Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Storia del movimento operaio

La “grande paura”: il biennio rosso

Operai difendono in armi una fabbrica milanese

La “grande paura”: il biennio rosso

Una rivoluzione mancata, una rivoluzione tradita

Vale­rio Torre

«L’Internazionale comu­ni­sta respin­ge con la mas­si­ma deci­sio­ne l’idea che il pro­le­ta­ria­to pos­sa com­pie­re la pro­pria rivo­lu­zio­ne sen­za ave­re un par­ti­to poli­ti­co auto­no­mo. Ogni lot­ta di clas­se è lot­ta poli­ti­ca. Lo sco­po di que­sta lot­ta […] è la con­qui­sta del pote­re politico».
(II Con­gres­so dell’Internazionale comu­ni­sta, Tesi sul ruo­lo del par­ti­to comu­ni­sta nel­la rivo­lu­zio­ne pro­le­ta­ria, in A. Ago­sti, La Ter­za Inter­na­zio­na­le. Sto­ria docu­men­ta­ria, Edi­to­ri riu­ni­ti, 1974, Vol. I, p. 227).

 

Il con­te­sto inter­na­zio­na­le dopo la Pri­ma guer­ra mondiale
La Pri­ma guer­ra mon­dia­le ave­va pro­dot­to pro­fon­de modi­fi­ca­zio­ni nell’organizzazione del­la pro­du­zio­ne, nei rap­por­ti di lavo­ro, nel­la com­po­si­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia. E in più, ave­va bru­sca­men­te posto fine al ciclo di lot­te che dopo il 1907 ave­va visto come pro­ta­go­ni­sta il pro­le­ta­ria­to di Euro­pa e Sta­ti Uni­ti. La con­flit­tua­li­tà sin­da­ca­le ave­va subi­to un arre­sto pres­so­ché com­ple­to, a cau­sa del­la mili­ta­riz­za­zio­ne dei lavo­ra­to­ri, dell’irrigidimento del­le gerar­chie azien­da­li e dell’imposizione di una fer­rea disci­pli­na di fab­bri­ca, attra­ver­so cui il padro­na­to ave­va impo­sto nuo­vi e più pesan­ti rit­mi di lavo­ro e arre­tra­men­ti sul ver­san­te sala­ria­le per poter arri­va­re a una nuo­va orga­niz­za­zio­ne del lavo­ro in fun­zio­ne di una mag­gio­re red­di­ti­vi­tà[1].
Tut­ta­via, a par­ti­re dal 1917, que­sta situa­zio­ne di riflus­so comin­ciò a modi­fi­car­si, sia per l’aggravamento del­la situa­zio­ne gene­ra­le di tut­ti i Pae­si bel­li­ge­ran­ti, sia per il pro­fi­lar­si di un fat­to ine­di­to, che ebbe enor­mi riper­cus­sio­ni sul movi­men­to ope­ra­io: la Rivo­lu­zio­ne d’ottobre. Che rac­chiu­de­va e intrec­cia­va in sé le riven­di­ca­zio­ni di pace e di un radi­ca­le rin­no­va­men­to socia­le. Così, il 1917 e il ’18 vide­ro l’intensificarsi del­le agi­ta­zio­ni socia­li e una for­te ripre­sa del­le lot­te ope­ra­ie; men­tre il bien­nio 1919-’20, quel­lo che sareb­be poi sta­to defi­ni­to “bien­nio ros­so”, segnò un nuo­vo ciclo ascen­den­te di lot­te che inte­res­sò Pae­si extraeu­ro­pei e pres­so­ché tut­ti quel­li del con­ti­nen­te euro­peo[2]. I dati degli scio­pe­ri sono signi­fi­ca­ti­vi[3].
Tut­ta­via, al di là del dato quan­ti­ta­ti­vo, va segna­la­ta la rile­van­za qua­li­ta­ti­va del­le lot­te ope­ra­ie del bien­nio: lot­te che supe­ra­ro­no i limi­ti del­la pura riven­di­ca­zio­ne sin­da­ca­le per giun­ge­re a met­te­re in discus­sio­ne gli aspet­ti dell’organizzazione padro­na­le del lavo­ro e del­la pro­du­zio­ne e il regi­me eco­no­mi­co nel suo insie­me, fon­den­do così lot­ta eco­no­mi­ca e poli­ti­ca[4].
Ma ciò che il ’19-’20 mise in luce fu, al di là del­la cari­ca dirom­pen­te del­le lot­te ope­ra­ie, un nuo­vo pro­ta­go­ni­smo del­le mas­se. Oltre al pro­le­ta­ria­to indu­stria­le, irrup­pe­ro sul­la sce­na poli­ti­ca ampi set­to­ri del ceto medio sala­ria­to e vasti stra­ti del mon­do con­ta­di­no. Que­sta for­te e gene­ra­liz­za­ta spin­ta alla par­te­ci­pa­zio­ne poli­ti­ca, ani­ma­ta dal mes­sag­gio rivo­lu­zio­na­rio dell’Ottobre, si scon­trò con la cri­si del­la bor­ghe­sia, il crol­lo di impe­ri seco­la­ri e il decli­no del­la vec­chia Euro­pa. Si apri­va, insom­ma, un perio­do di feb­bri­li atte­se e di gran­di spe­ran­ze di cambiamento.

Il con­te­sto socio-eco­no­mi­co in Italia
Nel bien­nio ’19-’20 l’Italia attra­ver­sò una cri­si di dimen­sio­ni mai cono­sciu­te, dovu­ta agli scon­vol­gi­men­ti pro­vo­ca­ti dal con­flit­to bel­li­co a tut­ti i livel­li del­la socie­tà. Ben­ché vit­to­rio­so, il Pae­se era usci­to dal­la guer­ra come se fos­se sta­to vin­to: oltre 600.000 mor­ti, altret­tan­ti muti­la­ti e inva­li­di, più di un milio­ne di feri­ti. Ma anche con una strut­tu­ra eco­no­mi­co-socia­le pro­fon­da­men­te tra­sfor­ma­ta: seb­be­ne con­ser­vas­se un’economia mista agri­co­lo-indu­stria­le, il peso poli­ti­co acqui­si­to dal­la bor­ghe­sia “pro­dut­ti­va” ave­va rove­scia­to l’equilibrio con gli inte­res­si agra­ri e l’aveva legit­ti­ma­ta come clas­se domi­nan­te, ege­mo­ni­ca ai ver­ti­ci del­lo Stato.
La guer­ra ave­va infat­ti sti­mo­la­to una mas­sic­cia dila­ta­zio­ne dell’apparato pro­dut­ti­vo, soprat­tut­to dell’industria bel­li­ca, cre­sciu­ta all’ombra del pro­te­zio­ni­smo e del­le com­mes­se di Sta­to. Ma, con la fine del­le osti­li­tà, si fer­mò il prin­ci­pa­le vola­no dell’economia: l’arresto del­la pro­du­zio­ne bel­li­ca non riu­scì a tra­dur­si – così com’era nel­le inten­zio­ni del­la bor­ghe­sia – in una ricon­ver­sio­ne a sco­pi civi­li dell’industria. Ciò deter­mi­nò una for­te disoc­cu­pa­zio­ne di mas­sa in una situa­zio­ne carat­te­riz­za­ta da un’incontrollata spi­ra­le inflazionistica.

Mani­fe­sta­zio­ne di pro­te­sta dell’Associazione Muti­la­ti e Inva­li­di di guerra

Per affron­ta­re la pia­ga dell’inflazione, gover­no e padro­na­to, non poten­do uti­liz­za­re i clas­si­ci siste­mi del­la stret­ta cre­di­ti­zia e del­le mano­vre sul tas­so di scon­to (che avreb­be­ro aggra­va­to la situa­zio­ne del­le impre­se) indi­vi­dua­ro­no uno dei meto­di che in eco­no­mia pos­so­no met­te­re in moto il pro­ces­so di defla­zio­ne: spin­ge­re al mas­si­mo l’attività pro­dut­ti­va. Per incre­men­ta­re il ren­di­men­to del lavo­ro, dun­que, e per pla­ca­re le agi­ta­zio­ni che para­liz­za­va­no l’economia (1.800 scio­pe­ri con 1.500.000 di scio­pe­ran­ti nel solo 1919), i capi­ta­li­sti fece­ro con­ces­sio­ni agli ope­rai: una nuo­va legi­sla­zio­ne socia­le, aumen­ti sala­ria­li, ridu­zio­ne del­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va a otto ore. Ma que­sti pur impor­tan­ti risul­ta­ti con­se­gui­ti non basta­ro­no a instau­ra­re quel cli­ma di “col­la­bo­ra­zio­ne”[5] su cui la bor­ghe­sia face­va affi­da­men­to per avvia­re un nuo­vo ciclo di pro­fit­ti. Le pro­mes­se che la clas­se diri­gen­te ave­va spar­so a pie­ne mani per con­vin­ce­re il pro­le­ta­ria­to e la pic­co­la bor­ghe­sia a far­si doci­le car­ne da macel­lo duran­te la guer­ra e a sop­por­tar­ne il peso non pote­va­no, ovvia­men­te, esse­re man­te­nu­te: le ter­re pro­mes­se ai con­ta­di­ni resta­va­no sal­da­men­te in mano agli agra­ri del nord e ai lati­fon­di­sti meri­dio­na­li, men­tre gli impe­gni di miglio­ra­men­to del­la col­lo­ca­zio­ne socia­le che il gover­no ave­va assun­to col ceto medio ven­ne­ro disat­te­si. Insom­ma, il con­to del con­flit­to dove­va come sem­pre esse­re paga­to dal­le clas­si subal­ter­ne. Ciò pro­dus­se una vio­len­ta rea­zio­ne di que­ste ulti­me, per quan­to cao­ti­ca e pri­va di dire­zio­ne. Vi furo­no scio­pe­ri nel­le indu­strie, nel­le cam­pa­gne e fra i lavo­ra­to­ri a red­di­to fis­so: inse­gnan­ti, magi­stra­ti, tec­ni­ci e per­si­no poli­zia. Come vedre­mo, tut­ti que­sti set­to­ri lot­ta­va­no per obiet­ti­vi diver­si: gli ope­rai per aumen­ti sala­ria­li e miglio­ri con­di­zio­ni di lavo­ro; i brac­cian­ti per otte­ne­re il mono­po­lio del col­lo­ca­men­to (cioè la riser­va sta­ta­le del mer­ca­to del lavo­ro) e l’imponibile di mano­do­pe­ra (cioè l’obbligo di assu­me­re deter­mi­na­te quo­te di lavo­ra­to­ri), i mez­za­dri per otte­ne­re dal­la pro­prie­tà ter­rie­ra nuo­vi pat­ti più favo­re­vo­li, i sen­za­ter­ra per l’occupazione del­le ter­re; dal can­to loro, gli appar­te­nen­ti al ceto medio, in par­ti­co­la­re i qua­dri dell’esercito smo­bi­li­ta­ti, vole­va­no veder­si rico­no­sciu­ti i sacri­fi­ci fat­ti al fronte.
Dun­que, nel cli­ma auten­ti­ca­men­te rivo­lu­zio­na­rio che si vive­va (la paro­la d’ordine “Fare come in Rus­sia!” risuo­na­va sem­pre più fre­quen­te­men­te nel­le piaz­ze), gran­di mas­se si era­no mes­se in movi­men­to e tut­te ambi­va­no a un rea­le cam­bia­men­to socia­le sull’onda degli impor­tan­ti som­mo­vi­men­ti che si era­no rea­liz­za­ti con la rivo­lu­zio­ne d’ottobre. Per­si­no il pro­gram­ma “dician­no­vi­sta”[6] dei fasci di com­bat­ti­men­to di Mus­so­li­ni, che si can­di­da­va­no a rap­pre­sen­ta­re gli inte­res­si di una pic­co­la bor­ghe­sia radi­ca­liz­za­ta ma non anco­ra schie­ra­ta su posi­zio­ni aper­ta­men­te rea­zio­na­rie, era obbli­ga­to a dar­si con­trad­dit­to­ria­men­te qual­che pen­nel­la­ta pro­gres­si­sta per asso­mi­glia­re a un mani­fe­sto rifor­ma­to­re del vec­chio ordi­ne sociale.
E men­tre la pic­co­la bor­ghe­sia riti­ra­va il pro­prio soste­gno di mas­sa in pre­ce­den­za accor­da­to allo Sta­to libe­ra­le deter­mi­nan­do una vera cri­si di ege­mo­nia del bloc­co domi­nan­te, un dif­fu­so spi­ri­to anti­ca­pi­ta­li­sta e un’autentica insof­fe­ren­za per le esi­gen­ze del regi­me di fab­bri­ca si face­va­no stra­da tra lar­ghe mas­se di ope­rai che anda­va­no sem­pre più rifiu­tan­do le leg­gi del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­ca impe­den­do ai padro­ni di poter dispor­re come in pas­sa­to del­la for­za lavo­ro. Fu in que­sto qua­dro di nuo­vi e diver­si equi­li­bri socia­li, di sof­fe­ren­za popo­la­re e spe­ran­ze di cam­bia­men­to, che i diri­gen­ti poli­ti­ci e sin­da­ca­li del movi­men­to ope­ra­io furo­no chia­ma­ti a un com­pi­to che essi non sep­pe­ro e non vol­le­ro svol­ge­re, fun­gen­do anzi – come vedre­mo – da uti­le sup­por­to alle isti­tu­zio­ni sta­ta­li in crisi.

I  moti con­tro il caro-viveri
E fu pro­prio in que­sto qua­dro che l’ansia di tra­sfor­ma­zio­ne che attra­ver­sa­va le clas­si subal­ter­ne sfo­ciò nel pri­mo gran­de moto rivo­lu­zio­na­rio del bien­nio che stia­mo esa­mi­nan­do: quel­lo del­la pri­ma­ve­ra-esta­te del 1919, che, cono­sciu­to come i “moti con­tro il caro-vive­ri”[7], scos­se le fon­da­men­ta del­lo Sta­to borghese.
A La Spe­zia, l’11 giu­gno del ’19, le mas­se popo­la­ri sce­se­ro in piaz­za per pro­te­sta­re con­tro la ser­ra­ta dei gros­si­sti di frut­ta e ver­du­ra. Sca­val­can­do le loro dire­zio­ni sin­da­ca­li, gli ope­rai pro­cla­ma­ro­no lo scio­pe­ro gene­ra­le mani­fe­stan­do in die­ci­mi­la per le stra­de, dove ven­ne­ro affron­ta­ti dai cara­bi­nie­ri che spa­ra­ro­no sul cor­teo ucci­den­do due lavo­ra­to­ri e feren­do­ne ven­ti­cin­que. Per nul­la inti­mo­ri­ti, i mani­fe­stan­ti si sca­te­na­ro­no nell’assalto e nel sac­cheg­gio dei nego­zi, impa­dro­nen­do­si di fat­to del­la cit­tà: lo scio­pe­ro gene­ra­le era diven­ta­to un moto insur­re­zio­na­le, men­tre nuclei di mari­nai del­le navi da guer­ra di stan­za nel por­to fra­ter­niz­za­va­no con i pro­le­ta­ri. Ven­ne for­ma­to un Comi­ta­to d’azione che, pen­san­do a come esten­de­re il con­flit­to ad altre cit­tà, si recò a Mila­no per chie­de­re istru­zio­ni alla dire­zio­ne sin­da­ca­le, la Cgl[8]. Incre­di­bil­men­te, i diri­gen­ti socia­li­sti ordi­na­ro­no la cal­ma. Sic­ché, lo scio­pe­ro comin­ciò a riflui­re per ces­sa­re del tut­to il 17 giugno.
Ma la pro­te­sta si este­se comun­que. Il 13 giu­gno a Geno­va, con 50.000 lavo­ra­to­ri in piaz­za, scon­tri con la for­za pub­bli­ca, assal­ti ai nego­zi. Il 16 a Pisa e a Bolo­gna. Il 30 a For­lì, dove la fol­la, con alla testa le don­ne, assal­tò e sac­cheg­giò nego­zi di frut­ta, pesce e scar­pe e la cit­tà rima­se total­men­te para­liz­za­ta dal­lo scio­pe­ro gene­ra­le del 1° e 2 luglio, men­tre ven­ne nomi­na­ta una Com­mis­sio­ne ope­ra­ia cit­ta­di­na che requi­sì le mer­ci ridu­cen­do­ne il prez­zo alla metà. Sem­pre il 2 luglio, scio­pe­ro gene­ra­le a Faen­za, Anco­na e Imo­la, men­tre a Tor­re Annun­zia­ta si regi­stra­va­no scon­tri con agen­ti e carabinieri.

Assal­to a un forno

Il 3 luglio sce­se in lot­ta tut­ta la popo­la­zio­ne di Firen­ze, dove gli ope­rai, spon­ta­nea­men­te, pro­cla­ma­ro­no lo scio­pe­ro gene­ra­le e in miglia­ia si river­sa­ro­no alla Came­ra del Lavo­ro[9]. La fol­la, intan­to, inva­se com­ple­ta­men­te la cit­tà requi­sen­do der­ra­te ali­men­ta­ri, stof­fe e scar­pe, che ven­ne­ro distri­bui­te ai lavo­ra­to­ri a prez­zi infe­rio­ri al costo. Ciò che non era ven­du­to veni­va tra­spor­ta­to pres­so la Came­ra del Lavo­ro. Il gior­no suc­ces­si­vo, la cit­tà era com­ple­ta­men­te nel­le mani del pro­le­ta­ria­to. La Came­ra del Lavo­ro era diven­ta­ta, di fat­to, il gover­no di Firen­ze, ma i suoi diri­gen­ti rifor­mi­sti non pen­sa­va­no affat­to di occu­pa­re i nodi nevral­gi­ci del­la cit­tà e anzi ema­na­ro­no l’ordine di ces­sa­zio­ne del­lo scio­pe­ro gene­ra­le. Cio­no­no­stan­te, l’agitazione spon­ta­nea pro­se­guì com­pat­ta fino a tut­to il gior­no 6 luglio, però l’assenza di dire­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria con­sen­tì al pote­re bor­ghe­se di ripren­de­re fia­to: la for­za pub­bli­ca, fino ad allo­ra rima­sta con­se­gna­ta nel­le caser­me, ini­ziò a ripren­de­re il con­trol­lo del­la situa­zio­ne pro­ce­den­do a un miglia­io di arre­sti, ma spa­ran­do anche sul­la fol­la con un bilan­cio di due mor­ti e otto feri­ti e aven­do alla fine ragio­ne del­la lot­ta di strada.
Intan­to, lo scio­pe­ro gene­ra­le infiam­ma­va Pra­to e Pisto­ia, men­tre in tan­te cit­tà dell’Emilia, del­la Roma­gna, del­le Mar­che e del­la Tosca­na, ven­ne­ro isti­tui­ti “Soviet anno­na­ri”. A Paler­mo, 25.000 ope­rai sce­se­ro in scio­pe­ro gene­ra­le e requi­si­ro­no le mer­ci ridu­cen­do­ne il prez­zo del 50%. Così pure a Bre­scia, dove i lavo­ra­to­ri mise­ro in fuga la for­za pub­bli­ca che spa­ra­va sul­la fol­la. A Livor­no, il Con­si­glio gene­ra­le del­le Leghe pro­cla­mò lo scio­pe­ro gene­ra­le e ordi­nò la dimi­nu­zio­ne dei prez­zi del 50% sui gene­ri ali­men­ta­ri e del 70% sui tes­su­ti. Gli eser­ci­zi che non vi si ade­gua­va­no veni­va­no imme­dia­ta­men­te requi­si­ti dal pro­le­ta­ria­to. A Piom­bi­no ven­ne orga­niz­za­ta una “Guar­dia ros­sa” che requi­sì e distri­buì le der­ra­te alimentari.
Geno­va, in lot­ta dal­la metà di giu­gno, era attra­ver­sa­ta da mani­fe­sta­zio­ni e scon­tri di stra­da che cul­mi­na­ro­no nel­la gior­na­ta del 7 luglio, quan­do miglia­ia di ope­rai sac­cheg­gia­ro­no nego­zi e magaz­zi­ni affron­tan­do la poli­zia che spa­rò ucci­den­do un lavo­ra­to­re, feren­do­ne e arre­stan­do­ne nume­ro­si altri. Lo stes­so 7 luglio, a Savo­na miglia­ia di ope­rai impo­se­ro la ridu­zio­ne dei prez­zi del 50% e poi, costi­tui­ti in “Guar­dia ros­sa”, con­trol­la­ro­no che la res­sa ai nego­zi non si tra­sfor­mas­se in saccheggi.
La pro­vin­cia di Bari e tut­ta l’Umbria era­no para­liz­za­te dal­lo scio­pe­ro gene­ra­le. A Mes­si­na la popo­la­zio­ne svuo­tò i nego­zi e con­se­gnò le mer­ci alla Came­ra del Lavo­ro. Scio­pe­ro gene­ra­le a Taran­to, Spo­le­to, Civi­ta­vec­chia e cen­ti­na­ia di altre cit­tà, gran­di e pic­co­le, da nord a sud. Bar­let­ta ven­ne occu­pa­ta dai pro­le­ta­ri e gover­na­ta per quat­tro gior­ni dai “Con­si­gli del Lavo­ro”. Solo il 10 luglio, cin­ta d’assedio, la cit­ta­di­na si arre­se alle truppe.
Come si vede, l’Italia inte­ra fu come attra­ver­sa­ta da una stri­scia di fuo­co, ma a par­ti­re dal 10 luglio la lot­ta comin­ciò a riflui­re dap­per­tut­to. Le isti­tu­zio­ni bor­ghe­si tira­ro­no un sospi­ro di sol­lie­vo e sca­te­na­ro­no una bru­ta­le repres­sio­ne poli­zie­sca: arre­sti di mas­sa ed ecci­di si veri­fi­ca­ro­no in nume­ro­se città.

Il ruo­lo dei socia­li­sti nei moti popolari
Il gover­no fu sor­pre­so dal­la con­tem­po­ra­nei­tà e dal­la gene­ra­li­tà dei moti e scel­se una tat­ti­ca difen­si­va, non poten­do, per fron­teg­gia­re le pro­te­ste di piaz­za, uti­liz­za­re i cara­bi­nie­ri, il cui nume­ro era ridot­to per le per­di­te subi­te in guer­ra; e, d’altra par­te, non vole­va ser­vir­si dell’esercito rego­la­re per il con­cre­to timo­re di fra­ter­niz­za­zio­ne fra la trup­pa e i manifestanti.
Per ingab­bia­re e poi doma­re i moti insur­re­zio­na­li si ser­vì inve­ce del­la doci­le col­la­bo­ra­zio­ne dei diri­gen­ti socia­li­sti del­le Came­re del Lavo­ro e del Par­ti­to socia­li­sta: ben­ché le mas­se popo­la­ri vedes­se­ro nei loro orga­ni­smi di rap­pre­sen­tan­za gli uni­ci orga­ni del loro pote­re, que­gli orga­ni­smi pre­se­ro le distan­ze dai moti e dal­le riven­di­ca­zio­ni di pia­ni­fi­ca­zio­ne e con­trol­lo ope­ra­io sul­la distri­bu­zio­ne avan­za­te dai lavo­ra­to­ri (il gior­na­le socia­li­sta L’Avanti defi­ni­va “tep­pi­sti” i mani­fe­stan­ti[10]); anzi, rifiu­ta­ro­no espres­sa­men­te di diri­ge­re un pro­ces­so in cui gli insor­ti sca­val­ca­va­no i pote­ri pub­bli­ci impo­nen­do decre­ti in nome del popo­lo e orga­niz­zan­do anche embrio­ni di orga­ni­smi di dife­sa popo­la­re (le Guar­die ros­se). Addi­rit­tu­ra, anni dopo gli even­ti, per boc­ca di Ludo­vi­co D’Aragona, segre­ta­rio del­la Cgl, i diri­gen­ti del Psi si attri­bui­ro­no «l’onore di aver impe­di­to un’esplosione rivo­lu­zio­na­ria»[11].
Ma se que­sto fu il ruo­lo nefa­sto dei diri­gen­ti socia­li­sti rifor­mi­sti, non meno nega­ti­vo fu quel­lo del­la sini­stra socia­li­sta. Il grup­po dell’Ordi­ne Nuo­vo di Gram­sci dedi­cò uno spa­zio pres­so­ché irri­le­van­te ai moti, sicu­ra­men­te spro­por­zio­na­to rispet­to alla loro valen­za rivo­lu­zio­na­ria. Pur facen­do­ne risa­li­re le ragio­ni alla guer­ra impe­ria­li­sta da poco fini­ta, gli ordi­no­vi­sti non esi­ta­ro­no a defi­nir­li un «epi­so­dio tumul­tuo­so, grot­te­sco, bar­ba­ri­co del­la lot­ta di clas­se»[12]. In que­sto sen­so, non si dif­fe­ren­zia­ro­no real­men­te dal­la dire­zio­ne riformista.
Lo stes­so scio­pe­ro gene­ra­le inter­na­zio­na­le pro­cla­ma­to per il 20 e 21 luglio dai sin­da­ca­ti euro­pei in soli­da­rie­tà alle repub­bli­che sovie­ti­che di Rus­sia e Unghe­ria era sta­to inter­pre­ta­to dal pro­le­ta­ria­to ita­lia­no come il momen­to deci­si­vo per la rivo­lu­zio­ne: i lavo­ra­to­ri dav­ve­ro cre­de­va­no che il Psi stes­se pre­pa­ran­do l’insurrezione gene­ra­le. Ma i diri­gen­ti, pre­oc­cu­pa­ti da que­sta pie­ga, si affret­ta­ro­no con arti­co­li e assem­blee a fare ope­ra di pom­pie­rag­gio spie­gan­do che lo scio­pe­ro avreb­be avu­to carat­te­re esclu­si­va­men­te dimo­stra­ti­vo. E anche in que­sto caso non si distin­se la fra­zio­ne comu­ni­sta: Gram­sci, su L’Ordine Nuo­vo, rac­co­man­da­va che lo scio­pe­ro ter­mi­nas­se esat­ta­men­te «alla mez­za­not­te del 21», soste­nen­do inol­tre: «un movi­men­to insur­re­zio­na­le oggi signi­fi­che­reb­be solo […] una repres­sio­ne fero­ce». Lo scio­pe­ro para­liz­zò per due gior­ni l’Italia, ma non ebbe alcu­no sboc­co, gene­ran­do nel­la clas­se lavo­ra­tri­ce un dif­fu­so sen­so di delu­sio­ne e scoramento.

Le lot­te con­ta­di­ne: la “rivo­lu­zio­ne man­ca­ta” nel­le campagne
Potrem­mo defi­ni­re gli avve­ni­men­ti del giu­gno-luglio 1919 come una “rivo­lu­zio­ne sen­za capi”, o meglio con a capo del movi­men­to diri­gen­ti socia­li­sti bor­ghe­si[13], che avran­no poi un ruo­lo nega­ti­vo anche nel­le lot­te con­ta­di­ne del bien­nio ’19-’20.
Solo di pas­sa­ta – e per dare una vista d’insieme del qua­dro com­ples­si­vo del­la lot­ta di clas­se in Ita­lia in quel perio­do – va det­to che, nono­stan­te l’impetuoso svi­lup­po dell’apparato indu­stria­le, il Pae­se ave­va anco­ra in mag­gio­ran­za un carat­te­re sostan­zial­men­te agri­co­lo, con alme­no il 55% del­la popo­la­zio­ne dedi­ta all’agricoltura.
Vaste mas­se con­ta­di­ne meri­dio­na­li, tor­na­te dal­la guer­ra con la pro­mes­sa – rive­la­ta­si vana, come abbia­mo già visto – dell’assegnazione di un pez­zo di ter­ra, nutri­va­no la spe­ran­za di un rea­le cam­bia­men­to del­le pro­prie con­di­zio­ni di vita. Ciò non accad­de, sic­ché fu qua­si auto­ma­ti­ca, nel cli­ma rivo­lu­zio­na­rio che si respi­ra­va nel Pae­se, la loro for­te radicalizzazione.
Nei mesi di luglio e ago­sto del 1919 il feno­me­no dell’occupazione del­le ter­re dila­gò dall’Agro roma­no fino alla Sici­lia, men­tre sor­ge­va­no in tan­te par­ti Leghe dei lavo­ra­to­ri. Intan­to, le lot­te con­ta­di­ne scop­pia­va­no in tut­to il nord del Pae­se, fra i brac­cian­ti del­la pia­nu­ra pada­na (Emi­lia, bas­so Pie­mon­te, bas­sa Lom­bar­dia, cre­mo­ne­se), i mez­za­dri (Emi­lia, Tosca­na, tre­vi­gia­no, umbro-mar­chi­gia­no), gli affit­tua­ri (ber­ga­ma­sco e alto Vene­to), cia­scu­no con le pro­prie spe­ci­fi­che rivendicazioni.
Il gover­no dap­pri­ma cer­cò di fre­na­re il movi­men­to ingab­bian­do­lo nei lavo­ri di un’apposita com­mis­sio­ne inca­ri­ca­ta di esa­mi­na­re la pos­si­bi­li­tà di asse­gna­re ter­re­ni a coo­pe­ra­ti­ve; poi, di fron­te all’impazienza dei lavo­ra­to­ri, appro­vò una leg­ge che pre­ve­de­va san­zio­ni pena­li con­tro le inva­sio­ni di terre.
Nono­stan­te la duris­si­ma repres­sio­ne sca­te­na­ta dal­la for­za pub­bli­ca, una vasta onda­ta di occu­pa­zio­ni si veri­fi­cò nell’agro lazia­le, in Puglia, in Sici­lia, men­tre sce­se­ro in scio­pe­ro i mez­za­dri e i colo­ni del cen­tro e nord Ita­lia, con occu­pa­zio­ni di casci­ne, muni­ci­pi, tele­gra­fi e fer­ro­vie, distru­zio­ni di rac­col­ti e vio­len­ze con­tro i pro­prie­ta­ri terrieri.
La lot­ta con­ta­di­na, però, non solo non si sal­dò mai orga­ni­ca­men­te con il movi­men­to ope­ra­io, ma non fece il sal­to che era neces­sa­rio a cau­sa dell’esplicita con­tra­rie­tà dei diri­gen­ti socia­li­sti alla riven­di­ca­zio­ne popo­la­re (che rive­sti­va un carat­te­re ogget­ti­va­men­te ever­si­vo) del­la ter­ra ai con­ta­di­ni. La paro­la d’ordine “la ter­ra a chi la lavo­ra!”, cioè, sot­tin­ten­de­va l’espropriazione dei pro­prie­ta­ri ter­rie­ri e il capo­vol­gi­men­to dei rap­por­ti di pro­prie­tà e avreb­be potu­to incar­na­re quel­la piat­ta­for­ma uni­fi­can­te fra le diver­se agi­ta­zio­ni che scuo­te­va­no il mon­do con­ta­di­no. Eppu­re, soprat­tut­to le lot­te con­ta­di­ne in Emi­lia furo­no quel­le che con­dus­se­ro i lavo­ra­to­ri sul­la soglia del­la rivo­lu­zio­ne: nel­le cam­pa­gne del bolo­gne­se, le Leghe era­no diven­ta­te di fat­to le uni­che auto­ri­tà rico­no­sciu­te, con la pre­fet­tu­ra ormai esau­to­ra­ta e i con­ta­di­ni che atten­de­va­no solo la pre­sa di pos­ses­so di tut­ta la ter­ra. Ma, quan­do nel luglio del 1920 il gover­no ema­nò il decre­to di requi­si­zio­ne dei rac­col­ti che depe­ri­va­no sui cam­pi per lo scio­pe­ro dei lavo­ra­to­ri, i socia­li­sti, local­men­te padro­ni del­la situa­zio­ne, inve­ce di lan­cia­re l’attacco fina­le, appog­gia­ro­no il decre­to «nell’interesse del­la pro­du­zio­ne».
E non sarà casua­le, allo­ra, che pro­prio in quel­le zone, dove la vit­to­ria rivo­lu­zio­na­ria sem­brò la più pros­si­ma e dove il padro­na­to fu mag­gior­men­te ter­ro­riz­za­to dal­la pau­ra di per­de­re tut­to, la rea­zio­ne degli agra­ri sarà in segui­to par­ti­co­lar­men­te vio­len­ta gra­zie allo squa­dri­smo fasci­sta e fini­rà per coin­vol­ge­re anche que­gli stra­ti con­ta­di­ni inter­me­di che, non aven­do potu­to otte­ne­re la ter­ra per via rivo­lu­zio­na­ria, cer­che­ran­no poi di risol­ve­re il pro­ble­ma indi­vi­dual­men­te sot­to l’ombrello del­la vio­len­za agraria.

La rivol­ta dei ber­sa­glie­ri di Ancona
Un altro epi­so­dio su cui è oppor­tu­no sof­fer­mar­si bre­ve­men­te è quel­lo pas­sa­to alla sto­ria come “la rivol­ta dei bersaglieri”.
L’Italia man­te­ne­va nell’isola di Valo­na, in Alba­nia, un cor­po di spe­di­zio­ne mili­ta­re d’occupazione che dove­va fron­teg­gia­re, oltre a un’epidemia di mala­ria, le sem­pre più fre­quen­ti incur­sio­ni arma­te dei ribel­li loca­li. Nel­la not­te tra il 25 e il 26 giu­gno 1920, i ber­sa­glie­ri del­la Caser­ma Vil­la­rey di Anco­na, temen­do di esse­re invia­ti in Alba­nia, disar­ma­ro­no i pro­pri supe­rio­ri e assun­se­ro il con­trol­lo del­la caser­ma. I mili­ta­ri ribel­li, agen­do di con­cer­to con grup­pi anar­chi­ci, repub­bli­ca­ni e socia­li­sti del­la cit­tà, con­tri­bui­ro­no all’estensione del­la rivol­ta pri­ma in tut­ta Anco­na e nel­le cit­ta­di­ne limi­tro­fe, poi in tut­te le Mar­che, in Roma­gna e in Umbria. A Mila­no e Roma ven­ne­ro pro­cla­ma­ti scio­pe­ri di soli­da­rie­tà con gli insor­ti, men­tre il sin­da­ca­to dei fer­ro­vie­ri sce­se in scio­pe­ro per impe­di­re che ad Anco­na arri­vas­se­ro le guar­die regie[14]. Nel­la cit­tà mar­chi­gia­na, con l’appoggio di buo­na par­te del­la popo­la­zio­ne civi­le e dei lavo­ra­to­ri (spe­cial­men­te i por­tua­li), i ribel­li innal­za­ro­no bar­ri­ca­te per oppor­si agli assal­ti del­le for­ze dell’ordine. Si regi­stra­ro­no ovun­que scon­tri a fuo­co tra rivol­to­si e cara­bi­nie­ri, con per­di­te da ambo le par­ti. I ber­sa­glie­ri e i loro sim­pa­tiz­zan­ti fece­ro anche uso di mitragliatrici.

Men­tre i sol­da­ti del 17° reg­gi­men­to di fan­te­ria di Asco­li fra­ter­niz­za­va­no con i ribel­li, il gover­no riu­scì comun­que a far giun­ge­re rin­for­zi di guar­die regie in cit­tà, ordi­nan­do che Anco­na fos­se bom­bar­da­ta dal mare da cin­que cac­cia­tor­pe­di­nie­re invia­te appo­si­ta­men­te per por­re fine alla sommossa.
La mat­ti­na del 28 giu­gno, infi­ne, la resi­sten­za degli ammu­ti­na­ti fu vin­ta dal­le trup­pe gover­na­ti­ve. Mol­ti furo­no i mor­ti, il cui nume­ro è rima­sto impre­ci­sa­to, e oltre 500 gli arrestati.
Anche in quest’occasione, la pre­pa­ra­zio­ne e l’attuazione dell’insurrezione e dell’ammutinamento furo­no ope­ra spon­ta­nea di grup­pi di ope­rai e gio­va­ni, anar­chi­ci e mili­tan­ti di base socia­li­sti, sen­za che il par­ti­to aves­se fat­to nul­la per inter­ve­ni­re, se non – ver­so la fine del­la rivol­ta – attra­ver­so il soli­to ten­ta­ti­vo di media­zio­ne di due depu­ta­ti, respin­ti però sot­to la minac­cia del fuci­le dagli insor­ti che non nutri­va­no più la mini­ma fidu­cia nei diri­gen­ti socialisti.
La lezio­ne del Par­ti­to bol­sce­vi­co, dell’attuazione del neces­sa­rio lavo­ro poli­ti­co fra le trup­pe, fina­liz­za­to alla rot­tu­ra del­la base dei mili­ta­ri con la loro cate­na di coman­do, non era sta­ta nean­che mini­ma­men­te imparata.

Le lot­te ope­ra­ie: lo “scio­pe­ro del­le lancette”
E dun­que, a metà del 1920 la ten­sio­ne rivo­lu­zio­na­ria in Ita­lia era all’apice: come abbia­mo visto da que­sti che sono sta­ti i prin­ci­pa­li epi­so­di di lot­ta di clas­se – ma deci­ne e deci­ne di altri avve­ni­men­ti potreb­be­ro esse­re rac­con­ta­ti per dare il sen­so del cli­ma che giun­se a viver­si in quel perio­do – le mas­se era­no radi­ca­liz­za­te e dispo­ni­bi­li alla bat­ta­glia decisiva.
Intan­to, i pri­mi mesi del 1920 era­no tra­scor­si in un cre­scen­do di agi­ta­zio­ni mol­to radi­ca­li. Al di là dell’impressionante nume­ro di ver­ten­ze (la sola Fiat ave­va avu­to in sei mesi tre ver­ten­ze inter­ne al gior­no, sen­za con­ta­re gli scio­pe­ri nazio­na­li e quel­li a carat­te­re poli­ti­co), la novi­tà sta­va in un diver­so pro­ta­go­ni­smo del­la clas­se ope­ra­ia attra­ver­so i Con­si­gli di fab­bri­ca che via via pren­de­va­no il posto del­le vec­chie Com­mis­sio­ni inter­ne, carat­te­riz­za­te mag­gior­men­te come stru­men­to di col­la­bo­ra­zio­ne fra dato­ri e pre­sta­to­ri di lavo­ro. I nuo­vi orga­ni­smi, inve­ce, espri­me­va­no più spic­ca­ta­men­te gli inte­res­si dei lavo­ra­to­ri, e anda­va­no via via tra­sfor­man­do­si in embrio­ni di con­trol­lo operaio.
Gli indu­stria­li com­pre­se­ro pre­sto che ciò che era in gio­co era il pote­re nel­la fab­bri­ca. E lo espres­se mol­to chia­ra­men­te l’industriale Oli­vet­ti quan­do, nell’assemblea gene­ra­le del­la Con­fin­du­stria a Mila­no, pro­cla­mò: «In offi­ci­na non pos­so­no sus­si­ste­re due pote­ri!»[15]. I gior­na­li bor­ghe­si pre­ci­sa­ro­no ulte­rior­men­te que­sto con­cet­to, se mai ce ne fos­se sta­to biso­gno: il quo­ti­dia­no La Stam­pa scris­se che gli indu­stria­li «sapen­do di difen­de­re non tan­to la loro cau­sa, quan­to quel­la dell’assetto socia­le odier­no, sono deci­si a pro­se­gui­re nel loro atteg­gia­men­to fino alle estre­me con­se­guen­ze». Gli indu­stria­li pas­sa­ro­no dun­que dal­la posi­zio­ne più con­ci­lia­ti­va tenu­ta l’anno pre­ce­den­te a una mol­to più intran­si­gen­te, espri­men­do­si aper­ta­men­te con­tro i Con­si­gli di fab­bri­ca e aspet­tan­do l’occasione per rego­la­re i conti.
Quest’occasione si pre­sen­tò loro quan­do il gover­no fis­sò, a par­ti­re dal 21 mar­zo, l’inizio dell’ora legale.
Gli ope­rai tro­va­va­no insop­por­ta­bi­le esse­re costret­ti a usci­re di casa al buio[16], sic­ché il gior­no seguen­te – sia­mo al 22 mar­zo – la Com­mis­sio­ne inter­na del­la Fiat deci­se di spo­sta­re le lan­cet­te dell’orologio nuo­va­men­te sull’ora sola­re. Ciò che era in gio­co non era una que­stio­ne d’orario, ma di pote­re nel­la fab­bri­ca, e la dire­zio­ne del­la Fiat, che lo ave­va com­pre­so bene, non si lasciò sfug­gi­re l’occasione e licen­ziò i tre com­po­nen­ti dell’organismo. Imme­dia­ta­men­te, i lavo­ra­to­ri sce­se­ro in scio­pe­ro riven­di­can­do­ne la rias­sun­zio­ne. Fu quel­lo che ven­ne cono­sciu­to come lo “scio­pe­ro del­le lan­cet­te”[17].

Fiat Tori­no: lo Sta­bi­li­men­to Pres­se, dove ini­ziò lo “scio­pe­ro del­le lancette”

Dopo un’intera gior­na­ta di ste­ri­li trat­ta­ti­ve, gli ope­rai, stan­chi del tira e mol­la, occu­pa­ro­no la fab­bri­ca. L’occupazione si este­se anche a un altro sta­bi­li­men­to del­la Fiat. Il 25 mar­zo, l’azienda riu­scì a far entra­re da un ingres­so secon­da­rio le for­ze dell’ordine che sgom­be­ra­ro­no la fab­bri­ca. Il 27 mar­zo, per evi­ta­re che la pro­prie­tà attuas­se la ser­ra­ta, gli ope­rai deci­se­ro di rien­tra­re al lavo­ro attuan­do però una nuo­va for­ma di lot­ta, lo scio­pe­ro bian­co, con­si­sten­te nel ral­len­ta­re for­te­men­te le ope­ra­zio­ni median­te l’ostruzionismo, in modo da abbas­sa­re di mol­to il tas­so di pro­dut­ti­vi­tà. L’azienda ne ven­ne real­men­te dan­neg­gia­ta, e così altre 44 offi­ci­ne mec­ca­ni­che in cui ven­ne attua­to lo stes­so scio­pe­ro bian­co in segno di solidarietà.
Ripre­se­ro le trat­ta­ti­ve, ma con una novi­tà: esse furo­no avo­ca­te dal segre­ta­rio nazio­na­le del­la Fiom, Bru­no Buoz­zi, che vol­le così esau­to­ra­re di fat­to il sin­da­ca­to loca­le aven­do ben com­pre­so che il nodo di fon­do era­no i pote­ri dei Con­si­gli nel­le fab­bri­che e, in sen­so più gene­ra­le, i rap­por­ti fra gli ordi­no­vi­sti tori­ne­si di Gram­sci e gli orga­ni­smi cen­tra­li del Par­ti­to socia­li­sta. Dopo gior­ni di trat­ta­ti­va, il nego­zia­to giun­se a un pun­to mor­to. Sot­to la spin­ta del­la base ope­ra­ia, il sin­da­ca­to fu costret­to con­tro­vo­glia a pro­cla­ma­re il 14 apri­le lo scio­pe­ro gene­ra­le. Si trat­tò del più lun­go e com­pat­to scio­pe­ro mai veri­fi­ca­to­si fino ad allo­ra nel­la sto­ria del movi­men­to ope­ra­io italiano.
La dire­zio­ne poli­ti­ca del movi­men­to ven­ne affi­da­ta a un Comi­ta­to di agi­ta­zio­ne di fat­to ege­mo­niz­za­to dagli ordi­no­vi­sti. Frat­tan­to, Buoz­zi e altri sin­da­ca­li­sti non ave­va­no inter­rot­to per un solo momen­to i con­tat­ti con la con­tro­par­te padronale.
Gli ordi­no­vi­sti, che pure dimo­stra­va­no una gran­de improv­vi­sa­zio­ne nel con­dur­re que­sta bat­ta­glia[18], ave­va­no com­pre­so che lo scio­pe­ro – che intan­to il gior­no 19 apri­le si era este­so a tut­to il Pie­mon­te coin­vol­gen­do 500.000 lavo­ra­to­ri – non sareb­be potu­to con­ti­nua­re all’infinito e si pose­ro il pro­ble­ma di uni­fi­ca­re la lot­ta ope­ra­ia con le agi­ta­zio­ni con­ta­di­ne che negli stes­si gior­ni si svi­lup­pa­va­no nel­la regio­ne. Ma il ten­ta­ti­vo fal­lì per l’opposizione dei diri­gen­ti del sin­da­ca­to. A que­sto pun­to, Gram­sci e i suoi nutri­ro­no l’ingenua illu­sio­ne che il Psi potes­se ema­na­re l’ordine dell’estensione a livel­lo nazio­na­le del­lo scio­pe­ro. Figu­ria­mo­ci se i diri­gen­ti rifor­mi­sti del par­ti­to vole­va­no una cosa del gene­re! Il Con­si­glio nazio­na­le del Par­ti­to socia­li­sta, non solo si oppo­se alla pub­bli­ca­zio­ne su L’Avanti! dell’appello del­la sezio­ne tori­ne­se che chie­de­va la soli­da­rie­tà del pro­le­ta­ria­to ita­lia­no, quan­to deci­se inve­ce di invia­re a Tori­no il segre­ta­rio gene­ra­le del­la Cgl, D’Aragona, per­ché inter­ve­nis­se in pri­ma persona.
Rima­sta iso­la­ta la lot­ta, il brac­cio di fer­ro fra D’Aragona e il Comi­ta­to di agi­ta­zio­ne si con­clu­se con l’affermazione del pri­mo che chiu­se con gli indu­stria­li un accor­do che scon­fes­sa­va total­men­te il ruo­lo del­le Com­mis­sio­ni inter­ne e dei Con­si­gli di fab­bri­ca[19]. Il 24 apri­le lo scio­pe­ro fu revo­ca­to: il padro­na­to ave­va vin­to con l’aiuto dei diri­gen­ti del movi­men­to operaio.
Anto­nio Gram­sci scri­ve­rà poi che la clas­se ope­ra­ia tori­ne­se non era usci­ta dal­la lot­ta con la volon­tà spez­za­ta, con la coscien­za disfat­ta[20].
Se ne accor­se subi­to la bor­ghe­sia che ave­va can­ta­to il de pro­fun­dis del movi­men­to ope­ra­io pre­co­niz­zan­do trop­po pre­sto la fine degli scio­pe­ri poli­ti­ci. Infat­ti, il 1° mag­gio 1920, dopo soli sei gior­ni dal­la con­clu­sio­ne del­lo scio­pe­ro gene­ra­le, il pro­le­ta­ria­to tori­ne­se die­de luo­go a un’imponente mani­fe­sta­zio­ne. Il cor­teo ven­ne affron­ta­to dal­la for­za pub­bli­ca che spa­rò ad altez­za d’uomo ucci­den­do due lavo­ra­to­ri. Ma gli ope­rai rea­gi­ro­no assal­tan­do le camio­net­te dei cara­bi­nie­ri e, armi in pugno, si scon­tra­ro­no con le for­ze di poli­zia ucci­den­do un agen­te e feren­do­ne mol­ti altri.
Il quo­ti­dia­no La Stam­pa scris­se che la rivo­lu­zio­ne era nei pro­gram­mi solo di un’esigua mino­ran­za invi­tan­do il sin­da­ca­to a sba­raz­zar­si del­la reto­ri­ca e a fre­na­re le pul­sio­ni “anar­chi­che”. Ma la Cgl non ave­va cer­to aspet­ta­to quest’invito: ave­va già mes­so in atto una deci­sa poli­ti­ca di inter­ven­to nei con­fron­ti di quel­la “anar­chia ope­ra­ia” che tan­to ave­va spa­ven­ta­to la borghesia.

Set­tem­bre 1920: l’occupazione del­le fab­bri­che e la “rivo­lu­zio­ne tradita”
La scon­fit­ta del­lo scio­pe­ro di apri­le raf­for­zò negli indu­stria­li la con­vin­zio­ne che solo una posi­zio­ne intran­si­gen­te avreb­be impe­di­to ai lavo­ra­to­ri di rial­za­re la testa: una dura repres­sio­ne nel­le fab­bri­che si abbat­té sugli ope­rai per poter­li len­ta­men­te ma ine­so­ra­bil­men­te schiac­cia­re. Tut­ta­via, la loro volon­tà di lot­ta era, come poi vedre­mo, tutt’altro che spezzata.
In que­sto qua­dro, la Fiom ave­va con­vo­ca­to per il 20 mag­gio 1920 un con­gres­so straor­di­na­rio in cui ven­ne redat­to un memo­ria­le con­te­nen­te riven­di­ca­zio­ni eco­no­mi­che per ade­gua­re i sala­ri dei metal­mec­ca­ni­ci all’aumentato costo del­la vita. La Fiom rite­ne­va che il mal­con­ten­to ope­ra­io nasces­se dall’aumento ver­ti­gi­no­so del costo del­la vita, per cui – una vol­ta rimos­sa que­sta cau­sa – sareb­be sta­to pos­si­bi­le tor­na­re alla nor­ma­li­tà pro­dut­ti­va; e d’altro can­to pen­sa­va che gli indu­stria­li non si sareb­be­ro oppo­sti a un accor­do nell’interesse dell’aumento del­la pro­dut­ti­vi­tà. Ma c’era anche un cal­co­lo sot­ti­le alla base del­la ver­ten­za che i diri­gen­ti sin­da­ca­li inten­de­va­no avan­za­re: l’idea che essa potes­se costi­tui­re uno sfo­go per l’insoddisfazione ope­ra­ia, ridan­do cre­di­bi­li­tà e auto­re­vo­lez­za all’organizzazione dopo il tra­di­men­to del­lo scio­pe­ro gene­ra­le di aprile.
Que­sto cal­co­lo, però, non tene­va con­to di due varia­bi­li: che l’insubordinazione ope­ra­ia ave­va radi­ci mol­to più pro­fon­de e anda­va al di là del­le pure e sem­pli­ci riven­di­ca­zio­ni sala­ria­li; e che gli indu­stria­li si era­no ormai atte­sta­ti su una posi­zio­ne di rigi­da intran­si­gen­za con la qua­le rite­ne­va­no di poter schiac­cia­re la resi­sten­za dei lavo­ra­to­ri e ripren­de­re il con­trol­lo tota­le nel­le fab­bri­che attra­ver­so una pro­va di forza.
E infat­ti, il padro­na­to rifiu­tò addi­rit­tu­ra di ini­zia­re il con­fron­to sul memo­ria­le e respin­se ogni ipo­te­si di trat­ta­ti­va. Alla Fiom non restò che pro­cla­ma­re l’ostruzionismo sul lavo­ro come arma di pres­sio­ne per pre­sen­ta­re come irra­gio­ne­vo­le dinan­zi all’opinione pub­bli­ca l’atteggiamento di chiu­su­ra degli industriali.
A par­ti­re dal 20 ago­sto, 400.000 metal­mec­ca­ni­ci in tut­ta Ita­lia entra­ro­no in lot­ta, dan­do vita a un’agitazione su tut­to il ter­ri­to­rio nazionale.
L’ostruzionismo fu par­ti­co­lar­men­te effi­ca­ce, tan­to da far cala­re dra­sti­ca­men­te la pro­du­zio­ne (alla Fiat Cen­tro, dove lavo­ra­va­no 15.000 ope­rai, sce­se del 60%). E allo­ra scat­tò la rea­zio­ne padronale.
Il 30 ago­sto, a Mila­no, ven­ne attua­ta la ser­ra­ta nel­lo sta­bi­li­men­to del­la Romeo. Su ordi­ne del­la Fiom, gli ope­rai che anco­ra si tro­va­va­no all’interno del­la fab­bri­ca la occu­pa­ro­no. Lo stes­so accad­de simul­ta­nea­men­te nei 300 sta­bi­li­men­ti di Mila­no. La richie­sta degli indu­stria­li al gover­no di inter­ven­to mili­ta­re per far sgom­bra­re le fab­bri­che ven­ne respin­ta: il pri­mo mini­stro Gio­lit­ti – come in segui­to avreb­be dichia­ra­to al Sena­to[21] – vole­va evi­ta­re un con­flit­to arma­to che teme­va sareb­be potu­to sfo­cia­re in una guer­ra civi­le; ma con­fi­da­va anche sul fat­to che alla testa di quel gran­dio­so movi­men­to vi era­no diri­gen­ti rifor­mi­sti che non vole­va­no che il pro­ces­so si esten­des­se dal­le fab­bri­che ai cen­tri nevral­gi­ci del pote­re, tele­gra­fi, tele­fo­ni, fer­ro­vie, caser­me, pre­fet­tu­re. Eppu­re, quel movi­men­to si allar­gò, nono­stan­te e con­tro gli inten­ti con­ci­lia­ti­vi del­la diri­gen­za rifor­mi­sta, dal trian­go­lo indu­stria­le del nord (Mila­no-Tori­no-Geno­va) all’Emilia, al Vene­to, alla Tosca­na, all’Umbria, fino alle cit­tà di Anco­na, Roma, Napo­li e Paler­mo. Nel­la sola Tori­no qua­si 150.000 furo­no gli occu­pan­ti, 100.000 a Geno­va[22], 600.000 in tut­ta Ita­lia quan­do anche offi­ci­ne non metal­lur­gi­che ven­ne­ro occu­pa­te. Spon­ta­nea­men­te, nel sud del Pae­se ripre­se­ro mas­sic­cia­men­te le occu­pa­zio­ni del­le terre.

Ope­rai del­la fon­de­ria Pigno­ne di Firen­ze in occupazione

Una del­le novi­tà di que­sta lot­ta sta­va nel­la gestio­ne ope­ra­ia: fra lo stu­po­re degli indu­stria­li – che mai avreb­be­ro imma­gi­na­to che gli ope­rai fos­se­ro capa­ci di affron­ta­re le dif­fi­col­tà tec­ni­che del­la pro­du­zio­ne – gli occu­pan­ti mise­ro in pie­di un gigan­te­sco espe­ri­men­to di gestio­ne ope­ra­ia del­la fab­bri­ca in un set­to­re di pri­mo pia­no dell’economia capi­ta­li­sti­ca e facen­do fron­te al sabo­tag­gio atti­vo degli indu­stria­li, del­le ban­che e del­lo Sta­to. A Tori­no ven­ne crea­to un comi­ta­to per cen­tra­liz­za­re la pro­du­zio­ne, gli scam­bi e le for­ni­tu­re dei pro­dot­ti fini­ti. Ven­ne­ro assun­ti nuo­vi impie­ga­ti ammi­ni­stra­ti­vi di fron­te al rifiu­to a col­la­bo­ra­re da par­te di quel­li in ser­vi­zio. L’altro fat­to nuo­vo del movi­men­to di occu­pa­zio­ne era dato dal­la dife­sa degli sta­bi­li­men­ti[23]. In alcu­ne del­le offi­ci­ne si fab­bri­ca­ro­no bom­be a mano, elmet­ti e par­ti stac­ca­te di armi. In altre, gli ope­rai si prov­vi­de­ro di mitra­glia­tri­ci. Altro­ve si ten­tò di costrui­re un auto­blin­do. Sui tet­ti del­le fab­bri­che ven­ne­ro instal­la­ti riflet­to­ri, mol­ti acces­si alle offi­ci­ne furo­no mina­ti e con­trol­la­ti da siste­mi di segna­la­zio­ne e allar­me. Lo sta­bi­li­men­to del­la Fiat Lin­got­to era dife­so da una recin­zio­ne con cor­ren­te elet­tri­ca; quel­lo di Bar­rie­ra di Niz­za da un impian­to ad aria com­pres­sa in gra­do di spa­ra­re aci­do con­te­nu­to in un’enorme vasca. La dife­sa del­le fab­bri­che era in gene­ra­le affi­da­ta alle Guar­die rosse.

L’estensione dell’occupazione avreb­be richie­sto a quel pun­to un sal­to di qua­li­tà, che legas­se cioè l’azione del pro­le­ta­ria­to indu­stria­le a quel­lo agri­co­lo e a vasti set­to­ri di ceto medio per usci­re dal­le fab­bri­che e pun­ta­re alla con­qui­sta dei cen­tri nevral­gi­ci del pote­re. Insom­ma, l’insurrezione arma­ta. Ma per que­sto sareb­be occor­sa un’autorevole dire­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria che aves­se uni­fi­ca­to e cen­tra­liz­za­to le lot­te con l’obiettivo del­la pre­sa del pote­re: un com­pi­to che la Cgl, la Fiom e il Psi non vole­va­no assu­me­re e per il qua­le anar­chi­ci, bor­di­ghi­sti e ordi­no­vi­sti era­no del tut­to inadeguati.
Le dire­zio­ni del sin­da­ca­to e del par­ti­to, inve­ce, vole­va­no che la ver­ten­za uscis­se dal­la dimen­sio­ne poli­ti­ca (che, al di là del­le loro inten­zio­ni, ave­va assun­to) per ricon­dur­la nei suoi limi­ti riven­di­ca­ti­vi economici.
Per que­sto il 9, 10 e 11 set­tem­bre, si svol­se­ro del­le dram­ma­ti­che e tese riu­nio­ni per indi­vi­dua­re una solu­zio­ne alla vicen­da. In altri ter­mi­ni, si sareb­be dovu­to deci­de­re se l’agitazione in cor­so fos­se dovu­ta resta­re nel sol­co di una lot­ta sin­da­ca­le; oppu­re, se essa aves­se dovu­to esten­der­si per assu­me­re la carat­te­ri­sti­ca di un movi­men­to insur­re­zio­na­le. Nel pri­mo caso, la sua dire­zio­ne sareb­be spet­ta­ta alla Fiom e alla Cgl; nel secon­do al Psi.
In real­tà, il fat­to stes­so che i desti­ni di una rivo­lu­zio­ne venis­se­ro affi­da­ti a una discus­sio­ne così sur­rea­le[24] dimo­stra, al di là di ogni dub­bio, la scar­sa con­vin­zio­ne con cui la pro­po­sta insur­re­zio­na­le era soste­nu­ta, non solo dal­la dire­zio­ne ma anche dal­le com­po­nen­ti del­la sini­stra. Di fat­to, tut­ti vole­va­no sol­tan­to usci­re da una situa­zio­ne che li ave­va posti spal­le al muro: non solo la dire­zio­ne del Psi vole­va distri­car­si dal pastic­cio in cui si era cac­cia­ta con l’inconcludente fra­seo­lo­gia rivo­lu­zio­na­ria con la qua­le ave­va nutri­to le mas­se ope­ra­ie rima­nen­do poi pri­gio­nie­ra dell’immagine pub­bli­ca che si era costrui­ta; ma gli stes­si ordi­no­vi­sti non desi­de­ra­va­no la pre­ci­pi­ta­zio­ne del­lo scon­tro[25], con­vin­ti che le con­di­zio­ni per la rivo­lu­zio­ne non fos­se­ro anco­ra matu­re e che l’insurrezione arma­ta doves­se esse­re posta all’ordine del gior­no solo dopo la scis­sio­ne dal Psi e la costi­tu­zio­ne del Par­ti­to comu­ni­sta, dan­do così una let­tu­ra buro­cra­ti­ca del pro­ces­so rivo­lu­zio­na­rio e stac­can­do­si da quel­lo rea­le in corso.
Fu così che, quan­do la dire­zio­ne rifor­mi­sta del sin­da­ca­to, dichia­ran­do­si in disac­cor­do con l’insurrezione, minac­ciò le pro­prie dimis­sio­ni in bloc­co e invi­tò la dire­zio­ne del par­ti­to ad assu­me­re la gui­da del movi­men­to, quest’ultima intra­vi­de lo spi­ra­glio per usci­re dal­la dif­fi­ci­le situa­zio­ne: respin­ge­re le dimis­sio­ni del­la dire­zio­ne del­la Cgl votan­do a mag­gio­ran­za un ordi­ne del gior­no che lascia­va la gestio­ne del­la ver­ten­za al sin­da­ca­to (can­cel­lan­do­ne dun­que l’aspetto poli­ti­co) e che di fat­to met­te­va la paro­la fine alla lot­ta in cam­bio del rico­no­sci­men­to da par­te padro­na­le del prin­ci­pio del con­trol­lo sin­da­ca­le del­le aziende.
Si trat­ta­va, natu­ral­men­te, di paro­le vuo­te. E lo capì benis­si­mo Gio­lit­ti, che fino a quel pun­to era rima­sto total­men­te estra­neo alla ver­ten­za per timo­re che una repres­sio­ne arma­ta da par­te dell’esercito potes­se sca­te­na­re la guer­ra civile.
Non appe­na vide che la pro­spet­ti­va insur­re­zio­na­le era sta­ta uffi­cial­men­te abban­do­na­ta dai socia­li­sti, Gio­lit­ti rien­trò in gio­co con­vo­can­do fra le par­ti una riu­nio­ne che si con­clu­se il 20 set­tem­bre con un accor­do che san­ci­va la fine dell’occupazione del­le fab­bri­che e pre­ve­de­va alcu­ni miglio­ra­men­ti eco­no­mi­ci e sala­ria­li per i lavo­ra­to­ri e la pro­mes­sa di inca­ri­ca­re una com­mis­sio­ne di stu­dio per ela­bo­ra­re un dise­gno di leg­ge sul con­trol­lo operaio.
Insom­ma, 600.000 ope­rai occu­pa­va­no le fab­bri­che, con­trol­la­va­no in armi alcu­ne gran­di cit­tà, di fat­to dete­nen­do par­zial­men­te il pote­re, e, tra­di­ti dai loro diri­gen­ti, rinun­cia­ro­no a pren­der­lo defi­ni­ti­va­men­te nel­le loro mani in cam­bio di un dise­gno di leg­ge che poi, natu­ral­men­te, rima­se nei cas­set­ti del­la com­mis­sio­ne nominata.

Il Con­si­glio di fab­bri­ca del­la Fiat occu­pa­ta sie­de nel­l’uf­fi­cio di Agnelli

In quel set­tem­bre del 1920, la bor­ghe­sia ita­lia­na vis­se quel­la che fu defi­ni­ta “la gran­de pau­ra”, la pau­ra di per­de­re tut­to. Fra tut­ti i Pae­si del con­ti­nen­te euro­peo, fu in Ita­lia, dun­que, che si veri­fi­cò il più vio­len­to e peri­co­lo­so attac­co al suo pote­re. Il bien­nio ros­so fece com­pren­de­re ai capi­ta­li­sti che le vec­chie clas­si diri­gen­ti libe­ra­li non era­no più in gra­do di difen­de­re i loro inte­res­si. Occor­re­va allo­ra scon­fig­ge­re defi­ni­ti­va­men­te la clas­se ope­ra­ia sul pia­no dei rap­por­ti socia­li pun­tan­do su un’alternativa poli­ti­ca e isti­tu­zio­na­le. Il pro­get­to per risol­le­va­re le for­tu­ne del­la bor­ghe­sia sareb­be di lì a poco pas­sa­to per la più nuo­va, oppres­si­va e inau­di­ta for­ma di domi­nio poli­ti­co che si fos­se fino ad allo­ra mai vista: il fascismo.

Con­clu­sio­ne: il ruo­lo con­tro­ri­vo­lu­zio­na­rio dei rifor­mi­sti e la man­can­za di una dire­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria con­se­guen­te del­le lotte
Dopo l’accordo del 20 set­tem­bre, le occu­pa­zio­ni dura­ro­no anco­ra per una deci­na di gior­ni, ma pro­prio in quel perio­do si veri­fi­cò il mag­gior nume­ro di scon­tri arma­ti fra gli ope­rai e le guar­die regie, con mor­ti da entram­be le par­ti. Si trat­tò in real­tà di una rab­bio­sa quan­to dispe­ra­ta rea­zio­ne da par­te del­le avan­guar­die degli occu­pan­ti alla noti­zia del­la sti­pu­la del con­cor­da­to: l’idea di dover abban­do­na­re le fab­bri­che che con tan­ti sacri­fi­ci ave­va­no tenu­to – e sen­za aver con­se­gui­to alcun rea­le avan­za­men­to poli­ti­co – appa­ri­va una bef­fa insopportabile.

Dife­sa arma­ta di una fab­bri­ca occupata

Già duran­te la fase del­le trat­ta­ti­ve fra sin­da­ca­ti, indu­stria­li e gover­no, la mag­gior par­te del­le fab­bri­che si era espres­sa per il rifiu­to dell’ipotesi di accor­do e per la con­ti­nua­zio­ne dell’occupazione, men­tre la par­te più arre­tra­ta degli ope­rai – di cui in quel­la cir­co­stan­za furo­no pro­prio gli ordi­no­vi­sti a far­si inter­pre­ti – pur non essen­do sod­di­sfat­ta del con­cor­da­to, votò per la sua accet­ta­zio­ne subor­di­nan­do­la a due pre­giu­di­zia­li che i socia­li­sti dell’Ordine Nuo­vo ave­va­no ela­bo­ra­to: paga­men­to del­le gior­na­te di occu­pa­zio­ne e garan­zia che la deci­sio­ne fina­le sareb­be sta­ta deman­da­ta alle assem­blee di fab­bri­ca. Anzi, va segna­la­to che la rivi­sta di Gram­sci non dedi­cò alcun com­men­to al modo in cui l’occupazione si era con­clu­sa: gli uni­ci arti­co­li che vi fece­ro rife­ri­men­to ne par­la­va­no come di una bat­ta­glia vittoriosa.
Eppu­re, qual­che tem­po dopo, la vicen­da del set­tem­bre del ’20 fu uti­liz­za­ta dagli ordi­no­vi­sti in chia­ve pole­mi­ca con­tro la dire­zio­ne del Psi, accu­sa­ta di inet­ti­tu­di­ne e oppor­tu­ni­smo[26].
Pur essen­do incon­te­sta­bi­le la respon­sa­bi­li­tà dei diri­gen­ti socia­li­sti nel­la “rivo­lu­zio­ne man­ca­ta”, gli argo­men­ti por­ta­ti da Gram­sci e dai suoi sof­fro­no una visto­sa con­trad­di­zio­ne: se, come gli stes­si ordi­no­vi­sti soste­ne­va­no, la situa­zio­ne di set­tem­bre non era matu­ra per uno scop­pio insur­re­zio­na­le, allo­ra le deci­sio­ni del­la dire­zio­ne del Psi avreb­be­ro dovu­to esse­re rite­nu­te pru­den­ti e sag­ge, così come irre­spon­sa­bi­li e dema­go­gi­che inve­ce le opi­nio­ni di chi vi si oppo­se. Il fat­to è che nes­su­na del­le ten­den­ze che con­vi­ve­va­no nel Psi vol­le o sep­pe offri­re alla gene­ro­sa azio­ne del­le mas­se ope­ra­ie un’autentica pro­spet­ti­va rivo­lu­zio­na­ria, uno sboc­co che non fos­se quel­lo di una pura e sem­pli­ce capi­to­la­zio­ne[27].
Si trat­ta­va pur sem­pre di quel par­ti­to un cui diri­gen­te, Costan­ti­no Laz­za­ri, mas­si­ma­li­sta di sini­stra, a Lenin che gli rac­co­man­da­va di occu­pa­re le fab­bri­che dopo accu­ra­ta pre­pa­ra­zio­ne, rispo­se: «Sì, l’i­dea è giu­sta, ma poi … che ne fac­cia­mo degli indu­stria­li?». E quan­do Lenin, sen­za mez­zi ter­mi­ni, repli­cò: «Liqui­da­te­li!», lui mostran­do­si pre­oc­cu­pa­to del­la loro sor­te, si giu­sti­fi­cò in dia­let­to mila­ne­se: «Ma scior Lenin, num mila­nes semm bra­va gent!»[28].
E fu pro­prio Lenin, al III Con­gres­so dell’Internazionale comu­ni­sta, nel giu­gno del 1921, ad avan­za­re – quan­do il Pcd’I era già sta­to fon­da­to – lo sfer­zan­te inter­ro­ga­ti­vo «Duran­te l’occupazione del­le fab­bri­che si è for­se rive­la­to un solo comu­ni­sta?»[29]. Accu­sa, que­sta, impli­ci­ta­men­te rivol­ta anche alle ten­den­ze di sini­stra del Psi che non furo­no all’altezza di ciò che la situa­zio­ne del set­tem­bre avreb­be richie­sto: assu­mer­si di fron­te alle mas­se, che era­no dispo­ste a qual­sia­si sacri­fi­cio pur di cam­bia­re radi­cal­men­te la socie­tà ita­lia­na, l’onere e la respon­sa­bi­li­tà di far­si dire­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria del­la più straor­di­na­ria lot­ta di quel bien­nio, di incar­na­re la gui­da che avreb­be potu­to con­dur­re la bat­ta­glia per il potere.
Ecco per­ché, nel 1924, del tut­to inge­ne­ro­sa­men­te, Anto­nio Gram­sci dipin­ge­va quel­la che quat­tro anni pri­ma occu­pa­va e difen­de­va in armi le fab­bri­che «una clas­se ope­ra­ia che […] vede­va tut­to roseo e ama­va le can­zo­ni e le fan­fa­re più dei sacri­fi­ci»[30]. Ed ecco per­ché, qual­che decen­nio più tar­di, Pal­mi­ro Togliat­ti smi­nui­va la cari­ca rivo­lu­zio­na­ria di quei lavo­ra­to­ri che nel set­tem­bre del ’20 ter­ro­riz­za­ro­no la bor­ghe­sia, soste­nen­do che «la pun­ta più alta del movi­men­to fu toc­ca­ta nel­la pri­ma­ve­ra del 1920, […] [men­tre] quan­do ini­ziò l’occupazione del­le fab­bri­che […] vi era­no già segni di stan­chez­za»[31]. Sono tut­ti, a ben vede­re, argo­men­ti per scrol­lar­si di dos­so una respon­sa­bi­li­tà sto­ri­ca[32].
Ed è per que­sto che la giu­sta defi­ni­zio­ne del bien­nio ros­so come “rivo­lu­zio­ne man­ca­ta” dovreb­be esse­re inte­gra­ta da quel­la di “rivo­lu­zio­ne tradita”.
In que­sto sen­so, appa­re insu­pe­ra­bi­le il giu­di­zio che, dell’esperienza dell’occupazione del­le fab­bri­che e, più in gene­ra­le, del bien­nio ros­so, die­de Tro­tsky: «Tra i lavo­ra­to­ri ita­lia­ni […] le idee e i meto­di del­la rivo­lu­zio­ne rus­sa ave­va­no incon­tra­to un enor­me favo­re. Il Par­ti­to socia­li­sta ita­lia­no, tut­ta­via, non ave­va tenu­to suf­fi­cien­te­men­te con­to del­la natu­ra di que­ste con­ce­zio­ni […] Nel set­tem­bre del 1920 la clas­se ope­ra­ia ita­lia­na, in effet­ti, ave­va assun­to il con­trol­lo del­lo Sta­to, del­la socie­tà, del­le fab­bri­che, degli impian­ti, del­le impre­se. Che cosa man­ca­va? Man­ca­va un’inezia, man­ca­va un par­ti­to, che pog­gian­do sul pro­le­ta­ria­to rivo­lu­zio­na­rio ingag­gias­se una lot­ta aper­ta con la bor­ghe­sia per distrug­ge­re i resi­dui del­le for­ze mate­ria­li anco­ra nel­le mani di quest’ultima, pren­de­re il pote­re e arri­va­re alla vit­to­ria del­la clas­se ope­ra­ia. In real­tà, la clas­se ope­ra­ia ave­va con­qui­sta­to, o vir­tual­men­te con­qui­sta­to il pote­re, ma non c’era alcu­na orga­niz­za­zio­ne capa­ce di con­so­li­da­re defi­ni­ti­va­men­te la vit­to­ria […], il pro­le­ta­ria­to fu scon­fit­to […]. Il fasci­smo è la rivin­ci­ta, la ven­det­ta attua­ta dal­la bor­ghe­sia per il pani­co vis­su­to nel set­tem­bre del ’20 e nel­lo stes­so tem­po è una lezio­ne tra­gi­ca per il pro­le­ta­ria­to ita­lia­no, una lezio­ne su ciò che deve esse­re un par­ti­to poli­ti­co, cen­tra­liz­za­to, uni­to e con le idee chia­re. Un par­ti­to che deve esse­re cau­to nel­la scel­ta del­le con­di­zio­ni, ma anche riso­lu­ta­men­te deci­so nell’applicazione dei meto­di neces­sa­ri nell’ora deci­si­va»[33].


Note

[1] C. Nato­li, La Ter­za Inter­na­zio­na­le e il fasci­smo, Edi­to­ri riu­ni­ti, p. 22.
[2] «Tut­ta l’Europa è per­va­sa da uno spi­ri­to rivo­lu­zio­na­rio. Tra i lavo­ra­to­ri c’è un pro­fon­do sen­so non solo di mal­con­ten­to ma di col­le­ra e di rivol­ta con­tro le con­di­zio­ni pre­bel­li­che. Tut­to l’ordine esi­sten­te nei suoi aspet­ti poli­ti­ci, socia­li ed eco­no­mi­ci vie­ne mes­so in cau­sa dal­le mas­se del­la popo­la­zio­ne da un capo all’altro dell’Europa»: così un memo­ran­dum con­fi­den­zia­le invia­to da Lloyd Geor­ge, pre­mier bri­tan­ni­co, a Clé­men­ceau, pri­mo mini­stro fran­ce­se, cita­to da S. Cor­vi­sie­ri, Il bien­nio ros­so 1919–1920 del­la Ter­za Inter­na­zio­na­le, Edi­zio­ni Jaca Book, p. 53.
[3] In Ger­ma­nia si pas­sò dai 6,3 milio­ni di gior­na­te di lavo­ro per­du­te di pri­ma del­la guer­ra ai 32,5 milio­ni del solo 1919; in Fran­cia dai 3,4 ai 15,4 milio­ni; in Spa­gna da 1,2 a 4 milio­ni; in Inghil­ter­ra da 15 a 34,9 milio­ni; negli Usa si pas­sò dai 723.000 scio­pe­ran­ti di pri­ma del­la guer­ra ai 4.160.000 del 1919.
[4] R. Del Car­ria, Pro­le­ta­ri sen­za rivo­lu­zio­ne. Sto­ria del­le clas­si subal­ter­ne in Ita­lia, Savel­li, vol. III, pp. 60–61.
[5] G. Maio­ne, Il bien­nio ros­so. Auto­no­mia e spon­ta­nei­tà ope­ra­ia nel 1919–1920, Socie­tà edi­tri­ce Il Muli­no, pp. 7–8, spie­ga che, in fun­zio­ne del­la fase ascen­den­te del ciclo eco­no­mi­co, gli impren­di­to­ri era­no dispo­sti, in cam­bio di un perio­do di tran­quil­li­tà, a fare con­ces­sio­ni tese a instau­ra­re con i sin­da­ca­ti rap­por­ti non più di osti­li­tà, ma di collaborazione.
[6] Il pro­gram­ma “dician­no­vi­sta” (cioè del fasci­smo nel 1919), meglio cono­sciu­to come “pro­gram­ma di San Sepol­cro”, rap­pre­sen­tò for­mal­men­te l’atto di nasci­ta del fasci­smo ita­lia­no, la piat­ta­for­ma poli­ti­ca su cui, il 23 mar­zo 1919, nac­que­ro a Mila­no, appun­to in piaz­za San Sepol­cro, i “Fasci di com­bat­ti­men­to”, l’organizzazione poli­ti­ca di Beni­to Mus­so­li­ni. Si trat­ta­va sostan­zial­men­te di una serie di riven­di­ca­zio­ni dema­go­gi­che che anda­va­no dal repub­bli­ca­ne­si­mo all’antiparlamentarismo e all’anticlericalismo per pote­re così sca­val­ca­re a sini­stra il par­ti­to socia­li­sta; ma alle qua­li se ne uni­va­no altre di stam­po ultra­na­zio­na­li­sti­co. Il pro­gram­ma di San Sepol­cro si carat­te­riz­za­va in ogni caso per la sua matri­ce anti­li­be­ra­le da un lato, e fero­ce­men­te anti­bol­sce­vi­ca dall’altro, sic­ché «nascon­de­va già una sostan­za ten­den­zial­men­te rea­zio­na­ria» (R. Viva­rel­li, Sto­ria del­le ori­gi­ni del fasci­smo, Socie­tà edi­tri­ce Il Muli­no, vol. I, p. 336). Ma pro­prio il fat­to che in quel pro­gram­ma vi fos­se­ro riven­di­ca­zio­ni appa­ren­te­men­te “pro­gres­si­ste” ha aper­to la stra­da al fio­ri­re di una odier­na sto­rio­gra­fia revi­sio­ni­sta che distin­gue il “fasci­smo-movi­men­to” dal “fasci­smo-regi­me”, attri­buen­do al pri­mo carat­te­ri­sti­che ”posi­ti­ve” e lascian­do quel­le “nega­ti­ve” solo al secon­do, qua­si che que­sto si fos­se tra­sfor­ma­to in una sor­ta di “tra­di­men­to” del suo pre­cur­so­re. Tut­ta­via, è curio­so nota­re che una signi­fi­ca­ti­va spin­ta a que­sta rico­stru­zio­ne, tan­to infon­da­ta quan­to inte­res­sa­ta alla ria­bi­li­ta­zio­ne del fasci­smo, tro­va le sue ori­gi­ni in una fon­te appa­ren­te­men­te inso­spet­ta­bi­le. Nell’agosto del 1936, veni­va pub­bli­ca­to su Lo Sta­to Ope­ra­io, orga­no del Par­ti­to comu­ni­sta in clan­de­sti­ni­tà, lo stu­pe­fa­cen­te “Appel­lo ai fra­tel­li in cami­cia nera”, fir­ma­to da Togliat­ti e da tut­to lo sta­to mag­gio­re del Pcd’I e diret­ta­men­te con­cor­da­to con Mosca e i diri­gen­ti del Comin­tern, in cui si pro­cla­ma­va solen­ne­men­te: «Noi comu­ni­sti fac­cia­mo nostro il pro­gram­ma fasci­sta del 1919, che è un pro­gram­ma di pace, di liber­tà, di dife­sa degli inte­res­si dei lavo­ra­to­ri, e vi dicia­mo: Lot­tia­mo uni­ti per la rea­liz­za­zio­ne di que­sto pro­gram­ma … Fasci­sti del­la vec­chia guar­dia! Gio­va­ni fasci­sti! Noi pro­cla­mia­mo che sia­mo dispo­sti a com­bat­te­re assie­me a voi ed a tut­to il popo­lo ita­lia­no per la rea­liz­za­zio­ne del pro­gram­ma fasci­sta del 1919»! È vero che la “sto­rio­gra­fia uffi­cia­le” del Pcd’I ha ripe­tu­ta­men­te cer­ca­to di sca­gio­na­re Togliat­ti soste­nen­do, sul­la base di alcu­ne testi­mo­nian­ze, che egli nul­la sape­va del testo e che la sua fir­ma sareb­be sta­ta appo­sta in cal­ce all’appello per ini­zia­ti­va di Rug­ge­ro Grie­co, segre­ta­rio del par­ti­to dal 1935 al 1937. Tut­ta­via, que­sta tesi è sta­ta smen­ti­ta con dovi­zia di argo­men­ta­zio­ni, in par­ti­co­la­re, da L. Can­dre­va nel docu­men­ta­tis­si­mo arti­co­lo “La ‘coglio­ne­ria’ di Togliat­ti. Il Pci e l’appello ai ‘fra­tel­li in cami­cia nera’”, pub­bli­ca­to nel­la rivi­sta Zapru­der, n. 35, set.‑dic. 2014, pp. 92 e ss. Sul tema è uti­le anche fare rife­ri­men­to a A. Ago­sti, Togliat­ti. Un uomo di fron­tie­ra, Utet Libre­ria, pp. 202 e ss.
[7] Gli avve­ni­men­ti cono­sciu­ti con que­sto nome sono mol­to ben descrit­ti nel loro impe­tuo­so suc­ce­der­si da R. Del Car­ria, op. cit., pp. 69 e ss.
[8] Con­fe­de­ra­zio­ne gene­ra­le del lavo­ro, l’organizzazione sin­da­ca­le ante­si­gna­na dell’odierna Cgil.
[9] Le Came­re del Lavo­ro, nate nel 1891, era­no orga­ni­smi spe­ci­fi­ci del sin­da­ca­li­smo ita­lia­no, arti­co­la­te su base ter­ri­to­ria­le e inter­pro­fes­sio­na­le, che per­se­gui­va­no la tute­la degli inte­res­si dei lavo­ra­to­ri, non solo nel cam­po del col­lo­ca­men­to, ma anche dell’istruzione e dell’assistenza.
[10] G. Maio­ne, op. cit., p. 36.
[11] Que­sta – alcu­ni anni dopo gli even­ti – fu l’incredibile riven­di­ca­zio­ne (rife­ri­ta da R. Del Car­ria, op. cit., p. 83) di Ludo­vi­co D’Aragona, allo­ra segre­ta­rio del­la Cgl e che con­clu­de­rà poi la sua “bril­lan­te car­rie­ra” di agen­te del­la bor­ghe­sia in seno al movi­men­to ope­ra­io facen­do il mini­stro in un gover­no bor­ghe­se. Lo sto­ri­co P. Spria­no, in L’occupazione del­le fab­bri­che. Set­tem­bre 1920, Pic­co­la biblio­te­ca Einau­di, p. 128, rife­ri­sce che, recan­do­si al tavo­lo nego­zia­le fra gover­no, indu­stria­li e orga­niz­za­zio­ni sin­da­ca­li, che avreb­be poi mes­so la paro­la fine all’occupazione del­le fab­bri­che di cui dire­mo più avan­ti, il pre­fet­to di Mila­no segna­lò D’Aragona all’industriale De Bene­det­ti indi­can­do­glie­lo con que­ste paro­le: «Vede quel­lo là? È il sal­va­to­re d’Italia!».
[12] Di «inau­di­ti epi­so­di di bar­ba­rie e di dis­so­lu­tez­za» par­lò L’Ordine nuo­vo del 12 luglio 1919, riven­di­can­do alle Came­re del lavo­ro e alle sezio­ni socia­li­ste il meri­to di aver «dimo­stra­to di sape­re eser­ci­ta­re un pre­sti­gio sul­le fol­le, di esse­re capa­ci di ricon­dur­re un ordi­ne»! Sul nume­ro del 2 ago­sto 1919, gli ordi­no­vi­sti dife­se­ro addi­rit­tu­ra la tesi di D’Aragona che si era espres­so con­tro il cal­mie­re impo­sto sui prez­zi dai moti popo­la­ri soste­nen­do che ciò avreb­be por­ta­to al fal­li­men­to «le nostre coo­pe­ra­ti­ve di con­su­mo» ed espri­men­do il timo­re che i com­mer­cian­ti sareb­be­ro sta­ti per­ciò costret­ti a chiu­de­re gli esercizi.
[13] R. Del Car­ria, op. cit., p. 86.
[14] Le guar­die regie era­no un cor­po di pub­bli­ca sicu­rez­za alle dipen­den­ze del mini­ste­ro dell’Interno.
[15] “L’opinione degli indu­stria­li sui con­si­gli di fab­bri­ca”, in L’Ordine Nuo­vo, 15 mag­gio 1920. Per com­pren­de­re tut­to il pro­ces­so attra­ver­so cui gli indu­stria­li si pre­pa­ra­ro­no alla lot­ta con­tro i con­si­gli di fab­bri­ca per scon­fig­ge­re il movi­men­to ope­ra­io, G. Maio­ne, op. cit., pp. 116 e segg. È uti­le anche, pur tenen­do pre­sen­te la matri­ce togliat­tia­na dell’autore, con­sul­ta­re in pro­po­si­to P. Spria­no, op. cit., pp. 29 e ss.
[16] A. Mosca­to (a cura di), Cen­to … e uno anni di Fiat. Dagli Agnel­li alla Gene­ral Motors, Mas­sa­ri edi­to­re, p. 14.
[17] È uti­le la rico­stru­zio­ne cro­no­lo­gi­ca degli even­ti che por­ta­ro­no allo “scio­pe­ro del­le lan­cet­te” fat­ta da G. Maio­ne, op. cit., pp. 121 e ss., il qua­le rife­ri­sce come i diri­gen­ti del Psi non sapes­se­ro spie­gar­si tan­ta osti­li­tà ope­ra­ia per una que­stio­ne che essi defi­ni­va­no “futi­le”, bol­lan­do­la, dal­le colon­ne dell’Avanti!, come «un nuo­vo atto di ribel­lio­ne con­tro la bor­ghe­sia». L’autore descri­ve minu­zio­sa­men­te il lavo­ro pre­pa­ra­to­rio degli indu­stria­li in vista del­lo scon­tro, con­fer­ma­to anche da L’Ordine Nuo­vo dell’8 mag­gio 1920.
[18] «Dopo tan­to discu­te­re e teo­riz­za­re di soviet sor­ge­va ora un orga­ni­smo che … avreb­be potu­to svol­ge­re effet­ti­va­men­te il ruo­lo che nel­le rivo­lu­zio­ni rus­se ave­va svol­to il soviet di Pie­tro­gra­do … Anche ora, però, Gram­sci e com­pa­gni non avan­za­no deci­sa­men­te sul pro­sce­nio come la situa­zio­ne esi­ge­va, ma pre­fe­ri­sco­no resta­re die­tro le quin­te … Nes­su­no avreb­be potu­to aver nul­la da ridi­re se il Comi­ta­to di agi­ta­zio­ne aves­se spaz­za­to via tut­ti gli altri orga­ni­smi e si fos­se pre­sen­ta­to nel­la manie­ra più ener­gi­ca come l’unico pun­to di rife­ri­men­to per tut­to il pro­le­ta­ria­to tori­ne­se. Così non fu … Gram­sci e com­pa­gni … dimen­ti­ca­no di affron­ta­re i pro­ble­mi che si pon­go­no pri­ma del­la pre­sa del pote­re. Non si dà vita ad alcu­na discus­sio­ne poli­ti­ca di mas­sa su quan­to sta avve­nen­do, sugli erro­ri com­mes­si, sul­la neces­si­tà di pre­ve­de­re le pros­si­me mos­se dell’avversario, di pre­ve­nir­le»: così G. Maio­ne, op. cit., pp. 136–138.
[19] Fir­man­do l’accordo, D’Aragona iro­niz­zò sul con­flit­to, dicen­do che si trat­ta­va di «sot­ter­ra­re il bam­bi­no nato mor­to»: così B. Pale­ni, Ita­lie 1919–1920. Les deux années rou­ges. Fasci­sme ou révo­lu­tion?, Les Bons Carac­tè­res, p. 71.
[20] A. Gram­sci, “Super­sti­zio­ne e real­tà”, L’Ordine Nuo­vo, 8 mag­gio 1920.
[21] «Come pote­vo impe­di­re l’occupazione? Si trat­ta di 600 mani­fat­tu­re dell’industria metal­lur­gi­ca. Per impe­di­re l’occupazione avrei dovu­to met­te­re una guar­ni­gio­ne in cia­scu­no di que­sti opi­fi­ci …: avrei impie­ga­to per occu­pa­re le fab­bri­che tut­ta la for­za del­la qua­le pote­vo dispor­re! E chi sor­ve­glia­va i 500.000 ope­rai che resta­va­no fuo­ri del­le fab­bri­che? Chi avreb­be tute­la­to la pub­bli­ca sicu­rez­za nel Pae­se? … Era la guer­ra civi­le» (P. Spria­no, op. cit., p. 58).
[22] Gli ope­rai dei can­tie­ri nava­li ligu­ri bat­tez­za­ro­no col nome di Lenin una nave appe­na vara­ta. Sull’ingresso del­le offi­ci­ne Ansal­do di Sestri Ponen­te ven­ne issa­ta l’insegna “Sta­bi­li­men­ti comunisti”.
[23] Sul­la gestio­ne ope­ra­ia e sul­la dife­sa arma­ta del­le fab­bri­che occu­pa­te P. Spria­no, op. cit., pp. 69 e ss.; G. Maio­ne, op. cit., pp. 241 e ss.
[24] Mol­to effi­ca­ce­men­te, P. Spria­no, in op. cit., pp. 95 e ss., e in Sto­ria del Par­ti­to comu­ni­sta ita­lia­no, l’Unità Einau­di, vol. I, p. 79, par­la di “rivo­lu­zio­ne mes­sa ai voti”. Il dram­ma­ti­co reso­con­to del­la discus­sio­ne può esse­re let­to nei ver­ba­li del­le riu­nio­ni con­giun­te fra dire­zio­ne del Psi e Comi­ta­to diret­ti­vo del­la Cgl, pub­bli­ca­ti in G. Bosio, La gran­de pau­ra, Edi­zio­ni Samo­nà e Savel­li, pp. 95 e ss.
[25] G. Maio­ne, op. cit., pp. 264 e ss.; G. Bosio, op. cit., pp. 17 e ss.
[26] Va, peral­tro, segna­la­to che, con­trad­dit­to­ria­men­te, in una let­te­ra ad Alfon­so Leo­net­ti del 28 gen­na­io 1924 (ripre­sa da P. Spria­no, Sto­ria del Par­ti­to comu­ni­sta cit., pp. 56–57), Gram­sci ammi­se la respon­sa­bi­li­tà del­la pro­pria ten­den­za: «Nel 1919–20 noi abbia­mo com­mes­so erro­ri gra­vis­si­mi che in fon­do ades­so scon­tia­mo. Non abbia­mo, per pau­ra di esse­re chia­ma­ti arri­vi­sti e car­rie­ri­sti, costi­tui­to una fra­zio­ne e cer­ca­to di orga­niz­zar­la in tut­ta Ita­lia. Non abbia­mo volu­to dare ai Con­si­gli di fab­bri­ca di Tori­no un cen­tro diret­ti­vo auto­no­mo e che avreb­be potu­to eser­ci­ta­re un’immensa influen­za in tut­to il pae­se, per pau­ra del­la scis­sio­ne nei sin­da­ca­ti e di esse­re trop­po pre­ma­tu­ra­men­te espul­si dal par­ti­to socia­li­sta». Que­sto testo smen­ti­sce l’analisi che, nel suo inna­mo­ra­men­to gram­scia­no, Livio Mai­tan avan­za, soste­nen­do che nel ’19-’20 Gram­sci fos­se «per­fet­ta­men­te con­sa­pe­vo­le» del­la neces­si­tà del­la «for­ma­zio­ne di una dire­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria in rot­tu­ra sia con il rifor­mi­smo sia con il mas­si­ma­li­smo» (L. Mai­tan, Il mar­xi­smo rivo­lu­zio­na­rio di Anto­nio Gram­sci, Nuo­ve Edi­zio­ni Inter­na­zio­na­li, p. 15).
[27] È stu­pe­fa­cen­te come Umber­to Ter­ra­ci­ni, all’epoca dei fat­ti mem­bro de L’Ordine Nuo­vo, par­lan­do al III Con­gres­so dell’Internazionale comu­ni­sta nel 1921 abbia giu­sti­fi­ca­to la scel­ta del­la dire­zio­ne rifor­mi­sta del Psi di non aver accet­ta­to le dimis­sio­ni dei mem­bri del­la dire­zio­ne del­la Cgl con l’argomento che … non c’era nes­su­no con cui sosti­tuir­li! Si veda, al riguar­do, La que­stio­ne ita­lia­na al Ter­zo Con­gres­so del­la Inter­na­zio­na­le comu­ni­sta, Libre­ria edi­tri­ce del Pcd’I, 1921, p. 56 e s.
[28] E. Ribol­di, Vicen­de socia­li­ste, trent’anni di sto­ria ita­lia­na nei ricor­di di un depu­ta­to mas­si­ma­li­sta, Azio­ne Comu­ne, 1964.
[29] V.I. Lenin, Ope­re, Edi­zio­ni Lot­ta comu­ni­sta, vol. 32, p. 441. Signi­fi­ca­ti­va­men­te, que­sto giu­di­zio così net­to, vie­ne inve­ce edul­co­ra­to nel­la tra­scri­zio­ne del discor­so di Lenin con­te­nu­ta ne La que­stio­ne ita­lia­na … cit., p. 77, dove la fra­se vie­ne tra­sfor­ma­ta nel­la mol­to più sfu­ma­ta «Duran­te la occu­pa­zio­ne del­le fab­bri­che in Ita­lia, for­se che il comu­ni­smo esi­ste­va?».
[30] Da una let­te­ra di Gram­sci a Zino Zini (col­la­bo­ra­to­re de L’Ordine Nuo­vo), pub­bli­ca­ta nel 1964 da Rina­sci­ta e ripre­sa da G. Bosio, op. cit., p. 20.
[31] Ripor­ta­to da P. Spria­no, L’occupazione … cit., p. 174.
[32] La for­ma­zio­ne togliat­tia­na di Spria­no (op. ult. cit., pp. 162 e ss.) lo spin­ge ad esclu­de­re che il 1920 fos­se «l’occasione rivo­lu­zio­na­ria». Fon­dan­do­si sul giu­di­zio di rifor­mi­sti e libe­ra­li (ma per­si­no di Gio­lit­ti!), con­clu­de per l’assenza del­le con­di­zio­ni ogget­ti­ve (rite­nen­do che il gover­no per­ma­nes­se nel con­trol­lo del­la situa­zio­ne) e l’immaturità sog­get­ti­va del­le mas­se. In real­tà, una simi­le ana­li­si si risol­ve nel para­dos­so di dare allo­ra ragio­ne e fon­da­men­to alla deci­sio­ne del­la dire­zio­ne rifor­mi­sta del sin­da­ca­to e del par­ti­to: se la situa­zio­ne non era rivo­lu­zio­na­ria e la clas­se era imma­tu­ra, non sareb­be sta­to fol­le e avven­tu­ri­sta voler fare la rivo­lu­zio­ne a tut­ti i costi? Ragio­ni di spa­zio non con­sen­to­no di appro­fon­di­re il tema, ma è uti­le riman­da­re a L. Tro­tsky, “Enco­re une fois, où va la Fran­ce?”, Œuvres, Edi, vol. 5, pp. 148 e ss. (pub­bli­ca­to in ita­lia­no nel volu­me L. Tro­tsky, I pro­ble­mi del­la rivo­lu­zio­ne cine­se e altri scrit­ti su que­stio­ni inter­na­zio­na­li. 1924–1940, Einau­di, pp. 427 e ss.), lad­do­ve il rivo­lu­zio­na­rio rus­so spie­ga che pro­prio «quan­do si avvi­ci­na una cri­si rivo­lu­zio­na­ria, mol­ti capi, che temo­no le respon­sa­bi­li­tà, si nascon­do­no die­tro il pre­sun­to con­ser­va­to­ri­smo del­le mas­se … Chi dice che il pro­le­ta­ria­to non vuo­le o non può com­bat­te­re, lan­cia una calun­nia, pro­iet­tan­do sul­la mas­se lavo­ra­tri­ci la pro­pria mol­lez­za e la pro­pria vil­tà».
[33] L. Tro­tsky, “Set­tem­bre 1920: la rivo­lu­zio­ne man­ca­ta”, in Scrit­ti sull’Italia, Mas­sa­ri edi­to­re, p. 84 e s.