Il numero e l’impotenza
Il movimento delle “sardine” e i rivoluzionari
Valerio Torre
“Il numero è potenza” costituisce uno degli slogan su cui il regime fascista costruì la propria politica demografica, cercando – attraverso questa – di rafforzare quella militare.
Questo motto ci è venuto in mente quando abbiamo appreso che la convocazione di quella piazza di Bologna da cui sarebbe poi partita la mobilitazione, oramai nazionale, detta delle “sardine” era nata dall’idea di «essere almeno uno in più di loro», e cioè della Lega di Matteo Salvini, il quale proprio a Bologna aveva convocato un’iniziativa elettorale in vista delle elezioni regionali che si terranno in Emilia Romagna. E dunque, la bandiera su cui è nato il movimento delle “sardine” è rappresentata, innanzitutto, da un’esigenza “numerica”[1], con «l’obiettivo di “dimostrare che i numeri contano più della prepotenza”»[2], come se il fatto di manifestare in numero superiore rispetto all’avversario avesse di per sé un significato politico.
Spiegheremo meglio nel prosieguo di questo scritto il significato del titolo che gli abbiamo dato; precisiamo però che, benché la scelta di parafrasare lo slogan mussoliniano costituisca un divertissement letterario, dal momento che gioca sulla questione del “numero”, non riteniamo affatto – come pure sostengono in molti – che le “sardine” non abbiano una proposta. Al contrario: noi pensiamo che una proposta ce l’abbiano, eccome! Ed è in sé reazionaria.
Scopo di quest’articolo è perciò di verificare, alla luce dell’analisi su questo nuovo movimento, se sia corretto intervenire in esso, come stanno facendo alcune organizzazioni, non soltanto riformiste, ma anche provenienti dal marxismo rivoluzionario. Organizzazioni che colgono nel movimento delle “sardine” «potenzialità che le forze anticapitaliste devono sapere leggere per svolgere un ruolo positivo», confidando che esso «disegna senza ombra di dubbio uno scenario potenzialmente più favorevole in cui approfondire la critica alle contraddizioni del capitalismo neoliberista, quelle stesse contraddizioni che hanno generato l’ascesa della destra reazionaria in Europa»[3]. Sicché, sarebbe giusto stare «tutti insieme nelle piazze, stretti come sardine»[4], «dentro il movimento, ma [lavorando] per sviluppare al suo interno una prospettiva rivoluzionaria ed anticapitalista, l’unica in grado di battere davvero Salvini»[5].
Naturalmente, non mettiamo minimamente in dubbio la buona fede dei compagni che pensano, in questo modo, di svolgere in quel movimento un intervento politico per fare emergere una coscienza più avanzata. Tuttavia, riteniamo – lo anticipiamo qui – che si tratti di una posizione sbagliata, che finisce per collocare i marxisti rivoluzionari in una posizione sostanzialmente codista.
L’improbabile argomento della rivoluzione russa del 1905
Prima, però, di squadernare le ragioni a supporto della nostra tesi, crediamo sia bene sgombrare il campo da un equivoco “storico” che pure ci è capitato di leggere in uno dei testi che ha trattato questo tema[6].
Per contrastare coloro che vengono definiti “detrattori di sinistra delle sardine”, l’autore dell’articolo introduce un argomento che egli ritiene dirimente, e che infatti così può sembrare se ci si affida alla cattiva interpretazione storica da lui offerta. Egli sostiene infatti, contro chi rifiuta di partecipare al movimento delle “sardine” perché non sarebbe un movimento “puro”[7], che «se avessero adottato questo metodo, i bolscevichi avrebbero voltato le spalle alla rivoluzione russa del 1905, quando gli operai erano guidati da quella spia zarista di Pope Gapon».
Sembra davvero, così, a lume di naso, un argomento di tale peso da apparire “definitivo”. Ma, purtroppo per l’autore del testo, non lo è affatto.
Rammentiamo i fatti.
A San Pietroburgo, il 9 gennaio 1905 – passato poi alla storia come la “Domenica di sangue” – un corteo operaio di circa 200.000 persone, guidato da un prete – il pope Gapon, appunto – e nel quale erano stati vietati inni e bandiere (soprattutto rosse), mentre venivano invece portate in processione icone religiose, giunse fino alle porte del Palazzo d’Inverno per consegnare allo zar in persona una supplica scritta contenente richieste per migliorare la vita miserabile dei lavoratori. Senza farsi il minimo scrupolo, lo zar diede ordine alla truppa di sparare sul corteo. Fu una carneficina, con diverse migliaia di morti. I bolscevichi erano posizionati alla coda della manifestazione, cosa che li salvò dal massacro.
I bolscevichi parteciparono dunque a quel movimento? Quale ruolo vi svolsero? E soprattutto: che movimento era quello che fu protagonista della “Domenica di sangue”?
È importante rispondere correttamente a queste domande perché, secondo la prospettazione che qui critichiamo, sembrerebbe che – questo è il ragionamento – se i bolscevichi parteciparono a un movimento diretto da un prete e in cui erano vietate le bandiere rosse[8] mentre si portavano in corteo icone religiose, allora questo sarebbe il “lasciapassare” (un lasciapassare con tanto di sigillo di Lenin in persona) per stare «tutti insieme nelle piazze, stretti come sardine»[9].
Purtroppo per l’autore del testo in esame, la verità storica dell’episodio da lui sintetizzato è diversa dal luogo comune perpetuato da una narrazione ricorrente e semplicistica, e che distorce la realtà di quegli eventi. Sarebbe bastato ricorrere a qualcuna delle migliori ricostruzioni della storia del Partito bolscevico in quel periodo[10], oltre che all’imprescindibile testo di Trotsky[11], per non commettere un errore di caratterizzazione che va ad inficiare l’argomento che si voleva supportare.
Gapon e la sua Associazione degli operai
Il pope Georgij Gapon appariva essere organizzatore e capo della “Associazione russa degli operai di fabbrica e d’officina” di San Pietroburgo, ma in realtà non era così. Egli era in contatto con Sergej Vasil’evic Zubatov – funzionario dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, e agente provocatore – il quale aveva avuto l’idea di costituire dei sindacati legali per sottrarre gli operai all’influenza delle idee rivoluzionarie che circolavano nella Russia fin dalla metà degli anni 80 del XIX secolo[12]. E anche l’Associazione di Gapon era frutto della “trovata” di Zubatov: una trovata che, però, finì presto per ritorcerglisi contro.
La mancanza di altre forme di organizzazioni legali spinse infatti migliaia di operai a aderire a quella formazione: e in essa la parte più cosciente dei lavoratori, che già era stata a contatto con la propaganda rivoluzionaria, cominciò a iniettare le idee che erano alla base non di sole rivendicazioni economiche (come l’astuto piano di Zubatov pretendeva), ma di vere e proprie rivendicazioni politiche.
Gapon, che era sì legato all’Okhrana, ma era anche sinceramente sensibile agli interessi della classe lavoratrice, si circondò di un nucleo ristretto di operai particolarmente avanzati con cui costituì il c.d. “stato maggiore”, un organismo che si riuniva fuori dell’ufficialità per elaborare la politica dell’Associazione. Ciò fece sì che questa crescesse e la sua influenza sulla classe operaia aumentasse giorno per giorno attirando schiere sempre più vaste dei proletari più arretrati, i quali però in tal modo venivano in contatto con le idee della lotta di classe. Insomma, mentre Zubatov pensava di creare uno strumento di controllo delle masse, furono le masse a giovarsi di uno strumento che consentiva loro di organizzarsi ed esprimere le proprie rivendicazioni.
I socialdemocratici, sia bolscevichi che menscevichi, denunciavano il carattere reazionario e poliziesco dell’Associazione e vietavano in genere ai loro membri qualsiasi contatto con la stessa. Ma anche quando essi cercavano un approccio con quegli operai chiedendo la parola in qualche riunione, venivano minacciati e cacciati via[13]. Si può allora dire che le organizzazioni socialdemocratiche non avessero, alla vigilia del 9 gennaio, alcun reale ascendente sul movimento che andava crescendo e fossero numericamente deboli, isolate e prive di influenza.
La rivoluzione del 1905 e il ruolo dei bolscevichi
Nel mese di dicembre del 1904, alcuni operai della fabbrica Putilov vennero licenziati e si rivolsero all’Associazione di Gapon chiedendo supporto. Ogni mezzo di pressione sulla direzione della fabbrica e sulle autorità si rivelò vano, sicché fu proclamato uno sciopero di solidarietà per il 3 gennaio. Ma lo sciopero si estese presto a tutta San Pietroburgo: l’8 gennaio erano in sciopero 111.000 operai di 456 imprese, senza tener conto delle piccole fabbriche.
Scrive Nevskij:
«Allo stesso tempo le sezioni iniziarono l’agitazione politica: i quartieri erano in fermento e le sezioni si trasformarono in centri organizzativi che davano impulso al movimento. La massa fece propria non solo l’idea della petizione, ma anche il suo contenuto; il progetto fu letto, discusso, approvato e integrato dagli stessi operai. […] la sostanza era che la discussione sui contenuti della petizione fu allargata a migliaia di operai, la partecipazione delle masse a questa discussione, la loro opera rivoluzionaria, nel fuoco degli eventi, avevano “purificato” questa petizione dal “peccato originale” delle sue origini poliziesche, avevano reso questa iniziativa un atto creativo, collettivo e rivoluzionario delle masse»[14].
Come abbiamo accennato, il tentativo di consegnare la petizione allo zar culminò in un bagno di sangue. Quella del 9 gennaio 1905 fu la scintilla della prima rivoluzione russa, il cui corso non è possibile qui esaminare, neppure sinteticamente. Ma quello che sì possiamo affermare è che i bolscevichi non ebbero alcun ruolo attivo su tutto lo sviluppo del movimento che precedette la “Domenica di sangue”.
Woods riferisce:
«Il delegato di San Pietroburgo al terzo congresso [del Posdr] racconta come, la serata del 9 gennaio, gli agitatori bolscevichi andarono per le strade alla ricerca di gruppi di operai a cui rivolgersi, ma trovarono che la situazione aveva già oltrepassato quella fase; i lavoratori avevano imparato in poche ore più di quanto decenni di agitazione e di propaganda avessero mai potuto insegnare loro»[15].
La rivoluzione del 1905 venne liquidata verso la fine dell’anno, ma nei mesi successivi al 9 gennaio vennero trascinate nella lotta centinaia di migliaia di operai che fino a quel momento erano stati rassegnati e passivi, come pure settori dell’esercito e della marina. E fu solo sul finire del 1905 che la socialdemocrazia rivoluzionaria poté cominciare ad affermarsi come forza egemonica nella classe operaia. Fino ad allora la partecipazione dei bolscevichi a quel grandioso movimento semi‑spontaneo[16] fu titubante, in gran parte a causa dell’azione di freno dei komitetčiki (gli uomini dei comitati, cioè la burocrazia della frazione bolscevica) che Lenin, dall’estero dove si trovava, dovette contrastare.
Come spiega Broué,
«in realtà, i bolscevichi si adattarono abbastanza lentamente alle nuove condizioni rivoluzionarie: i cospiratori non sapevano da un giorno all’altro trasformarsi in oratori e guide delle masse. Soprattutto, furono sorpresi dall’apparizione dei primi consigli dei lavoratori o soviet, eletti prima nelle fabbriche e successivamente nei quartieri, che durante l’estate si estesero a tutte le grandi città, da cui diressero il movimento rivoluzionario nel suo insieme. Capirono troppo tardi il ruolo che potevano svolgervi e la possibilità di accrescere la propria influenza lottando all’interno di quegli organismi per guadagnare la direzione delle masse»[17].
Lo stesso Lenin espresse posizioni non univoche sui soviet, dapprima ritenendoli, ancora nel novembre nel 1905, soltanto «un’organizzazione di lotta e tal[i] dev[ono] essere»[18], e solo successivamente (marzo 1906) considerandoli «veri e propri organi di potere, nonostante il loro carattere embrionale, spontaneo, amorfo, nonostante la loro indeterminatezza nella composizione e nel funzionamento»[19].
In conclusione, «la parte che i bolscevichi ebbero nei soviet del 1905 fu, in tutta la Russia, modesta e poco appariscente»[20].
E tuttavia, nonostante il carattere frammentario, incerto, titubante, disorganico, colpevolmente ritardatario, dell’intervento dei bolscevichi nel movimento rivoluzionario russo, si può affermare con certezza che le ragioni di quell’intervento erano corrette. Ma lo erano perché quel movimento – iniziato sulla base di un moto spontaneo, in cui le masse rifiutavano la presenza stessa di ogni partito agendo sulla pura base dell’istinto di classe risvegliato dalla feroce repressione subita e dall’improvvisa presa di coscienza che lo zar non era “il piccolo padre” dipinto dalla propaganda dell’autocrazia[21], un istinto di classe che si era nutrito delle idee rivoluzionarie respirate nei decenni addietro – era un movimento in sé rivoluzionario.
Che cos’è il movimento delle “sardine”?
E allora, tutto questo excursus storico si è reso necessario per inquadrare meglio il problema da cui siamo partiti e rispondere alla domanda centrale: quello delle “sardine” è, oppure no, un movimento in cui i rivoluzionari possono sviluppare il loro intervento allo scopo di creare egemonia, quantomeno su un settore più avanzato per far progredire la coscienza di classe?
Perché ha ragione l’autore di un altro testo che si è interessato del fenomeno[22]: i movimenti o sono progressivi, o reazionari. E però, sbagliando totalmente l’analisi, egli sostiene il carattere progressivo di quello delle “sardine”.
A nostro avviso, invece – l’abbiamo accennato all’inizio di questo scritto – esso è reazionario.
Affermiamo ciò sulla base dei seguenti criteri.
1) Quali sono i compiti che questa mobilitazione si pone? E cioè: qual è il contenuto storico‑sociale del programma che è alla sua base?
Si tratta di un programma populista reazionario illustrato nel Manifesto pubblicato sulla pagina Facebook del movimento subito dopo la prima manifestazione e di fatto adottato, senza la sia pur minima discussione democratica, da tutte le altre piazze successivamente convocate. Un programma incentrato sulla “normalità” dei valori piccolo‑borghesi (l’amore per la casa, la famiglia, il lavoro, la bellezza) e che delega la “politica” – e cioè il nocciolo del vero programma borghese – ai «politici con la P maiuscola […], rimasti in pochi, ma ci sono», e cioè al personale dei partiti del centrosinistra che si contrappongono elettoralmente alla Lega di Salvini. Un programma che evoca sullo sfondo un pallido “antifascismo” e “antisovranismo”, magari infiocchettato dalla rituale intonazione di “Bella ciao”, ma che nei fatti riconferma a pieno gli assi dell’azione politica di quegli stessi partiti del centrosinistra risolvendosi nel sostanziale appoggio elettorale a questi nelle imminenti elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria[23]. Un programma, infine, che non contiene alcuna proposta di miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice (nulla su salario, occupazione, pensioni, sanità, scuola), ma solo un elenco di rivendicazioni populiste sul galateo che dovrebbero osservare gli eletti nelle istituzioni[24]. Persino il punto che riguarda i famigerati “decreti sicurezza” voluti da Salvini durante il governo M5S/Lega non propone la loro abrogazione, ma solo una “revisione”, «perché c’è qualcosa del decreto sicurezza che va bene», ha detto Mattia Santori, il portavoce delle “sardine”.
Chissà se si riferiva alle misure di polizia esplicitamente rivolte contro le manifestazioni operaie di piazza! D’altro canto, subito il primo ministro Conte ha colto al volo l’occasione: «La richiesta delle Sardine sui decreti sicurezza le abbiamo già ascoltate. Tra i punti del programma di governo c’era l’impegno a raccogliere le raccomandazioni del presidente Mattarella per ritornare a quella che era la versione originale del secondo decreto, per come era uscita dal Consiglio dei ministri»[25].
E, come se non bastasse, «identificheremo quattro, cinque o sei punti, sui quali chiederemo ai politici di lavorare: è chiaro che o fondiamo un partito o presentiamo le nostre proposte a chi che già fa politica, che sia il Pd, il Movimento 5 stelle o la destra moderata», ha chiaramente affermato Andrea Garreffa, uno dei fondatori delle “sardine”[26]: dal che si deduce che i sei punti emersi dalla manifestazione di Roma del 14 dicembre sono assolutamente intercambiabili fra il centrosinistra, il centro o la destra (purché moderata!).
2) Qual è la composizione di classe di questo movimento? Cioè: quali classi, blocchi di classi o frazioni di classi si sono in esso e per esso mobilitati?
Di composizione in massima parte piccolo‑borghese e di classe media urbana, il movimento è certamente partecipato anche da settori di lavoratori, che però non vi intervengono in quanto classe, bensì come “cittadini”: e in quanto tali – da ciò che si è potuto vedere nelle varie manifestazioni tenutesi in diverse città d’Italia – totalmente subordinati alle idee dominanti della grande borghesia di cui sono interpreti i partiti d’impronta liberale (come il Partito democratico).
Le “sardine” godono dell’aperto sostegno dell’ex presidente del Consiglio e uomo forte del capitalismo europeo, Mario Monti, dell’odiata “madre” della controriforma delle pensioni, Elsa Fornero, di uno dei “padri nobili” dell’Unione europea, Romano Prodi, e, più in genere, di tutto l’establishment del Partito democratico. Perfino i “Papaboys”, l’organizzazione fondata da uno dei papi più reazionari, Giovanni Paolo II, hanno dichiarato il loro entusiastico appoggio al movimento. La burocrazia della Cgil e della Fiom non ha solo espresso adesione alle sue tematiche, ma ha messo attivamente in campo, durante la manifestazione romana, un servizio d’ordine a protezione della “linea ufficiale” delle “sardine” impedendo con modi energici che potesse esservi una qualsiasi forma di espressione autonoma di pensiero, pur all’interno del movimento.
Le “sardine”, inoltre, godono della protezione dei corpi repressivi dello Stato borghese. La manifestazione di Milano si è tenuta sotto la benevola sorveglianza della Digos e di polizie di ogni tipo, che hanno garantito l’ordinato svolgimento dell’iniziativa (non si sa contro quale minaccia) con un importante spiegamento di forze, tanto da guadagnarsi per questo la riconoscenza degli organizzatori. Chissà come mai, invece, quando nei mesi scorsi ad ogni comizio di Salvini (all’epoca ancora ministro di polizia) la gente comune (di nessuna specie “ittica”!) che esponeva ai propri balconi lenzuola bianche con ironiche scritte di contestazione si vedeva irrompere in casa sbirri al soldo del loro ministro, i quali, senza nessuna autorità – e commettendo quindi un abuso d’ufficio – strappavano via e sequestravano illegittimamente quegli improvvisati striscioni!
Leggendo i resoconti della stampa delle più varie tendenze, è emersa una certa eterogeneità della piazza, perlopiù anagrafica, ma a Roma, così come in altre città d’Italia, il “popolo delle sardine” ha annullato ogni differenza di classe nell’afflato mistico dell’intonazione all’unisono dell’inno nazionale. E così pure, nelle diverse manifestazioni che finora si sono svolte, sono state bandite le bandiere di partito, ma garrivano al vento bandiere italiane e dell’Unione europea.
Tutte dimostrazioni, queste, della subordinazione a una mistica patriottarda e filoeuropeista che cancella ogni divisione di classe per creare un unico e indistinto “popolo”.
3) Qual è la direzione politica del movimento?
Presi in sé, i quattro fondatori delle “sardine” (Santori, Moroni, Trappoloni, Garreffa) sono di estrazione piccolo‑borghese di classe media urbana, ma in qualche modo legati a importanti settori della grande borghesia finanziaria e industriale di cui hanno il sostegno politico (v. punto precedente). In particolare, ad esempio, la stampa ha dato conto dei legami fra Santori e una società di ricerca che si occupa di risorse energetiche, fondata da Prodi e da Alberto Clò, membro del CdA del Gruppo editoriale Gedi (cioè, La Repubblica, L’Espresso, La Stampa, ecc.) in predicato di passare alla famiglia Agnelli. Non a caso, si tratta di alcune fra le più importanti testate italiane, le stesse che stanno supportando la “cavalcata” del movimento. Dal canto suo, Bernard Dika, organizzatore delle “sardine” di Firenze, è espressione dell’ex premier Matteo Renzi, oggi “azionista” della maggioranza di governo. È inoltre consigliere di Eugenio Giani, possibile candidato del Partito democratico alle prossime elezioni regionali della Toscana.
Pertanto, non è azzardato sostenere che questa “direzione politica” può essere caratterizzata come uno strumento nelle mani della borghesia: uno strumento di propaganda e agitazione a difesa degli interessi del grande capitale industriale, bancario e finanziario che vede l’ascesa di Salvini come un ostacolo al dispiegarsi della propria agenda.
Peraltro, le stesse modalità di convocazione a Roma il 15 dicembre della riunione nazionale dei referenti delle realtà locali delle “sardine”, autoproclamatisi e non eletti da nessuna assemblea di base minimamente democratica, depongono nel senso di un ferreo controllo sul movimento da parte di un ristretto nucleo, fedele agli interessi dei poteri borghesi ai quali risponde.
4) E infine, quali sono i risultati finora ottenuti?
Il principale, sicuramente, è avere perlomeno ostacolato, se non addirittura interrotto (secondo quanto sostengono i sondaggi mentre stiamo scrivendo), quello che sembrava l’inarrestabile cammino di Salvini e del suo partito alla “conquista” della regione Emilia Romagna, storica roccaforte dei centri del potere economico del Partito democratico e della sua rete di imprese e cooperative. Una eventuale vittoria di Salvini alle elezioni regionali avrebbe sicuramente una ripercussione sui già fragili equilibri del governo nazionale Pd/M5S e potrebbe portare alla sua caduta aprendo la strada a un trionfale ritorno di Salvini all’esecutivo con l’appoggio della neofascista Giorgia Meloni, data in crescita dai sondaggisti.
L’opera di “tamponamento” delle “sardine” a favore del centrosinistra può consentire al governo Conte di portare avanti con maggiore tranquillità la propria agenda politica antipopolare e antioperaia.
Cosa debbono fare i rivoluzionari
L’“antifascismo” propugnato dalle piazze di questo movimento costituisce solo una pallida imitazione del vero antifascismo. Per combattere il razzismo, la deriva securitaria, il sovranismo, il populismo reazionario, l’omofobia, il maschilismo, quali colonne portanti della politica della Lega di Salvini, non basta agitare sagome di pesci cantando “Bella ciao” e l’inno di Mameli, ma contemporaneamente lasciando intatto il programma del capitale e facendolo applicare dai suoi rappresentanti più “affidabili”. Questa politica delle “sardine” – il numero di persone da portare in piazza a supporto delle politiche della borghesia dei “salotti buoni” – avrà come risultato “l’impotenza” (ecco spiegata la ragione del titolo di questo testo) nel contrastare il progetto reazionario di Salvini e Meloni. L’“antifascismo”, le “buone maniere”, l’“amore” dietro cui si mascherano Santori e compagnia sono solo la facciata gentile di un progetto altrettanto reazionario, seppur di segno opposto a quello delle destre.
I veri antifascisti, e cioè i rivoluzionari che combattono contro il capitalismo in tutte le sue forme, non hanno nulla da guadagnare a tentare di sviluppare un intervento politico in un movimento che coltiva un progetto borghese e la cui direzione è borghese. I risultati sarebbero disastrosi.
Il 7 dicembre scorso un’Assemblea unitaria delle forze della sinistra di opposizione ha lanciato a Roma un progetto per la costruzione di una necessaria unità d’azione contro il governo del capitale e le destre reazionarie che vogliono sostituirlo. Sappiamo che si tratta di un progetto difficile da perseguire per l’esiguità delle forze in campo nel quadro di un profondo arretramento delle classi lavoratrici: un arretramento di cui proprio il movimento delle “sardine” è lo specchio fedele. Crediamo che i rivoluzionari debbano dedicare a questo faticoso progetto tutte le proprie energie, piuttosto che collocarsi sterilmente alla coda di quel movimento.
Note
[1] E infatti, non a caso la pagina Facebook di questo movimento si chiama “6000 sardine”, in contrapposizione alla capienza del PalaDozza, dove si svolgeva contemporaneamente l’iniziativa leghista, che è di 5570 posti.
[2] “Bologna, «sardine» contro Salvini: come sono nate e perché si chiamano così”, Corriere della Sera, 16/11/2019.
[3] “La sinistra anticapitalista in piazza contro il razzismo e il fascismo e in assemblea il 7 dicembre a Roma”, 4/12/2019 (https://tinyurl.com/t7k8rwr).
[4] “Stretti come sardine sì, ma non ciechi e tanto meno muti”, 30/11/2019 (https://tinyurl.com/tpo6jd2).
[5] “Il PCL e il movimento delle sardine”, 22/11/2019 (https://tinyurl.com/s3363ml).
[6] “Revelli, il PCL e il fuoco amico sulle sardine”, 5/12/2019 (https://tinyurl.com/ukw8nhk).
[7] Posizione, questa, comunque superficiale e, ovviamente, in generale non condivisa da chi scrive.
[8] La suggestione del parallelo con quanto accaduto con il movimento delle “sardine” a Firenze, piazza nella quale è stata rimossa una bandiera rossa portata da un manifestante, è evidentissima.
[9] V. nota 4.
[10] Per quanto ci riguarda, abbiamo fatto ricorso a P. Broué, El Partido bolchevique, Editora Instituto José Luís e Rosa Sundermann, vol. I; e, soprattutto, ai documentatissimi: A. Woods, Storia del bolscevismo, A.C. Editoriale Coop., 2017, vol. I; e V.I. Nevskij, Storia del Partito bolscevico. Dalle origini al 1917, Edizioni Pantarei, 2008; oltre che agli scritti di V.I. Lenin, Opere, Edizioni Lotta comunista, 2002, vol. 8. Abbiamo anche utilmente consultato: G.E. Zinov’ev, La formazione del Partito bolscevico, 1898‑1917, Graphos, 1996; W.H. Chamberlin, Storia della Rivoluzione russa, Giulio Einaudi editore, 1943, vol. I; e E.H. Carr., La rivoluzione bolscevica, 1917‑1923, Giulio Einaudi editore, 1964.
[11] L. Trotsky, 1905, Newton Compton Editori, 1976.
[12] Questa tattica di creare sindacati autorizzati dalla polizia e dal governo fu detta “socialismo di polizia” o “zubatovismo”, dal nome del suo ideatore.
[13] A. Woods, op. cit., pp. 366 e ss.; V.I. Nevskij, op. cit., p. 276; V.I. Lenin, “Progetto di risoluzione sull’azione politica aperta del Posdr”, in op. cit., p. 343.
[14] V.I. Nevskij, op. cit., p. 278.
[15] A. Woods, op. cit., p. 370.
[16] Diciamo “semi‑spontaneo” perché sull’indubbio e prevalente elemento di spontaneità delle masse si innestarono, come abbiamo già sottolineato nel testo, le idee e la propaganda rivoluzionaria che quelle masse avevano respirato nei decenni precedenti.
[17] P. Broué, op. cit., pp. 55 e s.
[18] V.I. Lenin, “I nostri compiti e i soviet dei deputati operai”, in Opere cit., vol. 10, p. 14.
[19] V.I. Lenin, “La vittoria dei cadetti e i compiti del partito operaio”, in Opere cit., vol. 10, pp. 230 e s.
[20] E.H. Carr., op. cit., p. 49.
[21] Come riferisce V.I. Lenin (“L’inizio della rivoluzione in Russia”, Opere cit., vol. 8, p. 84), subito dopo la “Domenica di sangue” lo stesso pope Gapon disse: «Non abbiamo più zar. Un fiume di sangue divide lo zar dal popolo. Viva la lotta per la libertà!».
[22] “L’insostenibile leggerezza del settarismo manicheo intorno alle sardine”, 10/12/2019 (https://tinyurl.com/rwquafa).
[23] «Continueremo a riempire le piazze e a lanciare i nostri messaggi di antifascismo, antirazzismo, contro l’odio verbale e per arginare Salvini, diciamolo chiaramente. Sicuramente appoggeremo la sinistra», ha confermato una delle referenti del movimento.
[24] “Il programma delle Sardine, dopo la manifestazione a Roma”, 15/12/2019 (https://tinyurl.com/tnjl6g4).
[25] “Sardine, a Roma la prima riunione nazionale del movimento”, 15/12/2019 (https://tinyurl.com/yx574t8x).
[26] “En Italie, les «sardines» défient Salvini et les populistes”, 4/12/2019 (https://tinyurl.com/sssro2d).