ta e del­la set­ti­ma­na lavo­ra­ti­va a pari­tà di sala­rio a non più di 6 ore al gior­no e 30 ore la set­ti­ma­na. Gior­na­ta lavo­ra­ti­va di 4 ore per il per­so­na­le sani­ta­rio e per i lavo­ri più usuranti.
LAVORARE MENO, LAVORARE TUTTI!

Sala­rio socia­le ai disoc­cu­pa­ti di 1100 euro net­ti pro‑capite (e non per nucleo fami­lia­re come acca­de oggi col RdC)!

Abo­li­zio­ne del Jobs Act e di tut­te le leg­gi del pre­ca­ria­to, tra­sfor­ma­zio­ne dei con­trat­ti pre­ca­ri in con­trat­ti a tem­po pie­no e indeterminato.
LOTTA AL PRECARIATO!

Abo­li­zio­ne del­la leg­ge For­ne­ro e ritor­no al siste­ma retri­bu­ti­vo, ossia finan­zia­to dal­la fisca­li­tà gene­ra­le, con pen­sio­ni pari all’80% dell’ultimo sala­rio e non infe­rio­ri a 1400 euro al mese; siste­ma pen­sio­ni­sti­co con mas­si­mo 30 anni di lavo­ro o 57 anni di età, 55 per i lavo­ri più usuranti.

– Biso­gna scon­fig­ge­re i ten­ta­ti­vi del­la bor­ghe­sia di divi­de­re i lavo­ra­to­ri dal­le lavoratrici:
Pari­tà sala­ria­le; ester­na­liz­za­zio­ne del lavo­ro di cura in tut­te le sue for­me; rico­no­sci­men­to, tra­mi­te per­mes­si, con­ge­di e giorni‑malattia dedi­ca­ti, del­le spe­ci­fi­che neces­si­tà del­le don­ne, dei tran­sgen­der e transessuali.

– Biso­gna scon­fig­ge­re i ten­ta­ti­vi del­la bor­ghe­sia di divi­de­re i lavo­ra­to­ri ita­lia­ni dai lavo­ra­to­ri migran­ti, desti­na­ti ad aumen­ta­re di nume­ro con la guer­ra e la cri­si che avanza:
Abo­li­zio­ne dei cen­tri di per­ma­nen­za tem­po­ra­nea; per­mes­so di sog­gior­no per tut­ti e cit­ta­di­nan­za ita­lia­na con pie­ni dirit­ti poli­ti­ci (a par­ti­re dal dirit­to di voto) a tut­ti gli stra­nie­ri pre­sen­ti sul ter­ri­to­rio ita­lia­no già da tre mesi.

Un risve­glio del­la lot­ta su que­sti temi (come è già suc­ces­so in varie ribel­lio­ni popo­la­ri scop­pia­te per il glo­bo) innal­ze­rà ine­vi­ta­bil­men­te il livel­lo del­lo scon­tro tra clas­si, met­ten­do anco­ra più in evi­den­za l’incompatibilità tra gli inte­res­si di sfrut­ta­ti e sfrut­ta­to­ri; di con­se­guen­za la lot­ta per tali riven­di­ca­zio­ni con­ser­va la sua vita­li­tà solo all’interno di un pro­gram­ma di lot­ta più ampio per il pote­re e per la rivo­lu­zio­ne socia­le, che attac­chi al con­tem­po il plu­sva­lo­re e la pro­prie­tà e miri a scon­fig­ge­re, espro­pria­re ed eli­mi­na­re dal­la sto­ria la clas­se degli sfruttatori!


Note

[1] “L’Europa dice sì al sala­rio mini­mo”, Col­let­ti­va, 7/6/2022.
[2] “In Euro­pa si dan­no tut­ti da fare per rifor­ma­re il lavo­ro”, Col­let­ti­va, 7/7/2022.
[3] “L’Italexit degli sti­pen­di”, Col­let­ti­va, 10/6/2022 (La fon­da­zio­ne Di Vit­to­rio è l’Istituto nazio­na­le del­la Cgil per la ricer­ca sto­ri­ca, eco­no­mi­ca, socia­le e del­la for­ma­zio­ne sindacale).
[4] “Le Pmi nell’ecosistema impren­di­to­ria­le ita­lia­no: un con­fron­to con l’UE”, Blog Osservatori.net, 9/3/2020.
[5] “Le cau­se del­la disoc­cu­pa­zio­ne gio­va­ni­le in Ita­lia”, Eco­no­mia e poli­ti­ca, 25/2/2022.
[6] “Oltre il 61 per cen­to dei lavo­ra­to­ri nel mon­do ope­ra nell’economia infor­ma­le”, Orga­niz­za­zio­ne Inter­na­zio­na­le del Lavo­ro, 30/4/2018.
[7] “Wor­king poor, l’Italia non sa con­tar­li. Il sala­rio mini­mo li aiu­te­reb­be?”, Tor­tu­ga, 19/3/2022.