Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Lotta di classe, Politica nazionale, Teoria

L’accumulazione originaria

Lo stabilimento Barilla nel 1922. In basso, al centro, tra le maestranze, Riccardo Barilla, figlio del fondatore Pietro

È da tem­po in atto una mar­tel­lan­te cam­pa­gna media­ti­ca tesa a pre­sen­ta­re i gio­va­ni come bam­boc­cio­ni (così gli ex mini­stri Toma­so Padoa‑Schioppa e poi Rena­to Bru­net­ta), sfi­ga­ti (Michel Mar­to­ne, ex vice­mi­ni­stro del Lavo­ro) e “choo­sy”, cioè “schiz­zi­no­si” (l’ex mini­stro Elsa For­ne­ro): una cam­pa­gna tesa a dele­git­ti­ma­re il c.d. “posto fis­so” (con­trap­po­nen­do alla sua pre­te­sa “mono­to­nia” la “dina­mi­ci­tà” del pre­ca­ria­to) e a col­pe­vo­liz­za­re i padri che, per il fat­to di esse­re trop­po “garan­ti­ti”, sareb­be­ro respon­sa­bi­li del­la disoc­cu­pa­zio­ne dei pro­pri figli. Tut­to, insom­ma, allo sco­po di smon­ta­re pez­zo a pez­zo – aumen­tan­do così i pro­fit­ti del padro­na­to – le garan­zie e i dirit­ti che la clas­se lavo­ra­tri­ce ha con­qui­sta­to con decen­ni di lotte.
Ma da qual­che set­ti­ma­na quest’operazione media­ti­ca ha fat­to un sal­to di qua­li­tà. L’obiettivo, oggi, è il c.d. “red­di­to di cit­ta­di­nan­za”, cioè quel­la misu­ra che fu il caval­lo di bat­ta­glia del pri­mo gover­no Con­te e, in par­ti­co­la­re, del Movi­men­to 5 Stel­le. Al di là del­la valu­ta­zio­ne cri­ti­ca che da un pun­to di vista poli­ti­co pos­sia­mo dar­ne, resta il fat­to che un sia pur così limi­ta­to prov­ve­di­men­to ha rap­pre­sen­ta­to una boc­ca­ta d’ossigeno per oltre un milio­ne di nuclei fami­lia­ri. Ebbe­ne, nel­le ulti­me set­ti­ma­ne è par­ti­to un vio­len­tis­si­mo attac­co a que­sta misu­ra da par­te del padro­na­to e dei suoi rap­pre­sen­tan­ti isti­tu­zio­na­li. Lo sco­po è, in tut­ta evi­den­za, recu­pe­ra­re i 12,3 miliar­di di euro che essa è costa­ta per desti­nar­li ai capi­ta­li­sti sem­pre più affa­ma­ti di risor­se pub­bli­che per far fron­te a una cri­si eco­no­mi­ca che, aggra­va­ta dal­la pan­de­mia, ha ridot­to i loro uti­li. Oltre a que­sto, c’è l’obiettivo di ave­re un mer­ca­to del lavo­ro sem­pre più pre­ca­rio per poter dispor­re di una mano­do­pe­ra ancor meno cara, e così aumen­ta­re ulte­rior­men­te i profitti.
Ecco che abbia­mo assi­sti­to, ampli­fi­ca­te dai media, a inter­vi­ste fat­te a bari­sti, risto­ra­to­ri, alber­ga­to­ri e tito­la­ri di altri pub­bli­ci eser­ci­zi, in cui si met­te­va in cor­re­la­zio­ne la per­ce­zio­ne del red­di­to di cit­ta­di­nan­za con la dif­fi­col­tà nel repe­ri­re lavo­ra­to­ri (ovvia­men­te iper‑precarizzati e sot­to­pa­ga­ti). E il loro “gri­do di dolo­re” si accom­pa­gna­va al defi­ni­ti­vo giu­di­zio: “c’è poca voglia di lavorare!”.
Uno degli alfie­ri di que­sta cam­pa­gna è il pre­si­den­te del­la regio­ne Cam­pa­nia, quel Vin­cen­zo De Luca che, con un tono sem­pre più rin­ghian­te, ha incol­pa­to chi non accet­ta di esse­re schia­viz­za­to per pochi spic­cio­li di esse­re un fan­nul­lo­ne. Non pote­va esi­mer­si dal far­gli eco, il segre­ta­rio del­la Lega, Sal­vi­ni, che ha “assol­to” dall’accusa di esse­re uno sfrut­ta­to­re l’imprenditore che vuol paga­re un came­rie­re con l’astronomica cifra di 600 euro.
Ma l’acme di que­sta mar­tel­lan­te cam­pa­gna è sta­ta toc­ca­ta con l’intervista rila­scia­ta da Gui­do Baril­la, pre­si­den­te dell’omonima mul­ti­na­zio­na­le dell’alimentazione, che ha invi­ta­to i gio­va­ni a “rinun­cia­re ai sus­si­di faci­li” e a “met­ter­si in gio­co”, anche “accet­tan­do lavo­ri poco remu­ne­ra­ti”. E nel men­tre dif­fon­de­va all’indirizzo dei ragaz­zi il suo pater­na­li­sti­co “Ver­bo”, il Baril­la non si è fat­to scru­po­lo di chie­de­re che lo Sta­to finan­zi però l’attività del­la sua azienda.

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Ora, tut­ti gli epi­so­di che abbia­mo fin qui sin­te­tiz­za­to han­no pro­vo­ca­to una più che legit­ti­ma indi­gna­zio­ne, espres­sa per­lo­più sui social e in qual­che dibat­ti­to tele­vi­si­vo. Ma noi, e in par­ti­co­la­re i gio­va­ni che sono i desti­na­ta­ri di quest’attacco con­cen­tri­co, non pos­sia­mo accon­ten­tar­ci di espri­me­re indi­gna­zio­ne. Anzi, dob­bia­mo dare a que­sto giu­sto sen­ti­men­to – se non voglia­mo limi­tar­ci a mani­fe­sta­re uno ste­ri­le sde­gno – una “veste teo­ri­ca” per pote­re avan­za­re nel­la lot­ta di clas­se, uni­co stru­men­to per con­tra­sta­re le poli­ti­che padronali.
Se ana­liz­zia­mo meglio il discor­so di Baril­la, vedia­mo che egli ripro­po­ne un argo­men­to che era già sta­to con­fu­ta­to nel 1867 da Karl Marx, nel pri­mo Libro del­la sua ope­ra più famo­sa, Il Capi­ta­le. I padro­ni, cioè, tac­cio­no imba­raz­za­ti sul­le ori­gi­ni del­le pro­prie for­tu­ne e sosten­go­no che que­ste sareb­be­ro il frut­to del loro lavo­ro, e che chi “ha voglia di lavo­ra­re”, chi “vuo­le met­ter­si in gio­co” (per dir­la col Baril­la), chi non vuo­le esse­re “choo­sy” (per ripren­de­re il con­cet­to di For­ne­ro), può costrui­re da sé il pro­prio desti­no (e noi sap­pia­mo qua­le: quel­lo di lavo­ra­to­re iper‑sfruttato, sot­to­pa­ga­to e con sem­pre meno dirit­ti). Baril­la tace sul fat­to che egli non ha costrui­to col pro­prio lavo­ro la sua azien­da, ma l’ha ere­di­ta­ta; e che quel­li che l’hanno pre­ce­du­to, a loro vol­ta, non han­no affat­to “lavo­ra­to” per far­ne la mul­ti­na­zio­na­le che è oggi, ma han­no sfrut­ta­to il lavo­ro di colo­ro che inve­ce – essi sì – l’hanno costrui­ta e però non ne sono i proprietari.
Ma sba­glie­rem­mo se ci fer­mas­si­mo alle vicen­de di Gui­do Baril­la e del­la sua fami­glia. Egli è solo uno dei rap­pre­sen­tan­ti di un’infima mino­ran­za di que­sta socie­tà capi­ta­li­sti­ca che non costrui­sce asso­lu­ta­men­te nul­la, ma accu­mu­la for­tu­ne sfrut­tan­do il lavo­ro altrui. Voglia­mo inve­ce par­la­re – per tener fede al pro­po­si­to di dare, come abbia­mo appe­na det­to, una veste teo­ri­ca all’indignazione che han­no susci­ta­to le sue paro­le – di quel pro­ces­so attra­ver­so il qua­le tut­ti i Baril­la di que­sto pia­ne­ta pos­so­no oggi ripe­te­re sif­fat­te scioc­chez­ze: ci rife­ria­mo al pro­ces­so del­la “accu­mu­la­zio­ne ori­gi­na­ria” che Marx ha mira­bil­men­te descrit­to nel­la sua opera.
E ci appre­stia­mo a far­lo pub­bli­can­do, tra­dot­to in ita­lia­no, un bre­ve sag­gio del­lo stu­dio­so mar­xi­sta argen­ti­no Ariel Mayo (di cui abbia­mo già pre­sen­ta­to alcu­ni scrit­ti su que­sto sito), trat­to da una sua lezio­ne ad un cor­so di studi.
Ci augu­ria­mo che que­sto testo pos­sa ser­vi­re a meglio inqua­dra­re, dal pun­to di vista del pro­le­ta­ria­to, le vicen­de che han­no for­ni­to lo spun­to a que­sta nostra intro­du­zio­ne, per­ché se ne pos­sa­no trar­re le giu­ste conclusioni.
Buo­na lettura.
La redazione

L’accumulazione originaria


Ariel Mayo [*]

 

Sic­co­me sia­mo abi­tua­ti a vive­re nel qua­dro di rap­por­ti socia­li capi­ta­li­sti­ci, finia­mo per con­si­de­rar­li come natu­ra­li, come “il modo natu­ra­le di vive­re”. Un esem­pio: nel 1991, mi tro­vai a par­te­ci­pa­re come addet­to al Cen­si­men­to nazio­na­le del­la popo­la­zio­ne e del­le abi­ta­zio­ni. In una del­le case in cui mi recai, mi tro­vai di fron­te una don­na visi­bil­men­te stre­ma­ta, con un bam­bi­no in grem­bo e altri due che giron­zo­la­va­no per casa. Quan­do le doman­dai se lavo­ras­se, mi rispo­se sen­za esi­ta­zio­ni: “No”. La rispo­sta con­tra­sta­va con la sua situa­zio­ne. Però ave­va un sen­so: il lavo­ro che essa svol­ge­va in casa non era remu­ne­ra­to, non lo face­va die­tro com­pen­so; dun­que, non era lavo­ro. Da che nascia­mo, il capi­ta­li­smo ci inse­gna che lavo­ro è solo quel­lo che si rea­liz­za in cam­bio di un sala­rio, il lavo­ro sala­ria­to.
Que­sta “natu­ra­lez­za” del capi­ta­li­smo vie­ne smon­ta­ta se andia­mo indie­tro nel tem­po. Tro­via­mo socie­tà che non sono sta­te capi­ta­li­ste. A que­sto pun­to si pone un pro­ble­ma: come si è arri­va­ti al capi­ta­li­smo? Come si è pro­dot­to il pas­sag­gio dal­le socie­tà pre­ca­pi­ta­li­ste alla socie­tà capitalista?
A que­sto riguar­do, dob­bia­mo sof­fer­mar­ci sull’analisi del capi­to­lo ven­ti­quat­tre­si­mo del Libro pri­mo de Il Capi­ta­le. Marx par­te dal­la pro­spet­ti­va microe­co­no­mi­ca[1] uti­liz­za­ta dagli impren­di­to­ri quan­do for­ni­sco­no spie­ga­zio­ni a pro­po­si­to dell’origine del­la loro ricchezza:

«Nell’economia poli­ti­ca quest’accumulazione ori­gi­na­ria fa all’incirca la stes­sa par­te del “pec­ca­to ori­gi­na­le” nel­la teo­lo­gia: Ada­mo det­te un mor­so alla mela e con ciò il pec­ca­to col­pì il gene­re uma­no. Se ne spie­ga l’origine rac­con­tan­do­la come un aned­do­to del pas­sa­to. C’era una vol­ta, in una età da lun­go tem­po tra­scor­sa, da una par­te una “éli­te” dili­gen­te, intel­li­gen­te e soprat­tut­to rispar­mia­tri­ce, e dall’altra c’erano degli scia­gu­ra­ti ozio­si che sper­pe­ra­va­no tut­to il pro­prio e anche più. Però la leg­gen­da del pec­ca­to ori­gi­na­le teo­lo­gi­co ci rac­con­ta come l’uomo sia sta­to con­dan­na­to a man­gia­re il suo pane nel sudo­re del­la fron­te; inve­ce la sto­ria del pec­ca­to ori­gi­na­le eco­no­mi­co ci rive­la come mai vi sia del­la gen­te che non ha affat­to biso­gno di fati­ca­re. Fa lo stes­so! Così è avve­nu­to che i pri­mi han­no accu­mu­la­to ric­chez­za e che gli altri non han­no avu­to all’ultimo altro da ven­de­re che la pro­pria pel­le. E da que­sto pec­ca­to ori­gi­na­le data la pover­tà del­la gran mas­sa che, ancor sem­pre, non ha altro da ven­de­re fuor­ché se stes­sa, nono­stan­te tut­to il suo lavo­ro, e la ric­chez­za di pochi che cre­sce con­ti­nua­men­te, ben­ché da gran tem­po essi abbia­no ces­sa­to di lavo­ra­re»[2].

Dob­bia­mo tener pre­sen­te che qui Marx non sta descri­ven­do il pro­ces­so di tran­si­zio­ne dal feu­da­le­si­mo al capi­ta­li­smo, ma ripor­ta inve­ce la spie­ga­zio­ne di que­sto pro­ces­so così come la for­mu­la­no gli impren­di­to­ri. Per essi, la loro ric­chez­za è il risul­ta­to del­lo sfor­zo per­so­na­le. Allo stes­so tem­po, la pover­tà è il pro­dot­to di (cat­ti­ve) deci­sio­ni indi­vi­dua­li: ci sono per­so­ne che sono scan­sa­fa­ti­che e per­tan­to fini­ran­no per esse­re pove­re. La spie­ga­zio­ne, dun­que, si basa sul­le azio­ni degli indi­vi­dui, sul­la loro con­dot­ta; di tal­ché, quel­lo che è un pro­ces­so socia­le si tra­sfor­ma nel­la con­se­guen­za del­le deci­sio­ni e del­le azio­ni del­le persone.
La ric­chez­za e la pover­tà sareb­be­ro frut­to del­le deci­sio­ni degli indi­vi­dui. Il ric­co è tale per la sua capa­ci­tà di lavo­ro; il pove­ro è tale per la sua pigri­zia. Tut­to sem­pli­ce, tut­to facile.
Disto­glie­re l’attenzione dall’aspetto socia­le per indi­riz­zar­la inve­ce ver­so quel­lo indi­vi­dua­le ha un’altra con­se­guen­za. I ric­chi sareb­be­ro ric­chi gra­zie ai loro sfor­zi, sen­za che la vio­len­za svol­ga alcu­na fun­zio­ne nell’accumulazione del­la ricchezza.

«Nel­la sto­ria rea­le la par­te impor­tan­te è rap­pre­sen­ta­ta, come è noto, dal­la con­qui­sta, dal sog­gio­ga­men­to, dall’assassinio e dal­la rapi­na, in bre­ve dal­la vio­len­za. Nel­la mite eco­no­mia poli­ti­ca ha regna­to da sem­pre l’idillio. Dirit­to e “lavo­ro” sono sta­ti da sem­pre gli uni­ci mez­zi di arric­chi­men­to, facen­do­si ecce­zio­ne, come è ovvio, vol­ta per vol­ta, per “que­sto anno”. Di fat­to i meto­di dell’accumulazione ori­gi­na­ria son tut­to quel che si vuo­le fuor­ché idil­li­ci»[3].

In que­sto modo, Marx comin­cia a con­fu­ta­re l’abituale argo­men­to sull’accumulazione capi­ta­li­sta. La vio­len­za è inse­pa­ra­bi­le dal pro­ces­so. Cono­scia­mo i meto­di vio­len­ti uti­liz­za­ti per espel­le­re i con­ta­di­ni dal­le loro ter­re. Nel cor­so del capi­to­lo, Marx for­ni­sce nume­ro­se pro­ve del ruo­lo del­la violenza.
Ma non si trat­ta sol­tan­to di mostra­re l’utilizzo del­la vio­len­za: biso­gna mostra­re la fun­zio­ne che essa svolge.
Per ren­der­se­ne con­to biso­gna com­pren­de­re il signi­fi­ca­to del­la nozio­ne di accu­mu­la­zio­ne ori­gi­na­ria. In prin­ci­pio, par­tia­mo da ciò che già cono­scia­mo: il capi­ta­li­smo non è la for­ma “natu­ra­le” dell’organizzazione del­la socie­tà. Se le cose stan­no così, né la ter­ra né gli stru­men­ti di pro­du­zio­ne sono capi­ta­le; un lavo­ra­to­re non è per natu­ra un sala­ria­to. In que­sto modo, biso­gna spie­ga­re come la ter­ra, gli stru­men­ti, i lavo­ra­to­ri, diven­ta­no mer­ci e, così, diven­ta­no capi­ta­le e lavo­ro salariato.
L’accumulazione ori­gi­na­ria è il pro­ces­so, media­to dal­la vio­len­za, di tra­sfor­ma­zio­ne del­la ter­ra e degli stru­men­ti di pro­du­zio­ne in capi­ta­le, e del lavo­ro in lavo­ro salariato.
Nel testo di Marx, il pas­sag­gio chia­ve è il seguente:

«Dena­ro e mer­ce non sono capi­ta­le fin da prin­ci­pio, come non lo sono i mez­zi di pro­du­zio­ne e di sus­si­sten­za. Occor­re che sia­no tra­sfor­ma­ti in capi­ta­le. Ma anche que­sta tra­sfor­ma­zio­ne può avve­ni­re sol­tan­to a cer­te con­di­zio­ni che con­ver­go­no in que­sto: deb­bo­no tro­var­si di fron­te e met­ter­si in con­tat­to due spe­cie diver­sis­si­me di pos­ses­so­ri di mer­ce, da una par­te pro­prie­ta­ri di dena­ro e di mez­zi di pro­du­zio­ne e di sus­si­sten­za, ai qua­li impor­ta di valo­riz­za­re median­te l’acquisto di forza‑lavoro altrui la som­ma di valo­ri pos­se­du­ta; dall’altra par­te ope­rai libe­ri, ven­di­to­ri del­la pro­pria forza‑lavoro e quin­di ven­di­to­ri di lavo­ro. Ope­rai libe­ri nel dupli­ce sen­so che essi non fan­no par­te diret­ta­men­te dei mez­zi di pro­du­zio­ne come gli schia­vi, i ser­vi del­la gle­ba ecc., né ad essi appar­ten­go­no i mez­zi di pro­du­zio­ne, come al con­ta­di­no col­ti­va­to­re diret­to ecc., anzi ne sono libe­ri, pri­vi, sen­za. Con que­sta pola­riz­za­zio­ne del mer­ca­to del­le mer­ci si han­no le con­di­zio­ni fon­da­men­ta­li del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­ca»[4].

Secon­do Marx, affin­ché ci sia capi­ta­li­smo è neces­sa­rio che i mez­zi di pro­du­zio­ne si con­cen­tri­no in un polo del­la socie­tà (i capi­ta­li­sti) e che i lavo­ra­to­ri sia­no libe­ri in un dop­pio sen­so: libe­ri da ogni for­ma di dipen­den­za per­so­na­le (schia­vi­tù, ser­vi­tù del­la gle­ba) e libe­ri dal­la pro­prie­tà dei mez­zi di produzione.

«Il rap­por­to capi­ta­li­sti­co ha come pre­sup­po­sto la sepa­ra­zio­ne fra i lavo­ra­to­ri e la pro­prie­tà del­le con­di­zio­ni di rea­liz­za­zio­ne del lavo­ro. Una vol­ta auto­no­ma, la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­ca non solo man­tie­ne quel­la sepa­ra­zio­ne, ma la ripro­du­ce su sca­la sem­pre cre­scen­te. Il pro­ces­so che crea il rap­por­to capi­ta­li­sti­co non può dun­que esse­re null’altro che il pro­ces­so di sepa­ra­zio­ne del lavo­ra­to­re dal­la pro­prie­tà del­le pro­prie con­di­zio­ni di lavo­ro, pro­ces­so che da una par­te tra­sfor­ma in capi­ta­le i mez­zi socia­li di sus­si­sten­za e di pro­du­zio­ne, dall’altra tra­sfor­ma i pro­dut­to­ri diret­ti in ope­rai sala­ria­ti. Dun­que, la cosid­det­ta accu­mu­la­zio­ne ori­gi­na­ria non è altro che il pro­ces­so sto­ri­co di sepa­ra­zio­ne del pro­dut­to­re dai mez­zi di pro­du­zio­ne. Esso appa­re “ori­gi­na­rio” per­ché costi­tui­sce la pre­i­sto­ria del capi­ta­le e del modo di pro­du­zio­ne ad esso cor­ri­spon­den­te»[5].

Affin­ché ci sia il capi­ta­li­smo è neces­sa­rio sepa­ra­re il lavo­ra­to­re dai mez­zi di pro­du­zio­ne. Tom­ma­so Moro ce ne dà un esem­pio rac­con­tan­do di come i con­ta­di­ni veni­va­no espul­si dal­le ter­re che essi abi­ta­va­no da tem­po imme­mo­ra­bi­le[6]. Sepa­ra­ti dal­la ter­ra, i con­ta­di­ni era­no pri­vi di mez­zi pro­pri per gua­da­gnar­si da vive­re. Non resta­va loro altro se non impie­gar­si come lavo­ra­to­ri sala­ria­ti[7].
La vio­len­za uti­liz­za­ta nel pro­ces­so di espro­pria­zio­ne dei pro­dut­to­ri (i con­ta­di­ni) fu enor­me. E non si trat­tò sol­tan­to dei con­ta­di­ni ingle­si: l’accumulazione ori­gi­na­ria si veri­fi­cò in tut­ti i Pae­si in cui pre­se pie­de il capi­ta­li­smo. Nell’esercizio del­la vio­len­za svol­se un ruo­lo fon­da­men­ta­le lo Stato.
Innan­zi­tut­to, lo Sta­to ebbe un ruo­lo cen­tra­le nel con­trol­lo del­le mas­se di con­ta­di­ni espul­si. In pro­po­si­to, Marx scrive:

«Non era pos­si­bi­le che gli uomi­ni scac­cia­ti dal­la ter­ra per lo scio­gli­men­to dei segui­ti feu­da­li e per l’espropriazione vio­len­ta e a scat­ti, dive­nu­ti esle­ge, fos­se­ro assor­bi­ti dal­la mani­fat­tu­ra al suo nasce­re con la stes­sa rapi­di­tà con la qua­le quel pro­le­ta­ria­to veni­va mes­so al mon­do. D’altra par­te, nep­pu­re que­gli uomi­ni lan­cia­ti all’improvviso fuo­ri dall’orbita abi­tua­le del­la loro vita pote­va­no adat­tar­si con altret­tan­ta rapi­di­tà alla disci­pli­na del­la nuo­va situa­zio­ne. Si tra­sfor­ma­ro­no così, in mas­sa, in men­di­can­ti, bri­gan­ti, vaga­bon­di, in par­te per incli­na­zio­ne, ma nel­la mag­gior par­te dei casi sot­to la pres­sio­ne del­le cir­co­stan­ze. Alla fine del seco­lo XV e duran­te tut­to il seco­lo XVI si ha per­ciò in tut­ta l’Europa occi­den­ta­le una legi­sla­zio­ne san­gui­na­ria con­tro il vaga­bon­dag­gio. I padri del­l’at­tua­le clas­se ope­ra­ia furo­no puni­ti, in un pri­mo tem­po, per la tra­sfor­ma­zio­ne in vaga­bon­di e in mise­ra­bi­li che ave­va­no subì­to»[8].

I con­ta­di­ni era­no per­se­gui­ta­ti come delin­quen­ti. Si trat­ta­va di impie­ga­re la vio­len­za con­tro di loro per evi­ta­re che diven­tas­se­ro un peri­co­lo per l’ordine socia­le, quel­lo stes­so ordi­ne socia­le che era respon­sa­bi­le del­la loro cac­cia­ta dal­le ter­re e del­la loro tra­sfor­ma­zio­ne in criminali.
Lo Sta­to appa­re così come il rap­pre­sen­tan­te del­la clas­se domi­nan­te, in que­sto caso la nobil­tà feu­da­le che sta­va adot­tan­do sem­pre più atteg­gia­men­ti mer­can­ti­li. Il suo ruo­lo con­si­ste­va nel garan­ti­re le con­di­zio­ni di dominazione.
Marx ci descri­ve la situazione:

«Così la popo­la­zio­ne rura­le espro­pria­ta con la for­za, cac­cia­ta dal­la sua ter­ra, e resa vaga­bon­da, veni­va spin­ta con leg­gi fra il grot­te­sco e il ter­ro­ri­sti­co a sot­to­met­ter­si, a for­za di fru­sta, di mar­chio a fuo­co, di tor­tu­re, a quel­la disci­pli­na che era neces­sa­ria al siste­ma del lavo­ro sala­ria­to»[9].

A noi sem­bra natu­ra­le anda­re a lavo­ra­re, rispet­ta­re l’orario di lavo­ro, ordi­na­re i rit­mi del­la nostra vita in fun­zio­ne del lavo­ro. Tut­ta­via, quan­do andia­mo indie­tro nel tem­po, quan­do stu­dia­mo la sto­ria, ci ren­dia­mo con­to che quel­lo che ci appa­re “natu­ra­le” ha richie­sto enor­mi quan­ti­tà di vio­len­za e disci­pli­na­men­to[10].
Marx rias­su­me il ruo­lo del­lo Sta­to in un para­gra­fo che meri­ta di esse­re let­to con attenzione:

«Non basta che le con­di­zio­ni di lavo­ro si pre­sen­ti­no come capi­ta­le a un polo e che all’altro polo si pre­sen­ti­no uomi­ni che non han­no altro da ven­de­re che la pro­pria forza‑lavoro. E non basta nep­pu­re costrin­ge­re que­sti uomi­ni a ven­der­si volon­ta­ria­men­te. Man mano che la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­ca pro­ce­de, si svi­lup­pa una clas­se ope­ra­ia che per edu­ca­zio­ne, tra­di­zio­ne, abi­tu­di­ne, rico­no­sce come leg­gi natu­ra­li ovvie le esi­gen­ze di quel modo di pro­du­zio­ne. L’organizzazione del pro­ces­so di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­co svi­lup­pa­to spez­za ogni resi­sten­za; la costan­te pro­du­zio­ne di una sovrap­po­po­la­zio­ne rela­ti­va tie­ne la leg­ge dell’offerta e del­la doman­da di lavo­ro, e quin­di il sala­rio lavo­ra­ti­vo, entro un bina­rio che cor­ri­spon­de ai biso­gni di valo­riz­za­zio­ne del capi­ta­le; la silen­zio­sa coa­zio­ne dei rap­por­ti eco­no­mi­ci appo­ne il sug­gel­lo al domi­nio del capi­ta­li­sta sull’operaio. Si con­ti­nua, è vero, sem­pre ad usa­re la for­za extrae­co­no­mi­ca, imme­dia­ta, ma solo per ecce­zio­ne. Per il cor­so ordi­na­rio del­le cose l’operaio può rima­ne­re affi­da­to alle “leg­gi natu­ra­li del­la pro­du­zio­ne”, cioè alla sua dipen­den­za dal capi­ta­le, che nasce dal­le stes­se con­di­zio­ni del­la pro­du­zio­ne, e che vie­ne garan­ti­ta e per­pe­tua­ta da esse. Altri­men­ti van­no le cose duran­te la gene­si sto­ri­ca del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­ca. La bor­ghe­sia, al suo sor­ge­re, ha biso­gno del pote­re del­lo Sta­to, e ne fa uso, per “rego­la­re” il sala­rio, cioè per costrin­ger­lo entro limi­ti con­ve­nien­ti a chi vuol fare del plu­sva­lo­re, per pro­lun­ga­re la gior­na­ta lavo­ra­ti­va e per man­te­ne­re l’operaio stes­so a un gra­do nor­ma­le di dipen­den­za. È que­sto un momen­to essen­zia­le del­la cosid­det­ta accu­mu­la­zio­ne ori­gi­na­ria»[11].

Quan­to fin qui espo­sto ci for­ni­sce un pano­ra­ma sin­te­ti­co dell’accumulazione originaria […].

Vil­la del Par­que, 4 giu­gno 2020.


Note
(Tut­te le note, ad ecce­zio­ne del­la n. 6, sono dell’Autore del sag­gio. Per i rife­ri­men­ti all’opera di Marx abbia­mo fat­to rife­ri­men­to all’edizione italiana)

[1] Con “pro­spet­ti­va microe­co­no­mi­ca” mi rife­ri­sco agli stu­di e ricer­che che si rea­liz­za­no dal­la pro­spet­ti­va di indi­vi­dui o di pic­co­li grup­pi. È l’opposto rispet­to alla pro­spet­ti­va macroe­co­no­mi­ca, che stu­dia inve­ce i gran­di gruppi.
[2] K. Marx, Il capi­ta­le, Libro pri­mo, cap. 24, Edi­to­ri Riu­ni­ti, 1994, pp. 777‑778.
[3] Ivi, p. 778.
[4] Ibi­dem.
[5] Ivi, pp. 778‑779.
[6] Tho­mas More (ita­lia­niz­za­to in Tom­ma­so Moro) fu un uma­ni­sta, scrit­to­re e poli­ti­co ingle­se (1478‑1535). Nel­la sua ope­ra più famo­sa – Uto­pia – for­mu­lò una cri­ti­ca mol­to aspra alla pro­prie­tà pri­va­ta e in par­ti­co­la­re descris­se il pro­ces­so di espul­sio­ne dei con­ta­di­ni dal­le ter­re per adi­bir­le a pasco­lo del­le peco­re in fun­zio­ne del­lo svi­lup­po del­la pro­du­zio­ne di lana e del­la rela­ti­va spe­cu­la­zio­ne. In con­se­guen­za di ciò, ai con­ta­di­ni cac­cia­ti dai pode­ri non resta­va altro che vaga­bon­da­re dedi­can­do­si alla men­di­ci­tà o ai fur­ti. Il fur­to veni­va puni­to con la mor­te (N.d.T.).
[7] Ma c’era un pro­ble­ma: non esi­ste­va un mer­ca­to del lavo­ro capa­ce di assor­bi­re la mas­sa di con­ta­di­ni espul­si. Per­tan­to, mol­ti di loro diven­ne­ro vaga­bon­di, ladri, pro­sti­tu­te, ecc. Tom­ma­so Moro descri­ve det­ta­glia­ta­men­te que­sto pro­ces­so. Fu neces­sa­rio atten­de­re il XVIII seco­lo per­ché lo svi­lup­po del­la pro­du­zio­ne mani­fat­tu­rie­ra (e poi del­la pro­du­zio­ne indu­stria­le) per­met­tes­se la con­ver­sio­ne dei con­ta­di­ni in ope­rai salariati.
[8] K. Marx, op. cit., p. 797.
[9] Ivi, p. 800.
[10] Una let­tu­ra con­si­glia­ta a pro­po­si­to di que­sti pro­ces­si di disci­pli­na­men­to è Sor­ve­glia­re e puni­re, del filo­so­fo fran­ce­se Michel Fou­cault (1926‑1984).
[11] K. Marx, op. cit., pp. 800‑801.


(Tra­du­zio­ne di Vale­rio Tor­re e Andrea Di Benedetto)


[*] Ariel Mayo, stu­dio­so mar­xi­sta argen­ti­no, inse­gna all’Università Nazio­na­le di San Mar­tín (Unsam) e all’Istituto Supe­rio­re di For­ma­zio­ne Docen­te “Dr. Joa­quín V. González”.