Il movimento francese dei “Gilet gialli” ha assunto una dimensione che solo pochi giorni fa era inimmaginabile. Partito dalle regioni periferiche della Francia sulla base di rivendicazioni minimali, legate all’aumento del prezzo dei carburanti, si è presto trasformato in una generalizzata protesta contro il carovita, connotata da una più ampia dinamica antigovernativa: la parola d’ordine delle dimissioni di Macron e del suo governo, sempre più convintamente visti come l’espressione delle classi dominanti, risuona ormai in tutte le manifestazioni che quotidianamente percorrono le strade dell’intero Paese, incuranti della violenta repressione poliziesca. Anzi, il livello di scontro viene alzato sempre di più, come dimostrano le migliaia di foto e video che circolano su internet.
Ma il movimento non è più lo stesso di quando è nato. Non sono più solo settori di piccolissima borghesia declassata o in via di proletarizzazione ad esserne la colonna vertebrale. Oggi è diventato un movimento popolare in senso ampio, che include anche settori di lavoratori, benché il movimento operaio organizzato non sia ancora presente nel suo insieme. È indubbio, tuttavia, che il programma complessivo che sta emergendo dalla lotta stia embrionalmente assumendo connotazioni antisistema, se non per ora compiutamente anticapitaliste.
Intanto, i sondaggi rivelano che la grande maggioranza dei francesi è d’accordo con la protesta, un’altra quota significativa non le è affatto ostile, e solo una piccola minoranza degli intervistati – evidentemente rappresentanti delle élite e delle classi medio‑alte della borghesia – è contraria.
Come sempre, i grandi avvenimenti della lotta di classe costituiscono uno spartiacque e mettono alla prova la sinistra che si trova a dover dare una risposta a quegli eventi. Per quanto ci riguarda, le analisi delle organizzazioni della sinistra italiana non sono state univoche: a fronte di quelle che ritengono correttamente necessario un intervento organizzato nel processo del movimento operaio con i suoi metodi e le sue parole d’ordine, ci sono piccole realtà che diffidano dell’interclassismo che connota i “Gilet gialli”, giungendo per questo fino a paragonarli – del tutto infondatamente – con i “Forconi” italiani del 2012. Ancora: mentre alcune organizzazioni riformiste, come Potere al popolo, non avanzano nessuna lettura di classe, ponendosi alla coda del movimento, altre ancora brillano per l’assenza di qualsiasi analisi.
Già su questo sito abbiamo pubblicato un primo articolo per fare luce sul movimento nelle sue fasi iniziali. Oggi presentiamo invece, ringraziando l’autore per la cortese collaborazione, una interessante riflessione del compagno Mario Gangarossa, che involve importanti aspetti teorici e che fornisce gli strumenti perché l’intervento fra i “Gilet gialli” sia corretto in un’ottica e una prospettiva rivoluzionaria.
Buona lettura.
La redazione
“Gilet gialli”: quali prospettive per il movimento?
Le responsabilità della classe operaia per uno sbocco rivoluzionario
Mario Gangarossa
Immaginare la rivoluzione come uno scontro ordinato tra le falangi organizzate del proletariato e le forze della repressione al servizio della borghesia è quanto di più lontano dalla realtà si possa concepire. Non esistono processi lineari che hanno come ineluttabile sbocco, previsto e desiderato, la palingenesi sociale. Infiniti sono i bivi, le scelte da fare, le decisioni da prendere, e sono scelte che masse di milioni di donne e di uomini fanno spinti dalla necessità, qualche volta perfino dal caso, quasi sempre incoscienti del risultato che la loro azione produrrà. I “teorici” (al netto della loro capacità di discernere fra scienza e falsa coscienza) sono un passo avanti rispetto al movimento reale perché hanno fatto tesoro della prassi, delle esperienze, della storia del passato, ma rischiano l’impotenza e l’irrilevanza se non riescono ad agganciarsi alla viva esperienza quotidiana, a interagire con la pratica dell’oggi, a fare i conti “con quello che passa il convento”.
Non c’è possibilità che, in una società basata sull’egemonia economica politica e culturale della borghesia, la classe antagonista possa acquisire (nella sua maggioranza) la coscienza del ruolo e dei compiti che la storia, la scienza e la consapevolezza dei comunisti impongono. Le idee dominanti rimangono le idee della classe dominante. E dentro il quadro delle esperienze possibili, all’interno dei rapporti sociali borghesi, il massimo che si può raggiungere è una coscienza “sindacale” rivendicativa, tradunionista, riformista, sia pure in una forma ribellista e perfino violenta. E i gruppi e i partiti che nascono su questo terreno, e che ne assumono la direzione, non possono che essere marchiati dagli stessi limiti e dagli stessi errori. Non è una questione legata agli opportunismi individuali e ai “tradimenti” che non sono le cause ma gli effetti della materialità dello scontro sociale che – in questa fase – è limitato, distorto verso obiettivi parziali o spesso mistificanti, lasciato alla spontaneità prodotta delle singole e parziali esperienze individuali.
Discutere se un movimento è “rivoluzionario”, o se è “più o meno rivoluzionario” di un altro, significa solo non aver capito (o non riconoscere) che il carattere, la coscienza, l’ossatura ideologica che danno sostanza a ogni rivolta sociale sono rappresentati da un’avanguardia cosciente e organizzata capace di guidare quel movimento oltre, e perfino contro, i limiti intrinseci che sono connaturati alle lotte e alle ribellioni popolari.
Le rivolte spontanee sono il segno che le contraddizioni esistono e non sono sanabili all’interno del sistema economico e politico esistente, sono un effetto della crisi, la risposta immediata a una situazione di disagio. Ma quando parliamo di spontaneità dobbiamo sempre avere chiaro che, chi spontaneamente si ribella, ha le radici ben piantate all’interno della sua specifica classe, si porta dietro per intero tutta la propria storia personale e la storia collettiva della sua parte sociale, l’esperienza di anni in cui ha vissuto (spesso bene) il suo ruolo dentro il meccanismo economico che governa la vita di ognuno di noi: vittima degli stessi errori e delle stesse illusioni che attraversano, come una corrente diffusa, tutti gli attori della rappresentazione che all’interno dello scontro fra il capitale e il lavoro vede il continuo cozzare di molteplici interessi contrapposti.
La storia delle rivoluzioni passate (e delle rivolte e delle ribellioni che non hanno avuto l’onore di assurgere, nel giudizio postumo, a moti rivoluzionari) è storia di confusione, di disordine, di sconfitte e di vittorie parziali e spesso provvisorie. I partiti che rappresentano le classi e i ceti in lotta, da piccoli gruppi compatti, crescono e diventano direzione politica rivoluzionaria non prima di una fatidica ora suprema ma nel corso della lotta. Una lotta in cui chi vi partecipa non ha mai “a priori” certezza e garanzia di successo.
Dopo … quando un nuovo ordine nasce dalle ceneri delle giornate che sconvolgono il naturale corso della storia, solo dopo, arrivano le “pagelle” e si comprende davvero chi e cosa ha vinto, chi ha perso, chi pur avendo perso ha rafforzato le sue posizioni e conquistato una maggiore consapevolezza e chi invece, pur avendo vinto, ha occupato delle casematte ormai abbandonate e ininfluenti rispetto ai reali interessi del nemico.
Negli anni in cui nell’occidente capitalistico lo sviluppo post‑guerra permetteva il pacifico avanzare delle classi subordinate, le grandi organizzazioni socialdemocratiche (in tutte le loro declinazioni) rappresentavano un punto di aggregazione e di riferimento per chi sentiva il bisogno di lottare, la coscienza spontanea coincideva con la direzione politica riformista. I partiti di massa e le organizzazioni sindacali erano lo strumento per quelle conquiste parziali che davano il senso di un continuo e inarrestabile sviluppo pacifico, ma nello stesso tempo anche una valvola capace di attenuare le tensioni più distruttive, un freno alle pulsioni rivoluzionarie, un argine al “terrorismo” e alla ribellione.
I “rivoluzionari” facevano entrismo nei partiti di sinistra e lavoravano dentro i sindacati “reazionari”, nell’illusione che bastasse cambiare la direzione politica di un movimento, già di per sé organizzato sul terreno della cosciente ricerca del compromesso sociale, per cambiarne il segno e trasformarlo in una forza capace di rompere gli equilibri che pazientemente il capitale aveva costruito in anni di indiscussa e incontrastata egemonia.
Le classi intermedie erano attratte dalla forza della sinistra anche perché era una sinistra “alleata e amica”, che ne riconosceva il ruolo e ne garantiva il benessere. I conflitti erano ecumenicamente ricomposti e trasformati in innocui scontri parlamentari. Quando il meccanismo del consenso si rompeva, le armate operaie organizzate dal riformismo scendevano in piazza a milioni per riaffermare il patto fra le classi e la coesistenza pacifica garantita dalla democrazia.
Il crollo del riformismo avvenuto non perché sconfitto dalla critica dei rivoluzionari ma per sua intrinseca debolezza, la fine della società del “benessere” diffuso che aveva accompagnato gli anni della cogestione democratica, il crollo dell’illusione di poter cogestire il capitale senza mettere in discussione la sua proprietà, non hanno portato a una maggiore coscienza e consapevolezza. Berlinguer è stato sostituito da Bertinotti. I “rivoluzionari” non hanno trovato di meglio che vagheggiare un ritorno a quel passato “eroico” in cui, dentro il mare magnum di una “sinistra” responsabile e garante dello status quo, avrebbero potuto continuare a nuotare inneggiando alle rivoluzioni passate e future e soprattutto a quelle lontane dal proprio orticello.
Ma il crollo di un’egemonia politica, sia pure un’egemonia che andava nel senso contrario alla direzione da noi prospettata, non crea il vuoto della lavagna pulita su cui è possibile scrivere solo soluzioni corrette a prova delle bacchettate della maestra. Il vuoto politico lascia una prateria aperta alle scorrerie di qualsiasi ceto sociale in sofferenza che cerca risposte e che trova sempre nuovi “capitani” disposti a cavalcarne le aspirazioni. E lascia spazio alle rivolte spontanee che per la loro natura eterogenea e interclassista possono servire ad acuire la crisi del capitale o, paradossalmente, a rafforzarla.
Noi non sappiamo e non possiamo sapere come finirà. La teoria ci indica l’obiettivo e la direzione, ma il percorso da seguire, le innumerevoli curve e i vicoli ciechi che possiamo imboccare dobbiamo scoprirli nel corso della nostra pratica politica.
Ma anche su questo dobbiamo provare a essere chiari prima di tutto con noi stessi e col ruolo che immaginiamo di poter assolvere. Pratica politica non significa mettersi alla testa (spesso alla coda) delle rivolte degli strati sociali in decomposizione destinati a scomparire sia pure tra furiosi sussulti. Non significa agitare le loro stesse parole d’ordine, immaginare che la direzione di un movimento sia decisa solo ed esclusivamente dalla determinazione dei capi e non dalla reale natura sociale dei combattenti.
La questione della direzione (e degli obiettivi futuri) delle rivolte e delle ribellioni che esplodono a un ritmo ormai crescente nell’occidente un tempo privilegiato non è una questione che possa risolvere un gruppo, sia pure di “sinistra”, che prova a portare dall’esterno una coscienza che fa a pugni con la sensibilità e la coscienza spontanea dei rivoltosi. È una questione che investe il ruolo delle classi e la loro capacità di egemonizzarsi a vicenda. Capisco che ciò rende tutto più complesso e difficile, ma la questione non sta nella mobilitazione delle classi intermedie o dei settori più disgregati (e per questo più combattivi) quanto nella capacità di mobilitazione del proletariato, nella sua possibilità di diventare punto di attrazione e di aggregazione per tutti coloro che sentono questa società ingiusta. Se vogliamo dirla con parole più chiare, la questione, per i comunisti, non sta nel dirigere le rivolte popolari ma nell’influenzare e dirigere il proletariato, che è l’unica classe capace di trasformare una o cento rivolte in rivoluzione.
La piccola borghesia, che forma l’ossatura delle classi intermedie, è in fermento, ma, per sua natura, non lotta per cambiare i rapporti fra le classi, non combatte per abbattere il sistema basato sullo sfruttamento. Lotta per continuare a trarre la sua “libbra di carne” dal plusvalore prodotto nella società.
Da classe cuscinetto, da sempre barriera nello scontro fra il capitale e il lavoro, rivendica il “giusto prezzo” per il suo ruolo in un momento in cui il capitale pensa di potere fare a meno dei suoi servizi o non ha le risorse per garantirsene la fiducia.
La “rivoluzione” piccolo-borghese non guarda al futuro, ma al passato. Non pone la questione della fine dello sfruttamento, ma quella della redistribuzione più “onesta” dei frutti di quello sfruttamento. La presa di coscienza del ruolo di proletari a cui questi strati sociali sono destinati può avvenire solo in presenza di una ritrovata attività politica autonoma della classe operaia. La piccola borghesia può diventare rivoluzionaria solo alla coda della rivoluzione proletaria. E oggi lo spostamento sul terreno della lotta di classe di strati sempre più ampi di operai è l’unica cosa che possa garantire la trasformazione in riserve della rivoluzione dei “rivoltosi” che la società in crisi produce.
La questione non è cosa faranno e cosa diventeranno i gilet gialli. La questione è cosa farà la classe operaia. Come si muoveranno i proletari. Come i comunisti riusciranno a influenzarne le scelte. Ed è una questione vitale per il lavoro in lotta contro il capitale, vitale anche rispetto ai suoi interessi immediati, perché la strada di una rinnovata alleanza fra la borghesia e i ceti che la crisi disgrega non è una possibilità remota e il rientro dei conflitti sulla base di soluzioni antioperaie non è mai da escludersi a priori. Così come non è da escludersi una redistribuzione della ricchezza atta a riacquistare il consenso perduto, prospettata o praticata, a spese non del profitto ma degli operai attivi, degli operai pensionati, della nuova classe operaia fatta di precari e di immigrati ricattati che finirebbero per pagare i costi che il ritorno al “normale” funzionamento del sistema capitalistico (comprese le spese necessarie a garantire la “sicurezza” della proprietà) comportano.
Il proletariato non può starsene alla finestra e delegare ad altri l’onere delle proprie battaglie. Rischia di perdere l’onore e sostenere i costi delle “soluzioni” delle contraddizioni interne al fronte borghese.