Il 15 maggio scorso, le strade e le piazze di centinaia di città del Brasile sono state invase da imponenti manifestazioni di protesta contro l’annunciata ondata di tagli al bilancio dell’istruzione pubblica da parte del governo Bolsonaro. Stime prudenti parlano di un milione e mezzo di persone, ma secondo altre fonti i manifestanti sarebbero arrivati addirittura a due milioni e mezzo. Indipendentemente dalle cifre, però, è significativo che a pochi mesi dalla vittoria elettorale e dall’insediamento di un governo ultrareazionario, intorno alla parola d’ordine del rifiuto di questa controriforma che colpisce pesantemente la scuola e l’università pubbliche si sia prodotta una manifestazione di massa così importante.
Nelle analisi di alcune organizzazioni della sinistra brasiliana già riprende quota la caratterizzazione di una “situazione prerivoluzionaria”, ma si tratta di ricostruzione totalmente infondata. Come è stato acutamente osservato, ciò che è cambiato è la congiuntura, mentre la situazione politica è rimasta quella che ha prodotto l’elezione di Bolsonaro in Brasile nel quadro di uno spostamento a destra a livello internazionale, e cioè di un’ondata reazionaria.
Ora si tratta di costruire pazientemente un’opposizione sociale in cui assuma un ruolo da protagonista la classe operaia coi suoi metodi di lotta per poter affrontare la prossima fase, in cui gli attacchi del governo Bolsonaro si preannunciano particolarmente acuti, pur nella cornice di un equilibrio istituzionale non particolarmente stabile.
Pubblichiamo a questo proposito un breve articolo di Felipe Demier, che col suo solito stile brillante, analizza la dinamica intercorrente fra la grande borghesia brasiliana e il governo Bolsonaro, appunto dopo le grandi manifestazioni del 15 maggio.
Buona lettura.
La redazione
Le danze senza fine o la fine delle danze? La grande borghesia e il governo Bolsonaro
Felipe Demier [*]
Il governo Bolsonaro è sempre stato – e ancora lo è – un tentativo per la borghesia di risolvere la crisi in cui essa stessa si è impigliata. Bolsonaro si è proposto per salvarla, ma non con gli uomini e i metodi che essa abitualmente usa. Bolsonaro vuole, e sempre ha voluto, aiutarla, ma a modo suo, con le sue maniere rudi e plebee, sostenuto dalla piccola borghesia mobilitata che lo mitizza, da personale cesarista in toga e in uniforme e dalla lumpen‑borghesia che egli, ebbro dei fasti elettorali e un po’ alla leggera, ha collocato nei posti chiave del potere.
Come una specie di Rastignac[1] rozzo e tropicale, attorniato da arrivisti e ambiziosi di ogni genere, si è introdotto nei grandi salotti come se fosse il padrone di casa, dimenticando che, in realtà, è stato ammesso al gran ballo solo perché i veri anfitrioni l’hanno considerato come l’unico capace di sbarrare la strada a un altro imboscato, molto più indesiderabile, dal passato operaio e dal puzzo di popolo e cachaça[2]. Provando ribrezzo per gli operai e i loro liquori a basso costo, la grande borghesia, un po’ euforica e un po’ rassegnata, ha preferito danzare al suono di questa banda di vitelloni analfabeti, consentendo anche ai miliziani estasiati di usare i preziosi soprammobili per appoggiarvi i bicchieri ricolmi di vodka pura.
Ora, mentre le masse scendono in piazza e i miserabili cominciano a ribellarsi, la grande borghesia cerca di ricordare allo scomodo invitato che i suoi modi di fare stanno davvero diventando inopportuni, e che è ormai giunta l’ora di spegnere la musica, finire la festa e di passare al tran‑tran quotidiano. Lo spettacolo del capitale deve continuare, ma preferibilmente non in modo così sfacciato. Ora, Bolsonaro, colui che brandendo il vangelo si è proposto di portare la spada e non la pace, sembra percepire che la grande borghesia ha nella prima un puro mezzo, e nella seconda un vero fine. Senza un minimo di pace, seppur la pace ottenuta con la spada, non può esserci tranquillità per gli affari.
Se i pigri tirapiedi di Bolsonaro, se tutti questi suoi spadaccini mercenari, hanno sognato un governo di battaglie aspre e senza sosta, poiché è di questo che inutilmente vivono, la grande borghesia da qualche giorno a questa parte sembra a sua volta decisa ad avvisare il maldestro Rastignac che se, per il momento, il governo è nelle sue mani, lo Stato è invece – come è sempre stato – nelle proprie; e che dunque, mentre è seduto sulla poltrona presidenziale, è bene che di quando in quando egli sollevi lo sguardo per ricordarsi della spada di Damocle che incombe sulla sua testa e su quella dei suoi ospiti avventurieri. Se sarà il caso, suggerisce la grande borghesia al suo pasticcione Bonaparte, c’è sempre la possibilità di sostenere che lo ha fermato qualche cospirazione tramata dal “sistema” e dalle sue “terribili forze”, e così salvare la pelle, la fama e un po’ di soldi. Non sarebbe la prima volta, ma questa volta potrebbe perfino diventare materia per una serie su Netflix.
[*] Felipe Demier, storico, insegna all’Università Federale Fluminense (Uff) e all’Università Statale di Rio de Janeiro (Uerj). Ha scritto diversi libri, tra cui: O Longo Bonapartismo Brasileiro: um ensaio de interpretação histórica (1930–1964), Mauad, 2013; e Depois do Golpe: a dialética da democracia blindada no Brasil, Mauad, 2017.
(Traduzione di Ernesto Russo)
Note
[1] Eugène de Rastignac è un personaggio immaginario protagonista di numerosi romanzi di Honoré de Balzac. È la rappresentazione di una persona ambiziosa, disposta a tutto pur di raggiungere lo scopo. Oggi, con l’espressione “Rastignac” si intende descrivere colui che, senza farsi alcuno scrupolo, è riuscito a conquistare un posto di rilievo nella società partendo da zero [Ndt].
[2] Qui il riferimento, sin troppo trasparente, è a Lula, la cui figura di “ospite indesiderato” è ben descritta nell’articolo “Il senso di un arresto: Lula, la democrazia e i commensali nei salotti”, dello stesso autore e pubblicato su questo sito. La cachaça è la bevanda alcolica popolare brasiliana per eccellenza [Ndt].