È da tempo in atto una martellante campagna mediatica tesa a presentare i giovani come bamboccioni (così gli ex ministri Tomaso Padoa‑Schioppa e poi Renato Brunetta), sfigati (Michel Martone, ex viceministro del Lavoro) e “choosy”, cioè “schizzinosi” (l’ex ministro Elsa Fornero): una campagna tesa a delegittimare il c.d. “posto fisso” (contrapponendo alla sua pretesa “monotonia” la “dinamicità” del precariato) e a colpevolizzare i padri che, per il fatto di essere troppo “garantiti”, sarebbero responsabili della disoccupazione dei propri figli. Tutto, insomma, allo scopo di smontare pezzo a pezzo – aumentando così i profitti del padronato – le garanzie e i diritti che la classe lavoratrice ha conquistato con decenni di lotte.
Ma da qualche settimana quest’operazione mediatica ha fatto un salto di qualità. L’obiettivo, oggi, è il c.d. “reddito di cittadinanza”, cioè quella misura che fu il cavallo di battaglia del primo governo Conte e, in particolare, del Movimento 5 Stelle. Al di là della valutazione critica che da un punto di vista politico possiamo darne, resta il fatto che un sia pur così limitato provvedimento ha rappresentato una boccata d’ossigeno per oltre un milione di nuclei familiari. Ebbene, nelle ultime settimane è partito un violentissimo attacco a questa misura da parte del padronato e dei suoi rappresentanti istituzionali. Lo scopo è, in tutta evidenza, recuperare i 12,3 miliardi di euro che essa è costata per destinarli ai capitalisti sempre più affamati di risorse pubbliche per far fronte a una crisi economica che, aggravata dalla pandemia, ha ridotto i loro utili. Oltre a questo, c’è l’obiettivo di avere un mercato del lavoro sempre più precario per poter disporre di una manodopera ancor meno cara, e così aumentare ulteriormente i profitti.
Ecco che abbiamo assistito, amplificate dai media, a interviste fatte a baristi, ristoratori, albergatori e titolari di altri pubblici esercizi, in cui si metteva in correlazione la percezione del reddito di cittadinanza con la difficoltà nel reperire lavoratori (ovviamente iper‑precarizzati e sottopagati). E il loro “grido di dolore” si accompagnava al definitivo giudizio: “c’è poca voglia di lavorare!”.
Uno degli alfieri di questa campagna è il presidente della regione Campania, quel Vincenzo De Luca che, con un tono sempre più ringhiante, ha incolpato chi non accetta di essere schiavizzato per pochi spiccioli di essere un fannullone. Non poteva esimersi dal fargli eco, il segretario della Lega, Salvini, che ha “assolto” dall’accusa di essere uno sfruttatore l’imprenditore che vuol pagare un cameriere con l’astronomica cifra di 600 euro.
Ma l’acme di questa martellante campagna è stata toccata con l’intervista rilasciata da Guido Barilla, presidente dell’omonima multinazionale dell’alimentazione, che ha invitato i giovani a “rinunciare ai sussidi facili” e a “mettersi in gioco”, anche “accettando lavori poco remunerati”. E nel mentre diffondeva all’indirizzo dei ragazzi il suo paternalistico “Verbo”, il Barilla non si è fatto scrupolo di chiedere che lo Stato finanzi però l’attività della sua azienda.• • •
Ora, tutti gli episodi che abbiamo fin qui sintetizzato hanno provocato una più che legittima indignazione, espressa perlopiù sui social e in qualche dibattito televisivo. Ma noi, e in particolare i giovani che sono i destinatari di quest’attacco concentrico, non possiamo accontentarci di esprimere indignazione. Anzi, dobbiamo dare a questo giusto sentimento – se non vogliamo limitarci a manifestare uno sterile sdegno – una “veste teorica” per potere avanzare nella lotta di classe, unico strumento per contrastare le politiche padronali.
Se analizziamo meglio il discorso di Barilla, vediamo che egli ripropone un argomento che era già stato confutato nel 1867 da Karl Marx, nel primo Libro della sua opera più famosa, Il Capitale. I padroni, cioè, tacciono imbarazzati sulle origini delle proprie fortune e sostengono che queste sarebbero il frutto del loro lavoro, e che chi “ha voglia di lavorare”, chi “vuole mettersi in gioco” (per dirla col Barilla), chi non vuole essere “choosy” (per riprendere il concetto di Fornero), può costruire da sé il proprio destino (e noi sappiamo quale: quello di lavoratore iper‑sfruttato, sottopagato e con sempre meno diritti). Barilla tace sul fatto che egli non ha costruito col proprio lavoro la sua azienda, ma l’ha ereditata; e che quelli che l’hanno preceduto, a loro volta, non hanno affatto “lavorato” per farne la multinazionale che è oggi, ma hanno sfruttato il lavoro di coloro che invece – essi sì – l’hanno costruita e però non ne sono i proprietari.
Ma sbaglieremmo se ci fermassimo alle vicende di Guido Barilla e della sua famiglia. Egli è solo uno dei rappresentanti di un’infima minoranza di questa società capitalistica che non costruisce assolutamente nulla, ma accumula fortune sfruttando il lavoro altrui. Vogliamo invece parlare – per tener fede al proposito di dare, come abbiamo appena detto, una veste teorica all’indignazione che hanno suscitato le sue parole – di quel processo attraverso il quale tutti i Barilla di questo pianeta possono oggi ripetere siffatte sciocchezze: ci riferiamo al processo della “accumulazione originaria” che Marx ha mirabilmente descritto nella sua opera.
E ci apprestiamo a farlo pubblicando, tradotto in italiano, un breve saggio dello studioso marxista argentino Ariel Mayo (di cui abbiamo già presentato alcuni scritti su questo sito), tratto da una sua lezione ad un corso di studi.
Ci auguriamo che questo testo possa servire a meglio inquadrare, dal punto di vista del proletariato, le vicende che hanno fornito lo spunto a questa nostra introduzione, perché se ne possano trarre le giuste conclusioni.
Buona lettura.
La redazione
L’accumulazione originaria
Ariel Mayo [*]
Siccome siamo abituati a vivere nel quadro di rapporti sociali capitalistici, finiamo per considerarli come naturali, come “il modo naturale di vivere”. Un esempio: nel 1991, mi trovai a partecipare come addetto al Censimento nazionale della popolazione e delle abitazioni. In una delle case in cui mi recai, mi trovai di fronte una donna visibilmente stremata, con un bambino in grembo e altri due che gironzolavano per casa. Quando le domandai se lavorasse, mi rispose senza esitazioni: “No”. La risposta contrastava con la sua situazione. Però aveva un senso: il lavoro che essa svolgeva in casa non era remunerato, non lo faceva dietro compenso; dunque, non era lavoro. Da che nasciamo, il capitalismo ci insegna che lavoro è solo quello che si realizza in cambio di un salario, il lavoro salariato.
Questa “naturalezza” del capitalismo viene smontata se andiamo indietro nel tempo. Troviamo società che non sono state capitaliste. A questo punto si pone un problema: come si è arrivati al capitalismo? Come si è prodotto il passaggio dalle società precapitaliste alla società capitalista?
A questo riguardo, dobbiamo soffermarci sull’analisi del capitolo ventiquattresimo del Libro primo de Il Capitale. Marx parte dalla prospettiva microeconomica[1] utilizzata dagli imprenditori quando forniscono spiegazioni a proposito dell’origine della loro ricchezza:
«Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del “peccato originale” nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come un aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una “élite” diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza di pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare»[2].
Dobbiamo tener presente che qui Marx non sta descrivendo il processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo, ma riporta invece la spiegazione di questo processo così come la formulano gli imprenditori. Per essi, la loro ricchezza è il risultato dello sforzo personale. Allo stesso tempo, la povertà è il prodotto di (cattive) decisioni individuali: ci sono persone che sono scansafatiche e pertanto finiranno per essere povere. La spiegazione, dunque, si basa sulle azioni degli individui, sulla loro condotta; di talché, quello che è un processo sociale si trasforma nella conseguenza delle decisioni e delle azioni delle persone.
La ricchezza e la povertà sarebbero frutto delle decisioni degli individui. Il ricco è tale per la sua capacità di lavoro; il povero è tale per la sua pigrizia. Tutto semplice, tutto facile.
Distogliere l’attenzione dall’aspetto sociale per indirizzarla invece verso quello individuale ha un’altra conseguenza. I ricchi sarebbero ricchi grazie ai loro sforzi, senza che la violenza svolga alcuna funzione nell’accumulazione della ricchezza.
«Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi di arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per “questo anno”. Di fatto i metodi dell’accumulazione originaria son tutto quel che si vuole fuorché idillici»[3].
In questo modo, Marx comincia a confutare l’abituale argomento sull’accumulazione capitalista. La violenza è inseparabile dal processo. Conosciamo i metodi violenti utilizzati per espellere i contadini dalle loro terre. Nel corso del capitolo, Marx fornisce numerose prove del ruolo della violenza.
Ma non si tratta soltanto di mostrare l’utilizzo della violenza: bisogna mostrare la funzione che essa svolge.
Per rendersene conto bisogna comprendere il significato della nozione di accumulazione originaria. In principio, partiamo da ciò che già conosciamo: il capitalismo non è la forma “naturale” dell’organizzazione della società. Se le cose stanno così, né la terra né gli strumenti di produzione sono capitale; un lavoratore non è per natura un salariato. In questo modo, bisogna spiegare come la terra, gli strumenti, i lavoratori, diventano merci e, così, diventano capitale e lavoro salariato.
L’accumulazione originaria è il processo, mediato dalla violenza, di trasformazione della terra e degli strumenti di produzione in capitale, e del lavoro in lavoro salariato.
Nel testo di Marx, il passaggio chiave è il seguente:
«Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza‑lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza‑lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica»[4].
Secondo Marx, affinché ci sia capitalismo è necessario che i mezzi di produzione si concentrino in un polo della società (i capitalisti) e che i lavoratori siano liberi in un doppio senso: liberi da ogni forma di dipendenza personale (schiavitù, servitù della gleba) e liberi dalla proprietà dei mezzi di produzione.
«Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione del lavoratore dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati. Dunque, la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare “originario” perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente»[5].
Affinché ci sia il capitalismo è necessario separare il lavoratore dai mezzi di produzione. Tommaso Moro ce ne dà un esempio raccontando di come i contadini venivano espulsi dalle terre che essi abitavano da tempo immemorabile[6]. Separati dalla terra, i contadini erano privi di mezzi propri per guadagnarsi da vivere. Non restava loro altro se non impiegarsi come lavoratori salariati[7].
La violenza utilizzata nel processo di espropriazione dei produttori (i contadini) fu enorme. E non si trattò soltanto dei contadini inglesi: l’accumulazione originaria si verificò in tutti i Paesi in cui prese piede il capitalismo. Nell’esercizio della violenza svolse un ruolo fondamentale lo Stato.
Innanzitutto, lo Stato ebbe un ruolo centrale nel controllo delle masse di contadini espulsi. In proposito, Marx scrive:
«Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subìto»[8].
I contadini erano perseguitati come delinquenti. Si trattava di impiegare la violenza contro di loro per evitare che diventassero un pericolo per l’ordine sociale, quello stesso ordine sociale che era responsabile della loro cacciata dalle terre e della loro trasformazione in criminali.
Lo Stato appare così come il rappresentante della classe dominante, in questo caso la nobiltà feudale che stava adottando sempre più atteggiamenti mercantili. Il suo ruolo consisteva nel garantire le condizioni di dominazione.
Marx ci descrive la situazione:
«Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato»[9].
A noi sembra naturale andare a lavorare, rispettare l’orario di lavoro, ordinare i ritmi della nostra vita in funzione del lavoro. Tuttavia, quando andiamo indietro nel tempo, quando studiamo la storia, ci rendiamo conto che quello che ci appare “naturale” ha richiesto enormi quantità di violenza e disciplinamento[10].
Marx riassume il ruolo dello Stato in un paragrafo che merita di essere letto con attenzione:
«Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza‑lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle “leggi naturali della produzione”, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per “regolare” il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. È questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria»[11].
Quanto fin qui esposto ci fornisce un panorama sintetico dell’accumulazione originaria […].
Villa del Parque, 4 giugno 2020.
Note
(Tutte le note, ad eccezione della n. 6, sono dell’Autore del saggio. Per i riferimenti all’opera di Marx abbiamo fatto riferimento all’edizione italiana)
[1] Con “prospettiva microeconomica” mi riferisco agli studi e ricerche che si realizzano dalla prospettiva di individui o di piccoli gruppi. È l’opposto rispetto alla prospettiva macroeconomica, che studia invece i grandi gruppi.
[2] K. Marx, Il capitale, Libro primo, cap. 24, Editori Riuniti, 1994, pp. 777‑778.
[3] Ivi, p. 778.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, pp. 778‑779.
[6] Thomas More (italianizzato in Tommaso Moro) fu un umanista, scrittore e politico inglese (1478‑1535). Nella sua opera più famosa – Utopia – formulò una critica molto aspra alla proprietà privata e in particolare descrisse il processo di espulsione dei contadini dalle terre per adibirle a pascolo delle pecore in funzione dello sviluppo della produzione di lana e della relativa speculazione. In conseguenza di ciò, ai contadini cacciati dai poderi non restava altro che vagabondare dedicandosi alla mendicità o ai furti. Il furto veniva punito con la morte (N.d.T.).
[7] Ma c’era un problema: non esisteva un mercato del lavoro capace di assorbire la massa di contadini espulsi. Pertanto, molti di loro divennero vagabondi, ladri, prostitute, ecc. Tommaso Moro descrive dettagliatamente questo processo. Fu necessario attendere il XVIII secolo perché lo sviluppo della produzione manifatturiera (e poi della produzione industriale) permettesse la conversione dei contadini in operai salariati.
[8] K. Marx, op. cit., p. 797.
[9] Ivi, p. 800.
[10] Una lettura consigliata a proposito di questi processi di disciplinamento è Sorvegliare e punire, del filosofo francese Michel Foucault (1926‑1984).
[11] K. Marx, op. cit., pp. 800‑801.
(Traduzione di Valerio Torre e Andrea Di Benedetto)
[*] Ariel Mayo, studioso marxista argentino, insegna all’Università Nazionale di San Martín (Unsam) e all’Istituto Superiore di Formazione Docente “Dr. Joaquín V. González”.