È evidente ormai che la parola “democrazia” è diventata soltanto una scatola vuota, un belletto utilizzato dagli ordinamenti borghesi per controllare le masse popolari, addormentandole e privandole della capacità stessa di pensare.
Uno studioso brasiliano di cui abbiamo pubblicato alcuni testi su questo sito, Felipe Demier, la definisce “Democrazia blindata”: «I regimi democratici contemporanei non mostrano alcun pudore nell’intensificare la loro blindatura antipopolare, ricorrendo in modo cinico a espedienti bonapartisti quando si tratta di far valere gli interessi cospicui e spietati del grande capitale […], non esitano a ricorrere alle loro prerogative costituzionali più antidemocratiche, facendo sì che misure eccezionali possano essere facilmente invocate come se fossero ordinarie qualora ciò si rivelasse necessario per il mantenimento dell’ordine ultraneoliberista; le regole del gioco tanto care ai politologi liberali sono, in nome di queste stesse regole, tranquillamente e cinicamente subordinate alle loro eccezioni, in modo che la prima regola del gioco, la soddisfazione del capitale, sia rispettata».
Un esempio evidente di “democrazia blindata” ce lo fornisce la recente vicenda delle elezioni in Romania, in cui un candidato sgradito alle Cancellerie europee perché non allineato con i piani loro e della Nato, è stato estromesso dalla competizione, e addirittura arrestato, mentre il primo turno elettorale, che egli aveva vinto, veniva annullato. Le elezioni sono state dunque ripetute fino a che non le ha vinte chi era gradito a Bruxelles.
Ce ne parla Thomas Fazi nell’articolo che pubblichiamo qui di seguito.
Buona lettura.
La redazione
La democrazia artificiale: le elezioni pilotate in Romania
Anche supponendo che il processo di voto in sé sia stato impeccabile, le elezioni sono state “truccate” dal momento in cui i risultati di novembre sono stati annullati e al candidato principale Georgescu è stato impedito di candidarsi.
Thomas Fazi [*]
La farsa delle elezioni presidenziali in Romania si è chiusa ieri, con il sindaco centrista filo‑europeista di Bucarest, Nicușor Dan, che ha ottenuto una decisiva vittoria di otto punti sul suo rivale di destra, George Simion. Le voci dell’establishment in tutta Europa – e non solo – si sono affrettate a salutare il risultato come una “vittoria per la democrazia”. Un risultato a dir poco orwelliano, considerando quanto siano stati palesemente violati i principi democratici durante l’intero processo elettorale in Romania.
La vittoria di Dan arriva sulla scia di una serie di eventi che hanno gravemente minato la credibilità democratica della Romania. Lo scorso novembre, il candidato indipendente euroscettico e critico nei confronti della NATO, Călin Georgescu, ha vinto il primo turno delle elezioni presidenziali con un risultato a sorpresa. Tuttavia, prima che si svolgesse il ballottaggio, la Corte costituzionale rumena ha annullato il risultato, adducendo una presunta ma non dimostrata interferenza russa.
Il dossier di intelligence presentato contro Georgescu – “declassificato” e pubblicato dall’allora presidente rumeno Klaus Iohannis due giorni prima della sentenza – non forniva alcuna prova evidente di interferenza straniera o addirittura di manipolazione elettorale. Indicava semplicemente l’esistenza di una campagna mediatica a sostegno di Georgescu che coinvolgeva circa 25.000 account TikTok coordinati tramite un canale Telegram, influencer pagati e messaggi coordinati. In altre parole, la Corte Suprema rumena ha annullato un’intera elezione sulla base di affermazioni del tutto infondate di interferenza straniera.
Ancor più incredibile è che un’agenzia di stampa rumena ha successivamente rivelato che la campagna TikTok utilizzata per giustificare l’annullamento delle elezioni era stata in realtà finanziata dal Partito Nazionale Liberale al governo, lo stesso partito che aveva sostenuto l’annullamento delle elezioni e da cui proveniva l’ex presidente del Paese, che ha avuto un ruolo chiave nell’intera vicenda fino alle sue dimissioni il mese scorso.
Una nuova data per le elezioni venne fissata per maggio, ma molti si sono chiesti come l’establishment potesse impedire una ripetizione dei risultati di novembre, soprattutto perché l’intera farsa non ha fatto altro che rafforzare il sostegno a Georgescu. La risposta è arrivata a marzo, quando la commissione elettorale ha definitivamente escluso Georgescu dalla competizione elettorale. Particolarmente sorprendente è il fatto che la decisione della commissione elettorale si sia basata sulle accuse di “interferenza straniera” utilizzate dalla Corte costituzionale per annullare il primo turno delle elezioni presidenziali, sebbene queste fossero state smentite. Una Corte d’appello di grado inferiore annullò poi temporaneamente la decisione, mentre l’Alta Corte di Cassazione e Giustizia la confermò definitivamente.
Nel frattempo, i procuratori rumeni hanno avviato un procedimento penale contro Georgescu con accuse che vanno da “incitamento ad azioni contro l’ordine costituzionale”, alla creazione di un’organizzazione con “caratteristiche fasciste, razziste o xenofobe”, fino all’antisemitismo, nonostante la campagna di Georgescu si sia concentrata principalmente sulla politica economica e sull’orientamento geopolitico della Romania.
In breve, quando le campagne diffamatorie dei media mainstream e dei partiti politici tradizionali non sono riuscite a contenere la crescente popolarità di Georgescu, lo Stato rumeno ha mobilitato contro di lui quasi tutte le istituzioni: tribunali, polizia e persino i servizi segreti. L’obiettivo era eliminare Georgescu dalla competizione con ogni mezzo necessario. Ed è stato raggiunto.
Ci sono fondati motivi per ritenere che le misure adottate dalla Romania non siano state dettate da ragioni esclusivamente di natura interna. Dato il ruolo strategico del Paese nella NATO e nella guerra contro la Russia, è estremamente plausibile che tali misure siano state adottate sotto la pressione di Washington e Bruxelles o in coordinamento con esse. Le basi aeree rumene svolgono un ruolo chiave nella logistica e nell’addestramento della NATO, nonché nella guerra per procura dell’Alleanza atlantica in Ucraina; le forti posizioni anti‑NATO e contro la guerra di Georgescu lo rendevano quindi insopportabile per l’establishment euro‑atlantico.
L’esclusione di Georgescu ha aperto la strada all’ascesa di George Simion, leader del partito nazionalista Alleanza per l’Unità dei Rumeni (AUR), che in precedenza aveva sostenuto Georgescu e si era impegnato a non candidarsi contro di lui. Simion ha lanciato la sua campagna dopo che Georgescu è stato escluso, presentandosi come un difensore della democrazia e della sovranità nazionale e arrivando persino a suggerire che avrebbe nominato Georgescu primo ministro se ne avesse avuto l’opportunità.
Al primo turno delle nuove elezioni, il 5 maggio, Simion ha vinto con un ampio margine, ottenendo il doppio dei voti di Nicușor Dan. Ma perché a Simion, a differenza di Georgescu, è stato permesso di candidarsi? Ho ipotizzato che la risposta risieda nel tipo di populismo che rappresenta. Da un lato, Simion ha posizioni molto più radicali di Georgescu su questioni culturali e identitarie; dall’altro, però, è significativamente più allineato agli interessi dell’establishment su questioni cruciali come la NATO, l’integrazione europea e la guerra in Ucraina.
Ho suggerito che Simion rappresenti un nuovo e sempre più diffuso tipo di attore politico: il finto populista che combina un nazionalismo culturale stridente con la lealtà allo status quo economico e geopolitico. Questa doppia identità rende questi personaggi ideali per essere cooptati dall’establishment nel tentativo di quest’ultimo di rispondere alla reazione populista promuovendo – o almeno tollerando (pur rimproverandoli pubblicamente) – leader che veicolano sentimenti nazionalisti, ma lasciano intatte le strutture di potere fondamentali.
Alla fine, però, questo “piano B” si è rivelato superfluo, poiché il candidato preferito dall’establishment, Dan, ha ottenuto la vittoria.
Simion ha affermato che il governo della Moldavia stava mobilitando contro di lui la comunità rumena lì emigrata e ha anche affermato che i seggi elettorali di altre comunità di espatriati a lui più favorevoli non disponevano di schede elettorali sufficienti. Ha anche sostenuto di aver trovato i nomi di milioni di cittadini deceduti nelle liste elettorali. Il tempo dirà – forse – se queste accuse hanno qualche fondamento. Ma in definitiva, anche se il processo di voto in sé fosse stato impeccabile, la verità è che le elezioni sono state “truccate” dal momento in cui i risultati di novembre sono stati annullati e Georgescu è stato escluso dalla corsa. E questo senza nemmeno considerare la massiccia campagna mediatica e online condotta contro Georgescu, e poi contro Simion. Infatti, il fondatore di Telegram, Pavel Durov, ha rivelato di essere stato incaricato dal capo dell’intelligence francese di bloccare gli account rumeni conservatori.
La Francia ha avuto un ruolo chiave in tutta questa vicenda. Lo scorso dicembre, poche ore prima che la Corte costituzionale annullasse le elezioni, la candidata pro‑UE che si scontrava con Georgescu, Elena Lasconi, ha pubblicato una conversazione con Macron sulla sua pagina Facebook in cui il presidente francese ha lanciato diverse minacce velate sulle gravi conseguenze che una vittoria di Georgescu avrebbe avuto per la Romania. Inoltre, pochi giorni prima della sentenza della commissione elettorale contro Georgescu, l’ambasciatore francese ha fatto visita al presidente della Corte costituzionale rumena, e durante il colloquio i due hanno ribadito l’importanza di resistere “alla penetrazione del populismo nelle decisioni o nelle sentenze di una Corte costituzionale”: un evidente riferimento alle critiche alla decisione della Corte di annullare i risultati elettorali.
In breve, se c’è stato un attacco ibrido straniero contro la Romania, questo non è stato messo in atto dalla Russia, ma dall’establishment transatlantico, attraverso pressioni straniere, rapporti di intelligence fabbricati, “organizzazioni della società civile” finanziate dall’estero e sovversione giudiziaria. Gli eventi in Romania rappresentano un passo nuovo e cruciale per le società occidentali che si definiscono liberali e democratiche. Le élite non si limitano più a influenzare i risultati elettorali attraverso la manipolazione dei media, la censura, la guerra legale, la pressione economica e le operazioni di intelligence. Quando questi strumenti non riescono a ottenere il risultato desiderato, sono sempre più disposte a rinunciare completamente alle strutture formali della democrazia, comprese le elezioni.
La strategia è semplice: continuare a ripetere le elezioni o intromettersi nelle stesse finché non si ottiene il risultato “corretto”, preferibilmente assicurandosi che sulla scheda elettorale compaiano solo candidati accettabili per l’establishment. Ormai dovrebbe essere evidente a tutti che il processo elettorale occidentale è stato ridotto a poco più di un meccanismo di legittimazione del dominio oligarchico.
Pertanto, quanto accaduto in Romania dovrebbe essere interpretato come un segnale d’allarme per ciò che potrebbe presto verificarsi altrove. È importante rendersi conto, tuttavia, che questa deriva antidemocratica è in atto da tempo. Si può infatti sostenere che gli Stati liberaldemocratici occidentali operano ormai da tempo in uno stato di eccezione permanente. La facilità con cui le libertà fondamentali e le garanzie costituzionali sono state messe da parte durante la pandemia ne è stata una prova evidente. Le élite al potere sono in grado di farlo perché non esiste una resistenza di massa organizzata in grado di sfidarle.
Per un breve periodo di trent’anni dopo la Seconda Guerra mondiale, le masse sono riuscite a utilizzare le istituzioni democratiche per strappare un po’ di potere economico e politico alle élite oligarchiche consolidate, ma le condizioni materiali che lo hanno reso possibile – prima fra tutte il potere organizzato dei lavoratori – non esistono più. Col senno di poi, il breve periodo di (relativa) sovranità popolare è stato un’eccezione, geograficamente limitata, alla norma storica, sostenuta da condizioni materiali e politiche uniche. In realtà, paesi come la Romania non hanno mai vissuto questa esperienza, essendo passati direttamente dal regime comunista alla post-democrazia neoliberista. I due pilastri dell’alleanza transatlantica – l’Unione Europea e la NATO – hanno favorito le tendenze antidemocratiche in Europa, guidando la corsa alla distruzione dei processi democratici e alla soppressione dell’autodeterminazione popolare.
Quello a cui stiamo assistendo non è la “degenerazione” della democrazia liberale occidentale, una sfortunata deviazione dalla norma storica, ma piuttosto la sua logica conclusione. Gli Stati che un tempo erano stati per un breve periodo sensibili alle richieste popolari sono ora tornati alla funzione che le istituzioni statali hanno avuto per gran parte della storia del capitalismo: preservare il potere delle élite a tutti i costi.
[*] Thomas Fazi è giornalista, scrittore e traduttore di orientamento socialista. Pubblica regolarmente su UnHerd e Compact. Vive a Roma.