In occasione di un dibattito televisivo svoltosi in Argentina in vista delle imminenti elezioni presidenziali, la candidata del FitU, Myriam Bregman, ha subito un violento attacco da parte dei contraddittori per aver sostenuto che Israele è uno Stato occupante che ha instaurato un regime di apartheid ai danni del popolo palestinese.
Lo studioso marxista Rolando Astarita, i cui scritti tante volte abbiamo ospitato su questo sito, ha preso spunto dall’episodio per argomentare diffusamente a sostegno di quanto affermato da Bregman in questo testo che presentiamo tradotto in italiano.
Buona lettura.
La redazione
Myriam Bregman ha ragione: è apartheid
Rolando Astarita
Durante il dibattito in vista delle elezioni presidenziali, Myriam Bregman del Pts‑FitU ha denunciato la politica dello Stato di Israele come “occupazione e apartheid contro il popolo palestinese”. Quasi immediatamente è stata accusata di essere antisemita e filonazista da quasi tutto l’arco politico borghese e dai giornalisti dei media mainstream. È stata anche accusata di essere “ignorante”, “crudele” e “ideologicamente fanatica”.
Ebbene, il fatto è che più di due anni fa la Ong israeliana B’Tselem ha sostenuto la stessa cosa che ha detto Bregman: che in Israele esiste un regime di apartheid. Una Commissione delle Nazioni Unite e le organizzazioni civili palestinesi lo avevano già stabilito in precedenza. Dedichiamo questa nota a questi rapporti.
Il rapporto di B’Tselem
Il documento di B’Tselem, “Una supremazia ebraica dal fiume Giordano al Mediterraneo: è apartheid” (vedi qui), è stato pubblicato il 12 gennaio 2021. B’Tselem è il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati. È stato fondato nel febbraio 1989. All’epoca, l’esercito israeliano stava reprimendo la Prima Intifada (secondo B’Tselem, solo nel 1988 sono stati uccisi 311 palestinesi). Di seguito riassumo e cito parti del documento.
B’Tselem sostiene che il regime israeliano instaura in tutti i territori che controlla (quelli sotto la sovranità territoriale israeliana, Gerusalemme Est, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania) un regime di apartheid. Il principio organizzativo che sta alla base della vasta gamma di politiche israeliane: l’avanzamento e la perpetuazione della supremazia di un gruppo – gli ebrei – sull’altro – i palestinesi. Per questo motivo B’Tselem rifiuta la percezione più o meno diffusa che Israele sia una democrazia (all’interno della Linea Verde), che allo stesso tempo sostiene un’occupazione militare temporanea. Dopo aver considerato l’insieme delle politiche e delle leggi che Israele ha messo in atto per consolidare il suo controllo sui palestinesi, B’Tselem conclude che quello di Israele è un regime di apartheid.
Il principale strumento utilizzato da Israele per attuare il principio della supremazia ebraica è quello di produrre lo spazio geograficamente, demograficamente e politicamente. In altre parole, gli ebrei vivono in un unico spazio continuo, in cui godono di pieni diritti e di autodeterminazione. Al contrario, i palestinesi vivono in uno spazio frammentato in diverse unità, ognuna con un diverso insieme di diritti – concessi o negati da Israele, ma sempre inferiori a quelli concessi agli ebrei. Il regime israeliano attua questo principio organizzativo in quattro aree principali:
- Terra. Israele opera per giudaizzare l’intera area, trattando la terra come una risorsa destinata alla popolazione ebraica. Dal 1948 si è appropriato di oltre il 90% della terra all’interno della Linea Verde e ha costruito centinaia di comunità per la popolazione ebraica. Dal 1967 ha applicato questa politica in Cisgiordania, costruendo più di 280 insediamenti per circa 600.000 cittadini ebrei israeliani. Al contrario, non ha costruito una sola comunità per la popolazione palestinese nell’intera area che si estende dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano (ad eccezione di alcune comunità costruite per concentrare la popolazione beduina, dopo averla espropriata di quasi tutti i diritti di proprietà).
- Cittadinanza. Gli ebrei che vivono in qualsiasi parte del mondo, i loro figli e nipoti e i loro coniugi hanno diritto alla cittadinanza israeliana. Al contrario, i palestinesi non possono migrare nelle aree controllate da Israele, anche se loro stessi, i loro genitori o i loro nonni sono nati e hanno vissuto lì. Israele rende difficile per i palestinesi che vivono in una delle unità controllate ottenere lo status in un’altra e ha approvato una legislazione che vieta di concedere lo status all’interno della Linea Verde ai palestinesi che si sposano con israeliani.
- Libertà di movimento: i cittadini israeliani godono di libertà di movimento in tutta l’area controllata da Israele (ad eccezione della Striscia di Gaza) e possono entrare e uscire liberamente dal Paese. I palestinesi devono richiedere a Israele un permesso speciale per viaggiare tra le unità (e talvolta anche all’interno); anche l’espatrio richiede l’approvazione israeliana.
- Partecipazione politica. I cittadini palestinesi di Israele possono votare e candidarsi. Tuttavia, i leader politici minano costantemente la legittimità dei rappresentanti politici palestinesi. I circa cinque milioni di palestinesi che vivono nei territori occupati, compresa Gerusalemme Est, non possono partecipare al sistema politico che governa le loro vite e determina il loro futuro. Vengono loro negati anche altri diritti politici, tra cui la libertà di espressione e di associazione.
In tutta l’area, il controllo su questi aspetti della vita è nelle mani di Israele. Lo Stato israeliano ha il controllo esclusivo sulla registrazione della popolazione, sull’assegnazione delle terre, sulle liste degli elettori e sul diritto (o sul suo rifiuto) di viaggiare all’interno di un’area e entrare od uscire da qualsiasi parte di un’area. Il regime israeliano è diventato sempre più esplicito riguardo alla sua ideologia suprematista ebraica, un processo che ha avuto due tappe importanti e rivelatrici negli ultimi anni. Una è stata la promulgazione della Legge fondamentale: Israele, lo Stato nazionale del popolo ebraico, dichiara fondamentale e legittima la distinzione tra ebrei e non ebrei e consente la discriminazione istituzionale nella gestione e nello sviluppo del territorio, negli alloggi, nella cittadinanza, nella lingua e nella cultura. La seconda pietra miliare è arrivata sotto forma di dichiarazioni ufficiali riguardanti l’annessione formale di più parti della Cisgiordania, dimostrando le intenzioni a lungo termine di Israele e screditando la pretesa “occupazione temporanea”.
B’Tselem sottolinea che l’occupazione militare non è finita. Presentare Israele come una “democrazia” da un lato della Linea Verde, mentre occupa “temporaneamente” milioni di persone dall’altro lato, è avulso dalla realtà. Una simile caratterizzazione mostra di ignorare che questo stato di cose esiste da più di 50 anni e non tiene conto delle centinaia di migliaia di coloni ebrei che vivono a est della Linea Verde. Trascura l’annessione de jure di Gerusalemme Est e l’annessione de facto del resto della Cisgiordania. Questi fatti portano alla conclusione che non esistono due regimi paralleli, ma un unico regime che governa l’intera area e l’intera popolazione che la abita.
Il rapporto UN-ESCWA 2017
Esaminiamo ora il Rapporto 2017 della Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Africa occidentale (ESCWA), “Israeli Practices towards the Palestinian People and the Question of Apartheid”, Beirut. L’ESCWA è una commissione regionale sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite, composta da venti Stati membri provenienti da tutte le regioni del Nord Africa e del Medio Oriente, ad eccezione di Israele.
Gli autori del Rapporto sono Richard Falk dell’Università di Yale e ricercatore presso l’Orfalea Center of Global and International Studies dell’Università della California, dal 2008 al 2014 relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967; e Virginia Tilley, docente di scienze politiche alla Southern Illinois University. Riportiamo alcune parti del Rapporto.
In sostanza, il rapporto afferma che Israele ha instaurato un regime di apartheid che domina l’intero popolo palestinese. Il rapporto specifica che “il crimine di apartheid” significa atti disumani commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo o gruppi razziali, con l’intenzione di mantenere tale regime. La “razza” è intesa come una costruzione sociale e storica. Pertanto, la questione non è se le identità ebraiche e palestinesi siano “razziali”, ma se queste identità funzionino come gruppi razziali nell’ambiente locale israeliano e palestinese.
Il Rapporto presenta come caso caratteristico dell’apartheid israeliano la sua politica fondiaria. Da un lato, perché la Legge fondamentale di Israele (la Costituzione) stabilisce che la terra detenuta dallo Stato di Israele non può essere trasferita in alcun modo. Dall’altro, perché la Israel Lands Authority amministra la terra dello Stato, che comprende il 93% della terra all’interno dei confini riconosciuti a livello internazionale, e per legge la terra è preclusa all’uso, allo sviluppo o alla proprietà dei non ebrei. Una situazione che, inoltre, legalmente non può essere cambiata.
L’ingegneria demografica serve anche a mantenere Israele come Stato ebraico; la legge dà agli ebrei di tutto il mondo il diritto di entrare in Israele e di ottenere la cittadinanza israeliana, indipendentemente dal loro Paese di origine o dal fatto che abbiano legami con Israele‑Palestina. A loro volta, le agenzie statali israeliane facilitano l’immigrazione degli ebrei e li assistono in questioni come l’uso della terra e altri temi. D’altra parte, la politica israeliana rifiuta il ritorno di qualsiasi rifugiato o esiliato palestinese nel territorio controllato da Israele (i rifugiati e gli esiliati ammontano a circa sei milioni di persone).
Due ulteriori attributi di un regime sistematico di dominazione razziale devono essere presenti per qualificare il regime come un caso di apartheid. Il primo è l’identificazione delle persone oppresse come appartenenti a uno specifico “gruppo razziale”. La Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale definisce la discriminazione razziale come qualsiasi distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di annullare o compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale o in qualsiasi altro campo della vita pubblica. Su questa base, il Rapporto ritiene che nel contesto geopolitico della Palestina, ebrei e palestinesi possano essere considerati “gruppi razziali”.
La seconda caratteristica riguarda la delimitazione e il carattere del gruppo o dei gruppi coinvolti. Lo status dei palestinesi come popolo legittimato a esercitare il diritto all’autodeterminazione è stato legalmente stabilito dalla Corte internazionale di giustizia nel 2004. Su questa base, il Rapporto ESCWA esamina il trattamento riservato da Israele al popolo palestinese nel suo complesso, considerando le diverse circostanze della frammentazione geografica e giuridica del popolo palestinese come una condizione imposta da Israele.
Il Rapporto rileva che la frammentazione strategica del popolo palestinese è il metodo principale con cui Israele impone un regime di apartheid. La storia di guerre, spartizioni, annessioni de jure o de facto e occupazioni prolungate in Palestina ha portato il popolo palestinese a essere diviso in diverse regioni geografiche amministrate da diverse leggi. Questa frammentazione contribuisce a stabilizzare il regime di dominazione razziale sui palestinesi e ad indebolire la volontà e la capacità del popolo palestinese di organizzare una resistenza unitaria ed efficace. I metodi impiegati sono diversi, a seconda del luogo in cui vivono i palestinesi.
Dal 1967 i palestinesi come popolo hanno vissuto in quelli che il Rapporto definisce i quattro “domini”. Essi sono: 1) la legge civile, con restrizioni speciali per i palestinesi che vivono come cittadini in Israele. 2) La legge sulla residenza permanente, che vige per i palestinesi che vivono a Gerusalemme. 3) La legge militare che vige per i palestinesi, compresi quelli dei campi profughi, che vivono dal 1967 in condizioni di occupazione belligerante in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. 4) La politica di impedire il ritorno dei palestinesi, rifugiati o esiliati, che vivono al di fuori del territorio sotto il controllo di Israele.
Il primo dominio riguarda 1,7 milioni di palestinesi che sono cittadini di Israele. Per i primi vent’anni di esistenza del Paese hanno vissuto sotto la legge marziale e ora sono soggetti ad oppressione per il fatto di non essere ebrei. Questa politica si manifesta con servizi inferiori, leggi restrittive sulla zonizzazione e stanziamenti di bilancio limitati per le comunità palestinesi, oltre a restrizioni su posti di lavoro e opportunità professionali. I partiti politici palestinesi possono fare campagne per riforme minori e bilanci migliori, ma è costituzionalmente vietato contestare la legislazione che mantiene il regime razziale. I palestinesi hanno lo status di cittadinanza, ma non la nazionalità, che è riservata agli ebrei. I diritti “nazionali” nella legge israeliana significano diritti nazionali ebraici.
Il secondo dominio riguarda circa 300.000 palestinesi che vivono a Gerusalemme Est. Subiscono discriminazioni nell’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria, all’occupazione, alla residenza e ai diritti relativi alle politiche abitative. Subiscono anche sfratti e demolizioni di case che sono finalizzati alla politica israeliana di “bilanciamento demografico” a favore dei residenti ebrei. I palestinesi di Gerusalemme Est sono classificati come “residenti permanenti”. In quanto tali, non hanno la possibilità giuridica di contestare la legge israeliana e l’apartheid. Inoltre, in quanto “stranieri”, la residenza nella terra natale diventa un privilegio piuttosto che un diritto, sempre soggetto alla possibilità di revoca.
Il terzo dominio è il sistema di legge militare imposto a circa 4,6 milioni di palestinesi che vivono nei territori palestinesi occupati, di cui 2,7 milioni in Cisgiordania e 1,9 milioni nella Striscia di Gaza. I palestinesi sono governati dalla legge militare, mentre i 350.000 coloni ebrei sono governati dalla legge civile israeliana. Questo doppio regime è indicativo di un regime di apartheid, completato dall’amministrazione razzialmente discriminatoria della terra e dello sviluppo da parte di istituzioni nazionali ebraiche, incaricate di amministrare la “terra dello Stato” nell’interesse della popolazione ebraica.
Il quarto dominio si riferisce ai milioni di rifugiati ed esuli involontari palestinesi, la maggior parte dei quali si trova nei Paesi vicini. Ad essi è impedito il ritorno alle loro case in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Israele difende il suo rifiuto del ritorno dei palestinesi con un linguaggio francamente razzista: sostiene che i palestinesi costituiscono un “pericolo demografico” e che il loro ritorno altererebbe il carattere demografico di Israele al punto da eliminare lo Stato ebraico. La negazione del diritto al ritorno svolge un ruolo essenziale nel regime di apartheid, garantendo che la popolazione palestinese in Palestina non cresca tanto da minacciare il controllo militare di Israele sul territorio e/o da attribuire ai cittadini palestinesi in Israele un peso demografico tale per chiedere e ottenere pieni diritti democratici, eliminando così il carattere ebraico dello Stato di Israele.
Il Rapporto ritiene che, nel loro insieme, i quattro domini costituiscano un regime globale volto a garantire il dominio sui non ebrei sotto il controllo di Israele. Conclude che il peso delle prove supporta al di là di ogni ragionevole dubbio l’affermazione che Israele è colpevole di aver imposto un regime di apartheid al popolo palestinese, che rappresenta la commissione di un crimine contro l’umanità.
Reazione
L’indagine dell’ESCWA fece infuriare i governi israeliano e statunitense. Entrambi hanno spinto per il ritiro del Rapporto. Il Segretario generale dell’ONU Antonio Guterres acconsentì subito alle richieste di Israele e degli Usa. Il Rapporto è stato cancellato dal sito web contenente i rapporti dell’ESCWA[1] e la sua direttrice, la giordana Rima Khalaf, è stata costretta a dimettersi[2]. Khalaf, oltre ad essere critica verso la politica israeliana, era stata critica dei regimi arabi.
Organizzazioni civili palestinesi, 2019
Nel novembre 2019, otto organizzazioni palestinesi civili, regionali e internazionali presentarono un rapporto congiunto al Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD) denunciando la commissione del crimine di apartheid da parte di Israele sull’intero popolo palestinese. In questo modo, sostenne il Rapporto 2017 dell’ESCWA. Queste organizzazioni civili presentarono prove dettagliate del mantenimento dell’apartheid da parte di Israele nei confronti dei palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde e in quanto rifugiati ed esuli all’estero. Denunciarono la politica israeliana di frammentazione del popolo palestinese, attraverso il persistente rifiuto del ritorno dei rifugiati palestinesi e l’imposizione di restrizioni al movimento, alla residenza e all’accesso ai siti, in particolare la chiusura di Gerusalemme e Gaza e il rifiuto dell’unificazione familiare. Attraverso queste politiche e pratiche, Israele ha fatto in modo che i palestinesi provenienti da aree diverse non possano riunirsi, vivere insieme, condividere la loro cultura ed esercitare qualsiasi diritto collettivo, soprattutto l’autodeterminazione.
Due considerazioni aggiuntive
In primo luogo, caratterizzare la politica di Israele nei confronti dei palestinesi come apartheid non significa approvare l’uccisione indiscriminata di civili o soldati israeliani disarmati, o la cattura di ostaggi civili.
In secondo luogo, è necessario sottolineare il ruolo delle politiche di apartheid e di pulizia etnica nell’epoca attuale. L’uccisione deliberata di civili è un crimine di guerra. Questo è indubbio. Ma è anche un crimine di guerra dichiarare un assedio totale della Striscia di Gaza, impedendo l’ingresso di carburante, cibo, acqua, energia, medicine. Più precisamente, prendere la sua popolazione per fame è un crimine di guerra. Così come lo è il bombardamento massiccio della popolazione civile. Per dare una dimensione di ciò che sta accadendo nel momento in cui scriviamo: la Striscia di Gaza è un territorio lungo 43 chilometri e largo 10, dove vivono più di due milioni di persone, di cui quasi la metà è costituita da bambini. Netanyahu ha promesso di lasciare di Gaza solo macerie. Il suo ministro della Difesa sostiene che “stiamo combattendo contro animali umani”. Un altro alto funzionario del governo promette che Gaza diventerà “una tendopoli”. Gli aerei israeliani bombardano Gaza in modo massiccio e indiscriminato e alla popolazione viene detto di trasferirsi altrove. Ma non c’è nessun posto dove andare. Nessun posto dove trovare acqua, cibo, medicine, elettricità. È la bestialità dell’apartheid al suo massimo livello.
Infine, tre coincidenze
I giornalisti e i politici che in questi giorni attaccano Myriam Bregman per la sua denuncia di ciò che Israele sta facendo, concordano su tre punti: a) difendono la politica razzista di Israele; b) negano che si tratti di apartheid; c) etichettano come nazista e antisemita chiunque denunci il regime israeliano per quello che è. Grazie al potere conferito loro dai media mainstream, nascondono e bloccano qualsiasi forma di dibattito argomentato con prove e ragioni. E le denunce di B’Tselem, dell’ESCWA, delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani, di Myriam Bregman e di tanti altri? Beh, niente, “sono antisemiti e nazisti, anche ignoranti, se non figli di puttana”. Questa gente la chiama “difesa della democrazia, della libertà e della cultura”.
Note
[1] Effettivamente, la pagina web dell’ESCWA non contiene infatti più il rapporto. Tuttavia, esso è reperibile su diversi altri siti che l’hanno ripreso e può comunque essere letto anche qui (N.d.T.).
[2] “UN official resigns over Israel apartheid report”, AlJazeera, 17/3/2017 (N.d.T.).