Recentemente, il periodico web del PTS di Argentina (Partido de los Trabajadores Socialistas) “Izquierda Diario” ha pubblicato un’intervista al sociologo brasiliano Ricardo Antunes a proposito della riduzione della giornata di lavoro e della lotta per unire occupati e disoccupati. Nel corso di quest’intervista, Antunes “butta lì” una definizione di classe lavoratrice che, come osserva l’economista marxista Rolando Astarita in un articolo di polemica che presentiamo oggi tradotto in italiano, è del tutto erronea da un punto di vista marxista e per un’organizzazione che voglia costruirsi secondo i criteri del socialismo scientifico. Il testo di Astarita si conclude con una nota polemica nei confronti del PTS per avere “ingoiato” senza aver avanzato alcun distinguo la definizione di Antunes.
Chi ci segue sa che in passato abbiamo ripetutamente polemizzato con il “Frente de Izquierda y de Trabajadores‑Unidad” (Fit‑U) – di cui il PTS fa parte come una delle sue principali organizzazioni – a causa del suo completo adattamento al parlamentarismo borghese e alla totale introiezione dell’ideologia dominante che proclama la “centralità” delle istituzioni borghesi e la “sacralità” dell’istituzione parlamentare borghese (v. qui e qui). Ed è esattamente in questa direzione che, per quanto ci riguarda, deve essere ritenuto inscritto il testo di polemica di Astarita, come avranno modo di apprezzare i nostri lettori.
Buona lettura.
La redazione
La definizione di classe operaia di Ricardo Antunes
Rolando Astarita[*]
Izquierda Diario ha recentemente pubblicato un’intervista al sociologo brasiliano Ricardo Antunes:
«La classe operaia oggi comprende, a mio avviso, tutti gli uomini e le donne che vivono della vendita della loro forza lavoro. Nel 1995 ho creato una definizione letteraria, non concettuale, ma letteraria: “la classe che‑vive‑del lavoro”. Mi venne in mente perché nel 1995 André Gorz parlava di “non‑classe dei non‑lavoratori” (era stato lui stesso a mettere i trattini): che cos’è la non classe che vive del non lavoro? È un equivoco completo. Per questo ho detto: “la classe che‑vive‑del lavoro” era un modo sintetico per dire, seguendo Marx ed Engels, che la classe operaia è la classe che vive della vendita della forza lavoro».
Chiariamo che Antunes intendeva probabilmente dire che la classe operaia è la classe che vive del suo lavoro. Anche i capitalisti e i proprietari terrieri vivono del lavoro … ma di quello degli altri.
Veniamo quindi alla sostanza. Lo scopo del presente testo è dimostrare che è un errore per i marxisti adottare la definizione di classe operaia proposta da Antunes. È vero che, sia il semplice produttore di merci (compreso quello autosufficiente), sia il lavoratore salariato, vivono del proprio lavoro. Ma da questo elemento di somiglianza non si può dedurre che entrambi appartengano alla stessa classe sociale.
Il punto fondamentale è questo: con la definizione di Antunes, scompare la centralità della proprietà, o non proprietà, dei mezzi di produzione nella determinazione delle classi sociali. Il fatto è che sostenere che la classe operaia comprende tutti coloro che vivono del proprio lavoro non equivale a dire che la classe operaia comprende tutti coloro che vendono la propria forza lavoro al capitale. La nozione di forza lavoro è qualitativamente diversa dall’idea di “vivere del lavoro”. La prima (associata alla definizione di classe operaia di Marx) stabilisce dei limiti di classe rispetto alla piccola borghesia. La seconda (associata alla definizione “letteraria” di classe operaia di Antunes) li fa scomparire. Analizziamo la questione in dettaglio.
Il punto di partenza è che il semplice produttore di merci possiede i mezzi di produzione che impiega, circostanza che gli consente di essere proprietario del prodotto che immette nel mercato. Di conseguenza, nel mercato realizza il valore che ha generato con il suo lavoro. Il circuito è Merce‑Denaro‑Merce. È un libero produttore, che nel mercato si confronta con altri liberi produttori, proprietari dei loro mezzi di produzione e dei prodotti del loro lavoro. In questa relazione sociale non ha senso parlare di acquisto o vendita di forza lavoro. E ha senso invece dire che egli vive del suo lavoro.
Il lavoratore salariato, invece, non è proprietario dei mezzi di produzione (secondo l’espressione di Marx, è stato “liberato” dal loro possesso o dalla loro proprietà) ed è quindi obbligato a vendere la sua forza lavoro al capitale. Il suo rapporto è quindi con il capitale, che si pone di fronte a lui come proprietario dei mezzi di produzione. Ciò significa che nella compravendita di forza lavoro si presuppone la presenza di un compratore capitalista e di un venditore lavoratore salariato. In altri termini, la relazione di classe tra capitalista e lavoratore salariato «è dunque già presente, già presupposta nel momento in cui entrambi si contrappongono nell’atto Denaro‑Forza lavoro» (K. Marx, Il Capitale, t. II). Possiamo dire che il lavoratore salariato è tale in opposizione al capitale. Questo non significa negare che anche il salariato viva del suo lavoro. Ma può farlo finché accetta di essere sfruttato.
Sottolineiamo che le differenze tra la relazione capitalista e la semplice produzione di merci sono qualitative. Il semplice produttore di merci riceve in denaro, quando vende il suo prodotto (di cui è proprietario), l’equivalente del valore che ha generato. Il lavoratore salariato non è proprietario del prodotto che ha realizzato con il suo lavoro; riceve solo una parte del valore che ha prodotto con il suo lavoro. In altre parole, la relazione capitale‑lavoro presuppone che il lavoratore ceda lavoro a titolo gratuito al capitalista. Ciò non accade nel caso del semplice produttore.
Pertanto, il circuito “Forza lavoro – Denaro – Mezzi di consumo” è subordinato al circuito del capitale, “Denaro – Merce – Denaro valorizzato”. Inoltre, lo scambio di equivalenti Forza lavoro – Denaro implica uno scambio conflittuale, poiché l’uso (o l’abuso) della forza lavoro acquisita dal capitalista sarà oggetto, in varia misura, di resistenza da parte del lavoratore. Il conflitto di classe è insito in questa relazione. Nulla di tutto questo accade nel caso del semplice produttore di merci.
Un altro modo di vedere la questione è la logica che presiede alla produzione di merci e quella che governa il processo di produzione capitalistico: «Il processo di produzione, in quanto unità di processo lavorativo e di processo di creazione di valore, è processo di produzione di merci; in quanto unità di processo lavorativo e di processo di valorizzazione, è processo di produzione capitalistico, ossia forma capitalistica della produzione di merci» (K. Marx, Il Capitale, t. I). La spinta ad aumentare continuamente il pluslavoro (cioè il plusvalore) è propria del processo capitalistico, non della semplice produzione di merci.
Quanto fin qui spiegato riguarda anche la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo. «Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica, è il lavoro salariato che, nello scambio con la parte variabile del capitale […], non solo riproduce questa parte del capitale […], ma oltre a ciò produce plusvalore per il capitalista. Solo per questa via la merce, o il denaro, è trasformata in capitale, è prodotta come capitale. […] Dunque è produttiva solo la capacità lavorativa la cui valorizzazione è maggiore del suo valore» (K. Marx, Teorie sul plusvalore, t. 1). Più avanti Marx chiarisce che tra i lavoratori produttivi rientrano «tutti coloro che collaborano d’une manière ou d’une autre[1] alla produzione della merce, dal vero e proprio lavoratore manuale fino al manager, all’engineer (in quanto sono distinti dal capitalista)» (ivi). Come aveva già sottolineato Adam Smith, il lavoro produttivo viene scambiato direttamente con il capitale. È il lavoro del salariato (includiamo quei lavoratori che contribuiscono alla realizzazione del plusvalore). Al contrario, il lavoro improduttivo «non si scambia con capitale, ma … si scambia direttamente con reddito, quindi con salario o profitto» (ibidem). In genere, il lavoro del semplice produttore di merci rientra in questa definizione. Ancora una volta, appare la differenza qualitativa tra la condizione sociale del semplice produttore di merci e quella del lavoratore salariato.
La differenza tra le due forme sociali è evidente anche quando si passa dalla produzione di plusvalore alla riproduzione del capitale. Nella relazione capitalistica il capitalista, in condizioni normali, utilizzerà parte del plusvalore per acquistare altri mezzi di produzione e forza lavoro. Ecco perché «il processo di produzione capitalistico, considerato nei suoi legami intrinseci, ossia come processo di riproduzione, non produce dunque soltanto merci, non produce soltanto plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso, il rapporto sociale con il capitalista da una parte e l’operaio salariato dall’altra» (K. Marx, Il Capitale, t. 1). Ma questo non è il caso del lavoro del semplice produttore di merci.
Alcune conseguenze della definizione di Antunes
Innanzitutto, si perde di vista il significato storico della cosiddetta accumulazione originaria, che dà origine al rapporto capitalistico. «Il processo che crea il rapporto capitalistico non può … essere nient’altro che il processo di separazione del lavoratore dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro. […] Il processo di separazione da un lato trasforma in capitale i mezzi sociali di vita e di produzione, dall’ altro trasforma i produttori diretti in operai salariati» (K. Marx, Il Capitale, t. 1). Ma questo processo è incomprensibile se non si distinguono le tre classi: i produttori diretti di merci, i lavoratori salariati sussunti nel capitale e i capitalisti. Chiariamo che il ragionamento si applica anche ai casi in cui la produzione per il mercato del produttore semplice si combina con la produzione per il proprio consumo, come accade ancora oggi in molte comunità contadine di tipo precapitalistico.
In secondo luogo, e collegato a quanto detto sopra, nella nozione di classe propugnata da Antunes, scompare il processo di proletarizzazione che accompagna l’espansione della relazione capitale‑lavoro. Lo esprimiamo con alcuni esempi attuali: il passaggio dal medico o dal dentista che erano proprietari dei loro studi al medico o al dentista che sono lavoratori dipendenti – e generano plusvalore – negli ospedali e nelle cliniche private. Un altro: il passaggio da proprietari di taxi, autobus e camion a lavoratori salariati nelle aziende capitaliste di taxi, autobus e camion. Un altro: il piccolo negoziante che fallisce a causa della concorrenza delle grandi catene e dei negozi e diventa salariato per loro. Un altro: il piccolo produttore rurale che perde il suo appezzamento di terreno e diventa un salariato per il grande capitale agricolo. E così via. Questi sono cambiamenti nella situazione di classe.
In terzo luogo, la differenza di programma nella prospettiva del socialismo. Il programma socialista fa appello ai lavoratori salariati affinché assumano il controllo dei mezzi di produzione capitalistici e organizzino socialmente la produzione e la distribuzione. Il programma socialista nei confronti del piccolo contadino, dell’artigiano, del piccolo produttore, invece, ha le sue specificità, poiché questi settori sono generalmente aggrappati alla loro proprietà privata. Non sviluppiamo il punto in questa sede (un esempio di discussione sul programma e sulla tattica nei confronti dei contadini si trova in “Il problema contadino in Francia e in Germania” di Engels del 1894). Ci limitiamo a sottolineare che la differenza di classe tra il produttore semplice e il lavoratore salariato si riflette anche nel programma e nella politica dei partiti socialisti.
Anche in questo caso, questo approccio ha rilevanza per l’analisi e la politica del socialismo rispetto alle comunità precapitalistiche in cui la produzione di mercato semplice si combina con la produzione per l’autoconsumo.
In quarto luogo, e ciò che forse è più importante, cancellando le differenze di classe tra il piccolo produttore privato e i lavoratori salariati, si perde l’asse della politica socialista: la lotta per l’indipendenza di classe. Nel marxismo, questa lotta ha come punto cardinale la teoria del plusvalore e la critica del regime sociale basato sul lavoro salariato. In altre parole, l’affermazione fondamentale del marxismo non è che l’operaio vive del suo lavoro, come il semplice piccolo produttore, ma che è sfruttato. Ecco perché la sostituzione della nozione scientifica (basata sui rapporti di produzione) di classe operaia con la “definizione letteraria” di Antunes non è innocente dal punto di vista politico. Cancellando le differenze di classe tra lavoratori salariati e piccola borghesia, si gettano le basi per lo sviluppo di ogni sorta di populismo socialista e di proposte degli infallibili “amici del popolo”. E il carattere di classe del partito socialista (marxista) si offusca. Una volta assimilata la nuova definizione, esso sarebbe definito come l’organizzazione che esprime – teoricamente, politicamente e programmaticamente – gli interessi del “popolo lavoratore”, inteso come “coloro che vivono del proprio lavoro”. È per questo che il giornale del PTS riproduce la definizione di classe operaia di Antunes senza commenti o osservazioni?
Per concludere, riporto un passo di Lenin che Trotsky riprodusse favorevolmente nella sua critica alla politica dell’Internazionale Comunista in Cina negli anni Venti[2].
«Nel 1906 Lenin scriveva: “Un ultimo consiglio: proletari e semiproletari delle città e delle campagne, organizzatevi separatamente. Non fidatevi di nessun piccolo proprietario terriero, per quanto piccolo, nemmeno di un ‘operaio’ … Noi sosteniamo pienamente il movimento contadino, ma dobbiamo ricordare che è il movimento di un’altra classe, non di quella che può e vuole realizzare la trasformazione socialista”»[3].
Note
[1] In un modo o in un altro (N.d.T.).
[2] Questo lavoro di Trotsky, che in lingua spagnola è noto come Stalin, el gran organizador de derrotas, in italiano reca il titolo La Terza Internazionale dopo Lenin, Schwarz editore (N.d.T.).
[3] Questo testo di Rolando Astarita può ben essere ritenuto un complemento del suo ben più cospicuo lavoro sulla classe operaia in genere, che pure abbiamo pubblicato su questo sito e al quale rinviamo il lettore.
[*] Rolando Astarita è uno studioso marxista di economia. Insegna all’Università di Quilmes e di Buenos Aires, in Argentina.