Il 5 maggio di 200 anni fa nacque a Treviri, in Germania, colui che ha dato – e dà – senso alla nostra attività politica di rivoluzionari, Karl Marx. Il suo pensiero filosofico ed economico e la sua azione politica hanno rappresentato uno spartiacque nella storia dell’umanità.
In tanti hanno cercato di proclamarne la morte, terrorizzati dalla forza delle idee di rovesciamento dell’attuale ordine sociale che promana dalle sue opere. Altri, nel tentativo di idealizzarne la figura per renderla innocua, hanno provato ad “addomesticarlo” scindendo il Marx “filosofo” o quello “economista” dal rivoluzionario che in realtà egli è stato in ogni momento della sua vita, anche quando scriveva di filosofia o di economia. Anzi, lo sviluppo del suo pensiero filosofico o economico era totalmente finalizzato all’idea della rivoluzione.
Ma lo “spettro” del comunismo evocato nel Manifesto ha resistito ad ogni sforzo per demolirlo o edulcorarlo e “si aggira” ancor oggi, non solo per l’Europa, ma per il mondo intero.
Per celebrare la ricorrenza del bicentenario della nascita di Karl Marx abbiamo ritenuto di presentare ai nostri lettori lo stralcio di un saggio scritto da colui che a tal punto si rese interprete del suo pensiero, adattandolo a una diversa realtà sociale, da portare vittoriosamente a termine quella rivoluzione sociale che Marx stesso aveva avuto sempre come stella polare: Lenin.
Si tratta di uno scritto che il rivoluzionario russo concepì nel periodo che va dal luglio al novembre del 1913, e che fu pubblicato per la prima volta due anni dopo. Si intitola: “Karl Marx. Breve saggio biografico ed esposizione del marxismo”.
Buona lettura.
La redazione
Karl Marx
Breve saggio biografico ed esposizione del marxismo
V. I. Lenin
LA DOTTRINA DI KARL MARX
Il marxismo è il sistema delle concezioni e della dottrina di Marx. Marx è stato colui che ha continuato e ha genialmente perfezionato le tre più importanti correnti d’idee del secolo XIX, proprie dei tre paesi più progrediti dell’umanità: la filosofia classica tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese, in rapporto con le dottrine rivoluzionarie francesi in generale. Anche gli avversari riconoscono la meravigliosa coerenza e organicità delle concezioni di Marx che costituiscono nel loro assieme il materialismo moderno e il moderno socialismo scientifico, teoria e programma del movimento operaio di tutti i paesi del mondo civile. […]
La concezione materialistica della storia
Consapevole dell’incoerenza, dell’imperfezione, della unilateralità del vecchio materialismo, Marx si convinse della necessità di «mettere d’accordo la scienza della società con la base materialistica e di ricostruirla sopra di essa». Se il materialismo in generale spiega la coscienza con l’essere, e non viceversa, ciò vuol dire che, applicato alla vita sociale dell’umanità, il materialismo esige che si spieghi la coscienza sociale con l’essere sociale. «La tecnologia – scrive Marx (Il Capitale, vol. I) – svela il comportamento attivo dell’uomo verso la natura, l’immediato processo di produzione della sua vita, e con essi anche l’immediato processo di produzione dei suoi rapporti sociali vitali e delle idee dell’intelletto che ne scaturiscono». Una formulazione completa dei principi fondamentali del materialismo, esteso alla società umana e alla storia, è data da Marx nella sua prefazione all’opera Per la critica dell’economia politica con le parole seguenti: «Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.
«Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione» … «A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno, possono essere designati come epoche che marcano il progresso nella formazione economica della società». (Cfr. la breve formulazione di Marx nella lettera a Engels del 7 luglio 1866: «La nostra teoria per cui l’organizzazione del lavoro è determinata dai mezzi di produzione»).
La scoperta della concezione materialistica della storia, o, più esattamente, l’applicazione coerente e l’estensione del materialismo al campo dei fenomeni sociali, eliminò i due principali difetti delle precedenti teorie storiche. In primo luogo queste, nel migliore dei casi, tenevano conto solo dei motivi ideologici dell’attività storica degli uomini senza ricercare le cause che provocavano questi motivi, senza afferrare le leggi oggettive dello sviluppo del sistema dei rapporti sociali, senza vedere che le radici di questi rapporti si trovano nel grado di sviluppo della produzione materiale. In secondo luogo, queste teorie trascuravano, per l’appunto, le azioni delle masse della popolazione, mentre il materialismo storico ha dato per primo la possibilità di indagare, con la precisione propria della storia naturale, le condizioni sociali della vita delle masse e i cambiamenti di queste condizioni. La «sociologia» e la storiografia premarxiste, nel migliore dei casi, davano un cumulo di fatti grezzi, frammentariamente raccolti, una esposizione di aspetti parziali del processo storico. Il marxismo ha aperto la via a uno studio universale, completo, del processo di origine, di sviluppo e di decadenza delle formazioni economico-sociali, considerando l’insieme di tutte le tendenze contraddittorie, riconducendole alle condizioni esattamente determinabili di vita e di produzione delle varie classi della società, eliminando il soggettivo e l’arbitrario nella scelta di singole idee «direttive» o nella loro interpretazione, scoprendo nella condizione delle forze materiali di produzione le radici di tutte le idee e di tutte le varie tendenze senza eccezione alcuna. Gli uomini stessi creano la loro storia; ma da che cosa sono determinati i motivi degli uomini, e precisamente delle masse umane? Da che cosa sono generati i conflitti delle idee e delle correnti antagonistiche? Qual è il nesso che unisce tutti questi conflitti di tutta la massa delle società umane? Quali sono le condizioni oggettive della produzione della vita materiale, che forma la base di tutta l’attività storica degli uomini? Qual è la legge di sviluppo di queste condizioni? A tutto ciò Marx volse la sua attenzione, e aprì la via a uno studio scientifico della storia come processo unitario e sottoposto a leggi, nonostante tutta la sua formidabile complessità e le sue contraddizioni.
La lotta di classe
Che in ogni determinata società le aspirazioni degli uni cozzino con le aspirazioni degli altri, che la vita sociale sia piena di contraddizioni, che la storia ci mostri la lotta dei popoli e delle società tra di loro e anche la lotta nel loro seno, che, oltre a ciò, la storia ci mostri un avvicendarsi di periodi di rivoluzione e di reazione, di pace e di guerre, di stagnazioni e di rapido progresso o decadenza, sono fatti universalmente noti. Il marxismo ha dato un filo conduttore, che permette di scoprire una legge in questo labirinto e caos apparente: e precisamente la teoria della lotta di classe. Solo lo studio dell’assieme delle aspirazioni di tutti i membri di una determinata società, o di gruppi di società, permette di giungere a una determinazione scientifica del risultato di queste aspirazioni. E fonte delle aspirazioni contraddittorie sono la differente situazione e le diverse condizioni di vita delle classi nelle quali ogni società è divisa. «La storia di ogni società sinora esistita – scrive Marx nel Manifesto comunista (ed Engels aggiunge: ad eccezione della storia delle comunità primitive) – è storia di lotte di classe. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi, stettero sempre in contrasto fra di loro, sostennero una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese; una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta … La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti di classe. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche. L’epoca nostra, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti di classe. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato». Dal tempo della grande Rivoluzione francese, la storia europea ha posto in particolare evidenza, in tutta una serie di paesi, questo substrato reale degli avvenimenti: la lotta delle classi. E già durante la Restaurazione sorse in Francia un gruppo di storici (Thierry, Guizot, Mignet, Thiers) i quali, generalizzando gli avvenimenti, non poterono non vedere nella lotta delle classi la chiave della comprensione di tutta la storia di Francia. Ma l’epoca più recente, l’epoca della vittoria completa della borghesia, delle istituzioni rappresentative, di un largo (se non universale) diritto di voto, di una stampa quotidiana poco costosa e diffusa fra le masse, ecc., l’epoca dei potenti e sempre più vasti sindacati operai e sindacati di industriali ecc., ha mostrato con evidenza ancora maggiore (quantunque in forma talvolta molto unilaterale, «pacifica » e «costituzionale») come la lotta delle classi sia il motore degli avvenimenti. Il seguente passo del Manifesto comunista di Marx ci mostra quali esigenze di analisi oggettiva della situazione di ogni classe nella società contemporanea, in rapporto con l’analisi delle condizioni di sviluppo di ogni classe, Marx abbia posto alla scienza sociale: «Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino. I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancor più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all’indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista della loro imminente caduta nelle condizioni del proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, abbandonano il loro proprio modo di vedere per adottare quello del proletariato». In una serie di lavori storici … Marx dette dei saggi brillanti e profondi di storiografia materialistica, di analisi della situazione di ogni singola classe, e talvolta di vari gruppi o strati che esistono in una classe, mostrando con molta chiarezza perché e come «ogni lotta di classe è una lotta politica». Il passo da noi citato mostra quale intricato tessuto di rapporti sociali e di gradi transitori da una classe ad un’altra, dal passato all’avvenire, venga analizzato da Marx per calcolare i risultati dello sviluppo storico nel suo complesso.
La teoria di Marx trova la conferma e l’applicazione più profonda, più universale e più particolareggiata nella sua dottrina economica.
LA DOTTRINA ECONOMICA DI MARX
«Fine ultimo al quale mira quest’opera – scrive Marx nella prefazione al Capitale – è di svelare la legge economica del movimento della società moderna» ossia della società capitalistica, borghese. Lo studio dei rapporti di produzione di una società storicamente determinata, nella loro origine, nel loro sviluppo e nella loro decadenza: tale è il contenuto della dottrina economica di Marx. Nella società capitalistica domina la produzione delle merci: e perciò l’analisi fatta da Marx incomincia con l’analisi della merce.
Il valore
La merce è, in primo luogo, una cosa che soddisfa un qualsiasi bisogno dell’uomo; in secondo luogo, una cosa che si può scambiare con un’altra. L’utilità di una cosa fa di essa un valore d’uso. Il valore di scambio (o semplicemente: valore) è, innanzitutto, il rapporto, la proporzione secondo la quale una certa quantità di valori d’uso di una specie viene scambiata con una certa quantità di valori d’uso di specie diversa. L’esperienza quotidiana ci dimostra che attraverso milioni e miliardi di tali scambi si stabiliscono continuamente dei rapporti di equivalenza tra i valori d’uso più diversi e meno comparabili l’uno con l’altro. Che cosa hanno di comune queste cose diverse, continuamente trattate come equivalenti fra di loro in un determinato sistema di rapporti sociali? Hanno questo in comune: che sono prodotti del lavoro. Scambiando dei prodotti, gli uomini stabiliscono dei rapporti di equivalenza tra le più diverse specie di lavoro. La produzione delle merci è un sistema di rapporti sociali nel quale i singoli produttori creano prodotti di qualità diversa (divisione sociale del lavoro), e tutti questi prodotti sono fatti uguali l’uno all’altro mediante lo scambio. Per conseguenza, quel che tutte le merci hanno di comune non è il lavoro concreto di un determinato ramo della produzione, né il lavoro di una stessa specie, ma il lavoro umano astratto, il lavoro umano in generale. Tutta la forza‑lavoro di una data società, rappresentata dalla somma del valore di tutte le merci, è una sola e stessa forza umana di. lavoro: miliardi di fatti di scambio lo dimostrano. E per conseguenza ogni singola merce rappresenta soltanto una certa parte del tempo di lavoro socialmente necessario. La grandezza del valore è determinata dalla quantità di lavoro socialmente necessario, cioè dal tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione di una data merce, di un dato valore d’uso. «Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno». Il valore è un rapporto tra due persone, diceva un vecchio economista; avrebbe dovuto soltanto aggiungere: un rapporto dissimulato sotto un rivestimento di cose. Soltanto se ci si pone dal punto di vista dei rapporti sociali di produzione in una determinata formazione storica della società, e inoltre dei rapporti che si manifestano in uno scambio che si ripete miliardi di volte, si può comprendere che cos’è il valore. «Come valori, tutte le merci sono soltanto misure determinate di tempo di lavoro coagulato». Dopo avere analizzato particolareggiatamente il duplice carattere del lavoro incorporato nella merce, Marx passa all’analisi delle forme del valore e all’analisi del denaro. Il compito principale che qui Marx si assume è la ricerca dell’origine della forma monetaria del valore, lo studio del processo storico dello sviluppo dello scambio, cominciando dalle sue manifestazioni singole e occasionali («forma semplice, singola, occasionale del valore»: una data quantità di merce che si scambia con una data quantità di un’altra merce) fino alla forma generale del valore, quando una serie di merci diverse si scambiano contro una determinata merce che rimane sempre la stessa, e fino alla forma monetaria del valore, in cui questa determinata merce, l’equivalente generale, è l’oro. Essendo il più alto prodotto dello sviluppo dello scambio e della produzione mercantile, il denaro nasconde e dissimula il carattere sociale dei lavori individuali, il legame sociale fra i produttori singoli, collegati dal mercato. Marx sottopone a un’analisi straordinariamente circostanziata le diverse funzioni del denaro; e anche qui (come in genere nei primi capitoli del Capitale) è particolarmente importante notare inoltre che la forma di esposizione astratta e talvolta, in apparenza, puramente deduttiva, fornisce in realtà una documentazione immensamente ricca per la storia dello sviluppo dello scambio e della produzione mercantile. «Il denaro presuppone un certo livello dello scambio di merci. Le forme particolari del denaro, puro e semplice equivalente della merce, o mezzo di circolazione, o mezzo di pagamento, o tesoro e moneta mondiale, indicano di volta in volta, a secondo della diversa estensione e della relativa preponderanza dell’una o dell’altra funzione, gradi diversissimi del processo sociale di produzione» (Il Capitale, vol. I).
Il plusvalore
A un certo grado di sviluppo della produzione mercantile, il denaro si trasforma in capitale. La formula della circolazione delle merci era M (merce)‑D (denaro)‑M (merce), ossia: vendita di una merce per l’acquisto di un’altra. Al contrario, la formula generale del capitale è : D‑M-D ossia: compra per la vendita (con profitto). Marx chiama plusvalore questo accrescimento del primitivo valore del denaro messo in circolazione. Il fatto di questo «aumento» del denaro nella circolazione capitalistica è noto a tutti. Precisamente questo «aumento» trasforma il denaro in capitale, che è un particolare rapporto sociale di produzione storicamente determinato. Il plusvalore non può scaturire dalla circolazione delle merci, perché questa conosce soltanto lo scambio tra equivalenti; non può sorgere da un aumento dei prezzi perché i guadagni e le perdite reciproche del venditore e del compratore si compenserebbero, mentre qui si tratta appunto di fenomeni di massa, medi, sociali, e non di fenomeni individuali. Per ottenere il plusvalore «il possessore di denaro deve trovare sul mercato una merce il cui stesso valore d’uso abbia la proprietà peculiare di essere fonte di valore»: una merce il cui processo d’uso sia, al tempo stesso, un processo di creazione di valore. Tale merce esiste. Essa è la forza‑lavoro dell’uomo. Il suo uso è il lavoro, e il lavoro crea il valore. Il possessore di denaro compra la forza-lavoro al suo valore, valore che è determinato, come quello di qualsiasi altra merce, dal tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione (vale a dire, dal costo del mantenimento dell’operaio e della sua famiglia). Avendo comprato la forza‑lavoro, il possessore di denaro ha il diritto di consumarla, ossia di obbligarla a lavorare tutto il giorno, per esempio dodici ore. Ma in sei ore (tempo di lavoro «necessario») l’operaio crea un prodotto che basta a coprire le spese del proprio mantenimento; mentre nelle sei ore rimanenti (tempo di lavoro «supplementare») crea un prodotto «supplementare» non pagato dal capitalista, ossia il plusvalore. Perciò dal punto di vista del processo di produzione bisogna distinguere nel capitale due parti: il capitale costante, che viene impiegato per procurarsi i mezzi di produzione (macchine, strumenti di lavoro, materie prime, ecc.), e il cui valore (in una o più volte) passa, senza variare, nel prodotto finito; e il capitale variabile, che viene impiegato per procurarsi la forza-lavoro. Il valore di questa seconda parte del capitale non rimane invariato, ma aumenta durante il processo del lavoro, creando il plusvalore. Per esprimere il grado di sfruttamento della forza‑lavoro da parte del capitale, bisogna dunque confrontare il plusvalore, non già con il capitale totale, ma soltanto con il capitale variabile. Il saggio del plusvalore, come Marx chiama questo rapporto, sarà, secondo il nostro esempio, di 6/6, ossia del 100 per cento.
Premessa storica del sorgere del capitale, è, in primo luogo, l’accumulazione di una determinata somma di denaro nelle mani di singole persone, in un periodo in cui lo sviluppo della produzione mercantile in generale abbia già raggiunto un livello relativamente alto, e, in secondo luogo, l’esistenza di un operaio «libero» in due sensi, – libero da qualsiasi costrizione o limitazione nella vendita della forza‑lavoro e libero perché privo di terra e di mezzi di produzione in generale, – l’esistenza di un lavoratore privo di proprietà, di un «proletario», il quale non può esistere se non vendendo la propria forza‑lavoro.
L’aumento del plusvalore è possibile grazie a due metodi fondamentali: il prolungamento della giornata di lavoro («plusvalore assoluto») e la riduzione della giornata di lavoro necessaria («plusvalore relativo»). Analizzando il primo metodo, Marx traccia un quadro grandioso delle lotte della classe operaia per la riduzione della giornata di lavoro, e dell’intervento del potere statale, prima per allungarla (secoli XIV‑XVII) e poi per ridurla (legislazione di fabbrica nel secolo XIX). Dopo la pubblicazione del Capitale, la storia del movimento operaio di tutti i paesi civili del mondo ha fornito migliaia e migliaia di fatti nuovi che illustrano questo quadro.
Analizzando la produzione del plusvalore relativo, Marx studia tre fasi storiche fondamentali nell’aumento della produttività del lavoro da parte del capitalismo: 1) cooperazione semplice; 2) divisione del lavoro e manifattura; 3) macchine e grande industria. Una conferma della profondità con la quale Marx ha messo in luce i tratti fondamentali e tipici dello sviluppo del capitalismo, è data tra l’altro dal fatto che l’indagine della cosiddetta produzione «artigiana» russa fornisce una ricchissima documentazione sulle prime due di queste tre fasi. E l’azione rivoluzionaria della grande industria meccanizzata, descritta da Marx nel 1867, è apparsa, nel corso del mezzo secolo trascorso da allora, in tutta una serie di paesi «nuovi» (Russia, Giappone e altri).
Inoltre, straordinariamente importante e nuova è l’analisi fatta da Marx della accumulazione del capitale, ossia della trasformazione di parte del plusvalore in capitale, dell’impiego del plusvalore non già per i bisogni personali o per i capricci del capitalista, ma per una nuova produzione. Marx dimostrò l’errore di tutta la precedente economia politica classica (cominciando da Adam Smith) la quale supponeva che tutto il plusvalore, trasformandosi in capitale, passasse al capitale variabile. Esso si scompone in realtà in mezzi di produzione più il capitale variabile. Nel processo di sviluppo del capitalismo e della sua trasformazione in socialismo, ha enorme importanza il fatto che la parte costituita dal capitale costante (nella somma totale del capitale) aumenta più rapidamente della parte costituita dal capitale variabile.
L’accumulazione del capitale, affrettando la eliminazione dell’operaio da parte della macchina, creando a un polo la ricchezza e al polo opposto la miseria, genera anche il cosiddetto «esercito del lavoro di riserva», l’«eccedente relativo» di operai, ossia la «sovrappopolazione capitalistica», che assume forme straordinariamente varie, e che dà al capitale la possibilità di estendere la produzione con estrema rapidità. Questa possibilità, unita con il credito e con l’accumulazione del capitale sotto forma di mezzi di produzione, ci dà, fra l’altro, la chiave per comprendere le crisi di sovrapproduzione che sopravvengono periodicamente nei paesi capitalistici, dapprincipio, in media, ogni dieci anni e, in seguito, a intervalli più lunghi e meno determinati. Bisogna distinguere l’accumulazione del capitale sulla base del capitalismo dalla cosiddetta accumulazione primitiva: dalla separazione violenta del lavoratore dai mezzi di produzione, dall’espulsione del contadino dalla terra, dal furto delle terre delle comunità, dal sistema coloniale, dai debiti statali, dal protezionismo doganale, ecc. L’«accumulazione primitiva» crea a un polo il proletario «libero», e al polo opposto il proprietario del denaro, il capitalista.
La «tendenza storica dell’accumulazione capitalistica» è caratterizzata da Marx con le seguenti celebri parole: «L’espropriazione dei produttori immediati viene compiuta con il vandalismo più spietato e sotto la spinta delle passioni più infami, più sordide e meschinamente odiose. La proprietà privata acquistata col proprio lavoro (dal contadino e dall’artigiano), fondata per così dire sull’unione intrinseca della singola e autonoma individualità lavoratrice e delle sue condizioni di lavoro, viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica che è fondata sullo sfruttamento di lavoro che è sì lavoro altrui, ma, formalmente, è libero … Ora, quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai. Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati» (Il Capitale, vol. I).
Estremamente importante e nuova è inoltre l’analisi che Marx fa, nel II volume del Capitale, della riproduzione del capitale sociale nel suo insieme. Anche qui Marx non considera un fenomeno individuale, ma un fenomeno di massa; non una particella frazionaria dell’economia sociale, ma tutta questa economia nella sua totalità. Correggendo il sopraindicato errore dei classici, Marx divide tutta la produzione sociale in due grandi sezioni: 1) produzione dei mezzi di produzione e 2) produzione degli oggetti di consumo; e poi esamina minutamente, basandosi su esempi numerici, la circolazione di tutto il capitale sociale nel suo complesso, tanto nella riproduzione semplice, che nell’accumulazione. Nel III volume del Capitale è risolto il problema della formazione del saggio medio di profitto in base alla legge del valore. Un grande progresso compiuto dalla scienza economica per merito di Marx consiste nel fatto che l’analisi viene condotta dal punto di vista dei fenomeni economici di massa, di tutto l’insieme dell’economia sociale, e non dal punto di vista dei casi singoli o delle manifestazioni esterne della concorrenza, a cui si limitano spesso l’economia politica volgare o la moderna «teoria dell’utilità marginale». Marx comincia con l’analizzare l’origine del plusvalore, e soltanto in seguito esamina la sua scomposizione in profitto, interesse e rendita fondiaria. Il profitto è il rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale impiegato in un’impresa. Il capitale a «struttura organica elevata» (in cui, cioè, il capitale costante supera il capitale variabile in misura superiore alla media sociale) dà un saggio di profitto inferiore alla media. Il capitale a «struttura organica bassa» dà un saggio di profitto superiore alla media. La concorrenza fra i capitali, il loro libero passaggio da una branca all’altra ridurranno in ambo i casi il saggio di profitto al saggio medio. La somma dei valori di tutte le merci di una determinata società coincide con la somma dei prezzi delle merci stesse, ma nelle singole imprese e nei singoli rami della produzione le merci, sotto la pressione della concorrenza, vengono vendute non al loro valore, ma secondo i prezzi di produzione, equivalenti al capitale impiegato più il profitto medio.
In tal modo, il fatto indiscutibile e generalmente noto del divario tra i prezzi e il valore, e della perequazione del profitto viene pienamente spiegato da Marx sulla base della legge del valore, perché la somma dei valori di tutte le merci coincide con la somma dei prezzi. Ma la riduzione del valore (sociale) ai prezzi (individuali) non avviene semplicemente e direttamente, ma in modo molto complicato; poiché è ben naturale che in una società nella quale i produttori isolati di merci sono uniti l’uno all’altro soltanto dal mercato. le leggi non possano manifestarsi se non come leggi medie, sociali, generali con deviazioni individuali, in questa o quell’altra direzione, che si compensano reciprocamente.
L’aumento della produttività del lavoro implica un più rapido accrescimento del capitale costante rispetto al capitale variabile. Ma siccome il plusvalore è in funzione del solo capitale variabile, si comprende che il saggio del profitto (rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale e non soltanto la sua parte variabile) abbia la tendenza a diminuire. Marx analizza minutamente questa tendenza e numerose circostanze che la mascherano o la ostacolano. Senza fermarci all’esposizione delle parti straordinariamente interessanti del III volume del Capitale consacrate al capitale usurario, commerciale e finanziario, passiamo alla parte più importante, alla teoria della rendita fondiaria. Il prezzo di produzione dei prodotti agricoli, a causa della limitatezza della superficie della terra che nei paesi capitalistici è interamente nelle mani di singoli proprietari, è determinato dai costi di produzione non in un terreno medio, ma nel terreno peggiore e non nelle condizioni medie, ma nelle peggiori condizioni di trasporto dei prodotti al mercato. La differenza tra questo prezzo e il prezzo di produzione nei terreni migliori (o in migliori condizioni) costituisce la rendita differenziale. Analizzandola minutamente, mostrandone la origine nella diversa fertilità dei diversi terreni, nelle differenti quantità di capitale investito nella terra, Marx mise in piena luce (si vedano anche le Teorie sul plusvalore, in cui merita speciale attenzione la critica a Rodbertus) l’errore di Ricardo, il quale riteneva che la rendita differenziale provenisse soltanto dal passaggio progressivo da terreni migliori a terreni peggiori. Invece si producono anche passaggi in senso inverso; i terreni di una categoria si trasformano in terreni di un’altra categoria (grazie al progresso della tecnica agricola, allo sviluppo delle città, ecc.) e la famosa «legge della produttività decrescente del terreno» è un profondo errore che tende a scaricare sulla natura i difetti, la limitatezza e le contraddizioni del capitalismo. Inoltre, l’uguaglianza del profitto in tutti i rami dell’industria e dell’economia nazionale in generale presuppone piena libertà di concorrenza, libertà per il capitale di trasferirsi da un ramo a un altro. Invece, la proprietà privata della terra crea il monopolio, che ostacola questa libertà, A causa di questo monopolio, i prodotti dell’agricoltura, la quale si distingue per una più bassa struttura del capitale e che, per conseguenza, dà un saggio di profitto individuale più elevato, non entrano nel pieno e libero processo di livellamento del saggio del profitto; il proprietario della terra ottiene, in quanto monopolista, la possibilità di mantenere i prezzi al di sopra della media, e questo prezzo di monopolio genera la rendita assoluta. La rendita differenziale non può essere soppressa in regime capitalistico; la rendita assoluta invece può essere soppressa, per esempio con la nazionalizzazione della terra, col passaggio della terra in proprietà dello Stato. Questo passaggio della terra allo Stato significherebbe la rovina del monopolio dei proprietari privati, una libertà di concorrenza più conseguente e più ampia per l’agricoltura. Ecco perché, osserva Marx, più di una volta, nella storia, i borghesi radicali hanno sostenuto questa rivendicazione borghese progressiva della nazionalizzazione della terra, la quale spaventa però la maggioranza della borghesia, perché «tocca» troppo da vicino un altro monopolio, oggi particolarmente importante e «sensibile»: il monopolio dei mezzi di produzione in generale. (Marx stesso ha esposto in forma mirabilmente popolare, concisa e chiara la sua teoria del profitto medio del capitale e della rendita fondiaria assoluta, nella lettera a Engels, in data 2 agosto 1862. Cfr. Carteggio, III volume, pp. 77–81. Cfr. anche la lettera del 9 agosto 1862, ivi, pp. 86–87). Per la storia della rendita fondiaria è inoltre importante ricordare l’analisi di Marx, che mostra la trasformazione della rendita in lavoro (quando il contadino crea un prodotto supplementare lavorando la terra del proprietario) in rendita in prodotti o in natura (il contadino ricava dalla propria terra un prodotto supplementare, che dà al proprietario, in forma di una «costrizione extraeconomica»), quindi in rendita in denaro (la stessa rendita in natura trasformata in denaro in seguito allo sviluppo della produzione mercantile: nella vecchia Russia l’obrok), e infine in rendita capitalistica, quando, in luogo del contadino, sorge l’imprenditore agricolo, che coltiva la terra con l’aiuto di lavoro salariato. In rapporto con questa analisi della «genesi della rendita fondiaria capitalistica», devono essere segnalate una serie di acute osservazioni di Marx (specialmente importanti per i paesi arretrati come la Russia) sulla evoluzione del capitalismo nell’agricoltura. «La trasformazione della rendita in natura in rendita in denaro non è soltanto necessariamente accompagnata, ma perfino preceduta, dalla formazione di una classe di giornalieri nullatenenti, che prestano la loro opera per denaro. Durante il periodo in cui questa classe si viene formando, quando essa appare ancora soltanto sporadicamente, si sviluppa necessariamente presso i più agiati tra i contadini tributari di rendita la consuetudine di sfruttare gli operai agricoli per proprio conto, precisamente come nei tempi feudali i servi della gleba più ricchi usavano impiegare servi per loro conto. Essi acquistano in tal modo gradualmente la possibilità di accumulare un certo patrimonio e di trasformare se stessi in futuri capitalisti. Fra i vecchi possessori del terreno, lavoranti in proprio, sorge cosi un vivaio di affittuari capitalisti, il cui sviluppo è condizionato dallo sviluppo generale della produzione capitalistica al di fuori della campagna vera e proprio» (Il Capitale, vol. III, parte II, p. 332) … «L’espropriazione e la cacciata d’una parte della popolazione rurale non solo mette a libera disposizione del capitale industriale, assieme agli operai, i loro mezzi di sussistenza … ma crea anche il mercato interno» (Il Capitale, vol. I, parte II, p. 778). L’immiserimento e la rovina della popolazione rurale a sua volta ha la funzione di creare, per il capitale, l’esercito di riserva del lavoro. In ogni paese capitalistico «una parte della popolazione rurale si trova quindi costantemente sul punto di passare fra il proletariato urbano o il proletariato delle manifatture [cioè non agricolo] … Questa fonte della sovrappopolazione relativa fluisce dunque costantemente … L’operaio agricolo viene perciò depresso al minimo del salario e si trova sempre con un piede dentro la palude del pauperismo (Il Capitale, vol. I, parte II, p. 668). La proprietà privata del contadino sulla terra che egli stesso lavora è la base della piccola produzione e la condizione del suo fiorire, del suo sviluppo sino alla sua forma classica. Ma questa piccola produzione è compatibile soltanto con un quadro ristretto e primitivo della produzione e della società. Nel regime capitalistico «lo sfruttamento dei contadini differisce dallo sfruttamento del proletariato industriale soltanto nella forma. Lo sfruttatore è il medesimo: il capitale. I singoli capitalisti sfruttano i contadini singoli coll’ipoteca e coll’usura, la classe capitalista sfrutta la classe dei contadini coll’imposta di Stato» (Marx, Le lotte di classe in Francia). «Il piccolo appezzamento del contadino è soltanto il pretesto che permette al capitalista di cavare profitto, interesse e rendita dal terreno, lasciando all’agricoltore la cura di vedere come può tirarne fuori il proprio salario» (Il diciotto brumaio). Ordinariamente il contadino dà alla società capitalistica, vale a dire alla classe dei capitalisti, perfino parte del suo salario, cadendo sino «al livello del fittavolo irlandese, e tutto ciò sotto il pretesto di essere proprietario privato» (Le lotte di classe in Francia). In che cosa consiste «una delle cause per cui il prezzo del grano è minore in paesi in cui predomina la proprietà parcellare che in paesi con un modo di produzione capitalistico»? (Il Capitale, vol. III, parte II, p. 340). Consiste nel fatto che il contadino dà gratuitamente alla società (cioè alla classe dei capitalisti) una parte del sovrapprodotto. «Questo basso prezzo [del grano e di altri prodotti agricoli] è quindi un risultata della povertà dei produttori, e niente affatto della produttività del loro lavoro» (Il Capitale, vol. III, parte II, p. 340).
La piccola proprietà terriera, forma normale della piccola produzione, in regime capitalista si degrada, perisce, va distrutta. «La proprietà parcellare esclude per la sua stessa natura: lo sviluppo delle forze sociali di produzione del lavoro, la concentrazione sociale dei capitali, l’allevamento del bestiame su larga scala ed una applicazione progressiva della scienza. L’usura ed il sistema fiscale devono portare dovunque al suo impoverimento. L’esborso del capitale per l’acquisto della terra sottrae questo capitale alla coltivazione. Un’illimitata dispersione dei mezzi di produzione e l’isolamento dei produttori stessi.» (La cooperazione, e cioè le associazioni di piccoli contadini, pur esercitando una funzione progressiva borghese di prim’ordine, attenua soltanto questa tendenza, ma non la sopprime; né si deve dimenticare che queste associazioni danno molto ai contadini agiati e pochissimo, quasi nulla, alla massa dei contadini poveri, e che, in seguito, queste stesse associazioni divengono sfruttatrici di lavoro salariato). «Enorme sperpero di energia umana. Progressivo peggioramento delle condizioni di produzione e rincaro dei prezzi dei mezzi di produzione sono una legge necessaria della proprietà parcellare». Tanto nell’agricoltura quanto nell’industria, il capitalismo trasforma il processo della produzione soltanto a prezzo «di un martirologio dei produttori». «La dispersione degli operai rurali su estensioni d’una certa vastità spezza allo stesso tempo la loro forza di resistenza, mentre la concentrazione accresce la forza di resistenza degli operai urbani. Come nell’industria urbana, cosi nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forza‑lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo … La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio» (Il Capitale, vol. I, fine del 13° capitolo).
IL SOCIALISMO
Risulta da quanto precede che Marx deduce l’inevitabile trasformazione della società capitalistica in società socialista interamente ed esclusivamente dalla legge economica che regola il movimento della società contemporanea. La socializzazione del lavoro, – che, nel mezzo secolo trascorso dalla morte di Marx, si è manifestata in migliaia di forme e procede sempre più rapidamente assumendo forme particolarmente evidenti nello sviluppo della grande industria, dei cartelli, dei sindacati e dei trust capitalistici, come pure nel gigantesco sviluppo delle dimensioni e della potenza del capitale finanziario, – costituisce la base materiale principale dell’inevitabile avvento del socialismo. Motore intellettuale e morale, artefice fisico di tale trasformazione è il proletariato, educato dal capitalismo stesso. La sua lotta contro la borghesia, che si manifesta in forme diverse e sempre più ricche di contenuto, diviene inevitabilmente una lotta politica diretta alla conquista del potere politico da parte del proletariato («dittatura del proletariato»). La socializzazione della produzione non può non portare al passaggio dei mezzi di produzione in proprietà della società, alla «espropriazione degli espropriatori». L’enorme aumento della produttività del lavoro, la riduzione della giornata lavorativa, la sostituzione del lavoro collettivo perfezionato alle vestigia, alle rovine della piccola produzione frazionata e primitiva: ecco le dirette conseguenze di questo passaggio. Il capitalismo rompe definitivamente il legame dell’agricoltura con l’industria, ma al tempo stesso, nel suo più alto grado di sviluppo, prepara nuovi elementi per tale legame, per la unione della industria con l’agricoltura sulla base dell’applicazione cosciente della scienza e della coordinazione del lavoro collettivo, e per una nuova distribuzione della popolazione (che metterà un termine sia all’isolamento e all’arretratezza delle campagne, separate dal resto del mondo, sia alla non naturale agglomerazione di masse gigantesche nelle grandi città). Una nuova forma di famiglia, nuove condizioni nella situazione della donna e nell’educazione delle nuove generazioni, sono preparate dalle forme superiori del capitalismo contemporaneo; il lavoro femminile e infantile, lo sfacelo della famiglia patriarcale per opera del capitalismo, assumono inevitabilmente nella società moderna le forme più spaventevoli, più catastrofiche e repugnanti. E, tuttavia, «la grande industria crea il nuovo fondamento economico per una forma superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle donne, agli adolescenti e ai bambini d’ambo i sessi nei processi di produzione socialmente organizzati al di là della sfera domestica. Naturalmente è altrettanto sciocco ritenere assoluta la forma cristiano‑germanica della famiglia, quanto ritenere assoluta la forma romana antica o la greca antica, oppure quella orientale, che del resto formano fra di loro una serie storica progressiva. È altrettanto evidente che la composizione del personale operaio combinato con individui d’ambo i sessi e delle età più differenti, benché nella sua forma spontanea e brutale, cioè capitalistica, dove l’operaio esiste in funzione del processo di produzione e non il processo di produzione per l’operaio, che è pestifera fonte di corruzione e schiavitù, non potrà viceversa non rovesciarsi, in circostanze corrispondenti, in fonte di sviluppo di qualità umane» (Il Capitale, vol. I, fine del 13° capitolo). Il sistema di fabbrica ci mostra «il germe dell’educazione dell’avvenire, che collegherà, per tutti i bambini oltre una certa età, il lavoro produttivo con l’istruzione e la ginnastica, non solo come metodo per aumentare la produzione sociale, ma anche come unico metodo per produrre uomini di pieno e armonico sviluppo» (ivi). Sullo stesso terreno storico non soltanto per spiegare il passato, ma per prevedere arditamente il futuro e per condurre una audace azione pratica diretta a realizzarlo, il socialismo di Marx pone pure i problemi della nazionalità e dello Stato. Le nazioni sono un inevitabile prodotto e una forma inevitabile dell’epoca borghese dello sviluppo sociale. La classe operaia stessa non poteva irrobustirsi, maturarsi, costituirsi, senza «costituirsi in nazione», senza essere «nazionale» («benché non nel senso della borghesia»). Ma lo sviluppo del capitalismo abbatte sempre più le barriere nazionali, sopprime il particolarismo nazionale, e, in luogo degli antagonismi nazionali, pone quelli di classe. È perciò assolutamente vero che, nei paesi capitalistici sviluppati, «gli operai non hanno patria», e che «l’azione unita» degli operai, almeno nei paesi civili, è «una delle prime condizioni dell’emancipazione del proletariato» (Manifesto comunista). Lo Stato, che è violenza organizzata, è sorto come fatto inevitabile a un certo grado di sviluppo della società, allorché questa si divise in classi irreconciliabili e non avrebbe potuto continuare a esistere senza un «potere» che avesse l’apparenza di essere al di sopra della società, e fino a un certo punto acquistasse una personalità indipendente da essa. Sorto dalle contraddizioni di classe, lo Stato diviene «lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato di possessori di schiavi al fine di mantener sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l’organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale» (Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, in cui sono esposte le opinioni sue e di Marx). Persino la forma più libera e progressiva dello Stato borghese, la repubblica democratica, non elimina affatto questa realtà, ma ne cambia soltanto la forma (legame dello Stato con la borsa, corruzione diretta e indiretta dei funzionari statali e della stampa, e così via). Il socialismo, conducendo alla scomparsa delle classi, conduce, per ciò stesso, alla scomparsa dello Stato. «Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l’ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L’intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superflua successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene “abolito”: esso si estingue» (Engels, Antidühring). «La società che riorganizza la produzione in base a una libera ed eguale associazione di produttori, relega l’intera macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo (Engels, Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato).
Infine, circa il problema della posizione del socialismo di Marx verso i piccoli contadini che ancora esisteranno all’epoca dell’espropriazione degli espropriatori, è necessario rammentare una dichiarazione di Engels, che esprime il pensiero di Marx: «Allorché ci impadroniremo del potere statale, non penseremo ad espropriare violentemente (non importa se con o senza indennizzo) i piccoli contadini, ciò che saremo invece obbligati a fare con í grandi proprietari di terre. Il nostro compito nei confronti dei piccoli contadini consisterà prima di tutto nel fare sì che la loro proprietà e produzione privata si trasformino in proprietà e produzione associata; non con mezzi violenti, ma con l’esempio e con l’offerta dell’aiuto sociale a tale scopo. E allora naturalmente possederemo i mezzi sufficienti per mostrare al contadino tutti i vantaggi di tale trasformazione, vantaggi che debbono essergli illustrati fin d’ora» (Engels, La questione contadina in Francia e in Germania, ed. Alexeieva, p. 17; la traduzione russa contiene errori, cfr. l’originale in Neue Zeit).
LA TATTICA DELLA LOTTA DI CLASSE DEL PROLETARIATO
Messo in luce fin dal 1844‑1845 uno dei difetti fondamentali del vecchio materialismo, quello cioè di non essere riuscito a comprendere le condizioni né ad apprezzare l’importanza dell’azione pratica rivoluzionaria, Marx parallelamente ai lavori teorici, prestò durante tutta la sua vita una assidua attenzione ai problemi della tattica della lotta di classe del proletariato. Tutte le opere di Marx e specialmente il carteggio fra lui ed Engels, pubblicato nel 1913 in quattro volumi, forniscono un materiale immenso a questo riguardo. Questo materiale è ancora ben lungi dall’essere interamente raccolto, coordinato, studiato ed elaborato. Perciò dobbiamo qui limitarci ad alcuni rilievi molto generali e concisi, facendo notare che il materialismo privo di questo lato era giustamente considerato da Marx come monco, unilaterale, privo di vita. Marx determinò il compito fondamentale della tattica del proletariato in rigoroso accordo con tutte le premesse della sua concezione materialistica dialettica del mondo. Soltanto la valutazione oggettiva di tutto l’insieme dei rapporti reciproci di tutte le classi di una data società, senza eccezione, e, per conseguenza, anche la considerazione del grado di sviluppo oggettivo di quella società e dei rapporti reciproci fra essa ed altre società, possono servire di base a una giusta tattica della classe d’avanguardia. Inoltre tutte le classi, e tutti i paesi devono essere considerati non in una situazione statica, ma dinamica, ossia non in stato di immobilità, ma in movimento (movimento le cui leggi derivano dalle condizioni economiche d’esistenza di ogni classe). A sua volta il movimento non deve essere considerato solo dal punto di vista del passato, ma anche da quello dell’avvenire, e non secondo il volgare intendimento degli «evoluzionisti», che scorgono soltanto le trasformazioni lente, ma dialetticamente: «Venti anni contano un giorno nei grandi sviluppi storici – scriveva Marx ad Engels – ma vi possono essere giorni che concentrano in sé venti anni» (Carteggio, vol. III, p. 127). Ad ogni grado di sviluppo e in ogni momento, la tattica del proletariato deve tener conto di questa inevitabile dialettica oggettiva della storia del genere umano: da un lato, utilizzando ai fini dello sviluppo della coscienza, delle forze e delle capacità di lotta della classe d’avanguardia le epoche di stagnazione politica o di lento sviluppo, di sviluppo cosiddetto «pacifico»; e, dall’altro lato, orientando tutto questo lavoro nella direzione dello «scopo finale» del movimento di tale classe, e suscitando in essa la capacità di risolvere praticamente i grandi problemi nelle giornate culminanti che «concentrano in sé venti anni». A tale proposito hanno speciale importanza due giudizi di Marx, uno espresso nella Miseria della filosofia riguardante la lotta economica e le organizzazioni economiche del proletariato, e l’altro nel Manifesto comunista e riguardante i suoi compiti politici. Il primo dice: «La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone, sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide quanto all’interesse. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, le unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione … Le coalizioni, dapprima isolate; si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell’associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario … In questa lotta – vera guerra civile – si riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi necessari a una battaglia che si prospetta nell’immediato futuro. Una volta giunta a questo punto, l’associazione acquista un carattere politico». In queste parole vengono esposti il programma e la tattica delle lotte economiche e del movimento sindacale per alcuni decenni, per tutto il lungo periodo di preparazione delle forze del proletariato «per la futura battaglia». A questo giudizio bisogna ravvicinare le numerose indicazioni che Marx ed Engels traggono dall’esempio del movimento operaio inglese, mostrando come la «prosperità» industriale determina i tentativi di «comprare gli operai» (Carteggio con Engels, I, 136) e di allontanarli dalla lotta; come questa prosperità, in generale, «demoralizza gli operai» (II, 218); come il proletariato inglese «s’imborghesisce» e come «la più borghese di tutte le nazioni» (l’inglese) «vuole, a quanto pare, condurre le cose in modo da avere, al lato della borghesia, un’aristocrazia borghese e un proletariato pure borghese» (II, 290); come nel proletariato scompare l’«energia rivoluzionaria» (III, 124), come occorre attendere per un tempo più o meno lungo «la liberazione degli operai inglesi dalla loro apparente corruzione borghese» (III, 127), come manca al movimento operaio inglese «l’ardore dei cartisti» (1866; III, 30), come i capi operai inglesi si formano secondo un tipo intermedio «fra il borghese radicale e l’operaio» (a proposito di Holyoake; IV, 209); come a causa del monopolio dell’Inghilterra e finché tale monopolio esisterà, «con gli operai inglesi non ci sarà niente da fare» (IV, 433). La tattica della lotta economica in rapporto con lo sviluppo generale (e con l’esito) del movimento operaio, è considerata qui in modo mirabilmente vasto, universale, dialettico, veramente rivoluzionario.
Circa la tattica della lotta politica, il Manifesto comunista enunciò in questo modo il principio fondamentale del marxismo: «i comunisti lottano per raggiungere gli scopi e gli interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l’avvenire del movimento stesso». In nome di questo principio, Marx nel 1848 appoggiò in Polonia il partito della «Rivoluzione agraria», «quello stesso partito che suscitò l’insurrezione di Cracovia nel 1846». In Germania, nel 1848–1849, Marx appoggiò la democrazia rivoluzionaria estrema, e in seguito non ritirò mai quel che aveva detto allora sulla tattica. Egli considerava la borghesia tedesca come un elemento «incline, fin dall’inizio, a tradire il popolo» (soltanto l’unione con i contadini avrebbe permesso alla borghesia di raggiungere pienamente i suoi obiettivi) «e a stringere un compromesso con i rappresentanti coronati dell’antica società». Ecco l’analisi conclusiva data da Marx della posizione di classe della borghesia tedesca all’epoca della rivoluzione democratica borghese: analisi che è, fra l’altro, un esempio di materialismo, perché considera la società in movimento e, per di più, non soltanto in quell’aspetto del movimento che è rivolto al passato … «senza fede in se stessa, senza fede nel popolo, brontolona contro chi sta in alto, tremante davanti a chi sta in basso … intimorita dalla tempesta mondiale; in nessuna direzione energica, in tutte le direzioni pronta al plagio … senza iniziativa … una vecchia maledetta, condannata a dirigere per il suo interesse senile i primi slanci di gioventù d’un popolo robusto e sano …» (Neue Rheinische Zeitung, 1848; cfr. Eredità letteraria, vol. III, p. 212). Circa venti anni dopo, in una lettera a Engels (III, 224), Marx scriveva che la causa dell’insuccesso della rivoluzione del 1848 consistette nel fatto che la borghesia aveva preferito la pace in schiavitù alla semplice prospettiva di una lotta per la libertà. Quando terminò il periodo delle rivoluzioni del 1848‑1849, Marx insorse contro ogni tentativo di giocare con la rivoluzione (Schapper, Willich e la lotta contro di essi), esigendo che si sapesse lavorare nel nuovo periodo, in cui si preparavano, in modo apparentemente «pacifico», nuove rivoluzioni. Il seguente apprezzamento di Marx sulla situazione in Germania nel 1856, nel più fosco periodo della reazione, mostra come egli intendeva che fosse condotto tale lavoro: «In Germania tutto dipenderà dalla possibilità di appoggiare la rivoluzione proletaria con una specie di seconda edizione della guerra dei contadini» (Carteggio con Engels, vol. II, p. 108). Fino a quando la rivoluzione democratica (borghese) in Germania non era giunta a compimento, Marx, per quanto riguardava la tattica del proletariato socialista, rivolse tutta la sua attenzione allo sviluppo dell’energia democratica dei contadini. Egli considerava che l’atteggiamento di Lassalle era, «oggettivamente, un tradimento di tutto il movimento operaio a favore dei prussiani » (III, 210); tra l’altro, proprio perché Lassalle si mostrava troppo conciliante coi grandi proprietari fondiari e col nazionalismo prussiano. «È vile – scriveva Engels nel 1865, in uno scambio di vedute con Marx per la preparazione di una dichiarazione comune, destinata alla stampa – in un paese prevalentemente agricolo aggredire, in nome del proletariato industriale, la sola borghesia, senza ricordare neppure con una parola il patriarcale sfruttamento a bastonate del proletariato agricolo per opera della grande nobiltà feudale» (III, 217). Nel 1864‑1870, quando l’epoca del compimento della rivoluzione democratica borghese in Germania, l’epoca della lotta delle classi sfruttatrici della Prussia e dell’Austria per compiere in un modo o, nell’altro questa rivoluzione dall’alto, giungeva alla fine, Marx non soltanto rimproverava Lassalle di civettare con Bismarck, ma correggeva anche Liebknecht, il quale cadeva nell’«austrofilia» e nella difesa del particolarismo. Egli esigeva una tattica rivoluzionaria che lottasse con uguale implacabilità contro Bismarck e contro gli austrofili, una tattica non di sottomissione al «vincitore», al grande proprietario fondiario prussiano, ma volta alla ripresa immediata della lotta rivoluzionaria contro di esso e sul terreno creato dalle vittorie militari prussiane. (Carteggio con Engels, III, 134, 136, 147, 179, 204, 210, 215, 418, 437, 440–441.) Nel famoso indirizzo dell’Internazionale del 9 settembre 1870 Marx mise in guardia il proletariato francese contro un’insurrezione intempestiva; ma quando tuttavia essa avvenne (1871) egli salutò con entusiasmo l’iniziativa rivoluzionaria delle masse «che danno l’assalto al cielo» (lettera di Marx a Kugelmann). La sconfitta dell’azione rivoluzionaria, in questa come in molte altre situazioni, era, secondo il materialismo dialettico di Marx, minor male, per l’andamento generale e per l’esito della lotta proletaria, che l’abbandono di una posizione conquistata e la resa senza lotta, perché una tale capitolazione avrebbe demoralizzato il proletariato e diminuita la sua capacità di combattere. Apprezzando appieno l’uso dei mezzi legali di lotta durante i periodi di stasi politica e di dominio della legalità borghese, Marx nel 1877–1878, dopo la proclamazione delle leggi eccezionali contro i socialisti, condannò aspramente «le frasi rivoluzionarie» di Most; ma non meno, se non più aspramente, condannò l’opportunismo allora temporaneamente dominante nel partito socialdemocratico ufficiale, che non mostrò subito, coraggiosamente, rigidamente, lo spirito rivoluzionario e la volontà di passare alla lotta illegale in risposta alle leggi eccezionali (Carteggio di Marx ed Engels, IV, 397, 404, 418, 422, 424. Si vedano anche le lettere a Sorge).