La potente avanzata della destra e di forze politiche reazionarie a livello mondiale ha trovato un’ulteriore conferma nella recente elezione di Jair Bolsonaro a presidente del Brasile. Soprattutto in ragione delle evidenti simpatie fasciste di quest’ultimo, si è aperto il dibattito sul riemergere del fascismo: un dibattito molto spesso eclettico, fondato sull’empirismo e sull’impressionismo, e privo dei fondamenti teorici che dovrebbero invece guidarlo.
Per questa ragione, intendiamo contribuire alla discussione: innanzitutto cercando di fissare dei “paletti” teorici con cui delimitare il campo, per poi, solo in un secondo momento, passare a un esame particolareggiato degli eventi a cui assistiamo mettendoli alla prova sulla base degli elementi che la teoria ci avrà fornito.
Iniziamo allora presentando in italiano una serie di articoli che lo storico brasiliano Gilberto Calil ha scritto partendo dalle analisi che Gramsci avanzò, descrivendo, dalla posizione privilegiata che all’epoca occupava, il sorgere e lo svilupparsi del fascismo italiano.
Il primo di questi testi riguarda la politica di pacificazione dei socialisti nei confronti del nascente fenomeno fascista. Proseguiremo nei prossimi giorni con gli altri saggi della serie “Gramsci e il fascismo”.
Buona lettura.
La redazione
Gramsci e il fascismo
Il fallimento della politica di pacificazione dei socialisti
Gilberto Calil [*]
Tra il 1921 e il 1922, Antonio Gramsci scrisse una serie di articoli in cui analizzava l’ascesa del fascismo e l’inefficacia delle strategie utilizzate dall’organizzazione maggioritaria della sinistra italiana per combatterlo. Parte di questi articoli è riunita nel secondo volume della collettanea Scritti politici, pubblicata dalla casa editrice Civilização Brasileira, sotto il titolo “Socialismo e fascismo”[1]. Come Trotsky avrebbe ricordato dieci anni più tardi, Gramsci era l’unico dirigente del Pcd’I che aveva intravisto la possibilità di una dittatura fascista. La riflessione di Gramsci è estremamente ricca e importante per capire contesti e congiunture differenti, quantunque con le necessarie cautele e con la necessità di evitare qualsiasi meccanica trasposizione.
Il contesto in cui quegli articoli furono scritti è di un progressivo avanzamento del fascismo, sia in termini elettorali che – soprattutto – di azioni violente perpetrate dalle milizie fasciste contro le organizzazioni operaie e contadine. Gramsci parla dalla prospettiva di un Partito comunista da poco costituito (il Pcd’I nacque nel gennaio del 1921, a partire da una scissione del Partito socialista) e che era sistematicamente accusato di “divisionismo” dai dirigenti del Psi, che restava numericamente maggioritario nella sinistra italiana.
Benché non cessasse di riconoscere la complicità dello Stato borghese, e specialmente della magistratura, interamente compiacente verso i crimini fascisti, Gramsci riteneva che la sinistra riformista, articolata nel Partito socialista, aveva avuto un’enorme responsabilità nella creazione delle condizioni favorevoli all’ascesa fascista. Il Partito socialista sabotò le occupazioni delle fabbriche a Torino durante il Biennio rosso (1919‑1920), criticando il “radicalismo” della classe operaia che si organizzava per la rivoluzione sociale e puntando sistematicamente su una politica di conciliazione con settori della classe dominante e con gli stessi fascisti, con drammatiche conseguenze.
La politica di pacificazione dei socialisti raggiunse il suo apice con la firma del Patto di Roma del 3 agosto 1921, attraverso cui socialisti e fascisti decisero «l’immediata cessazione di “minacce, vie di fatto, rappresaglie, punizioni, vendette, pressioni e violenze personali” tra i militanti socialisti e fascisti, così come il reciproco rispetto dei simboli dei due partiti»[2]. Gramsci attaccò violentemente quest’accordo e ironizzò sulla suicida fiducia dei socialisti, qualificando il patto come un «orientamento cieco e politicamente disastroso»[3].
Anche gli accordi con settori della classe dominante considerati “democratici”, al prezzo della rinuncia alla prospettiva rivoluzionaria e all’autonomia politica e organizzativa dei lavoratori, erano intesi come una strategia suicida. Segnalando che i dirigenti politici e sindacali del socialismo «sfruttano l’occasione per concludere che è necessario collaborare con “le forze non rigidamente rivoluzionarie e classiste che sono contrarie al colpo di stato”», Gramsci contrappose le esperienze tedesca e ungherese. Nella Germania del marzo del 1920, «i “collaboratori non rigidamente rivoluzionari”, che non avevano per nulla contribuito alla resistenza, si opposero alla continuazione del movimento insurrezionale», imponendo un arretramento che rese possibile che «le forze reazionarie non fossero represse, che potessero arretrare ordinatamente, disperdersi secondo un piano prestabilito e riprendere il lavoro di armamento, di reclutamento, di organizzazione, che oggi dà a Kapp e Lüttwitz una maggior probabilità di successo»[4]. La conclusione chiara è che la politica di pacificazione è direttamente responsabile di aver permesso la sussistenza e il rafforzamento della minaccia.
L’esperienza dell’Ungheria, che vide nel 1919 la Repubblica socialista ungherese cadere ad opera di un’ampia coalizione di destra, è ugualmente menzionata da Gramsci come espressione della miseria della politica di pacificazione dei riformisti: «L’esperienza ungherese ci offre una lezione: per sconfiggere i comunisti, i reazionari dapprima blandiscono i socialisti, assumono con loro impegni, concludono accordi di pacificazione; poi, una volta sconfitti i comunisti, gli impegni e gli accordi vengono ignorati, e anche i socialisti sperimentano la forca e la fucilazione». Sicché, le indecisioni, l’inettitudine e l’incapacità dei dirigenti socialisti nel comprendere le situazioni politiche aggraverebbe «il rischio [per l’Italia] di essere sprofondata in un caos di barbarie senza precedenti nella storia del nostro Paese»[5].
La riflessione di Gramsci durante questo biennio è segnata dall’angoscia di chi vedeva svilupparsi la trama di una tragedia annunciata, non potendo impedirla a dispetto della sua intensa militanza, data l’insufficienza degli strumenti sui quali poteva fare affidamento l’organizzazione comunista per impedire l’ascesa fascista e sbarrare la strada alla barbarie che da essi sarebbe stata perpetuata. Nel marzo del 1921, frustrato dalla riaffermazione di vuoti propositi burocratici nel congresso della principale organizzazione sindacale italiana, registrava: «È aumentato il nostro pessimismo, ma è sempre vivo e attuale il nostro motto: pessimismo della ragione, ottimismo della volontà»[6].
La tragedia storica che ne scaturì conferma che la sua ragione pessimista aveva compreso il processo in corso. La sua lezione resta imprescindibile al giorno d’oggi.
[*] Gilberto Calil è Dottore di ricerca in Storia all’Università Federale Fluminense (Uff) ed è docente del corso di Storia e del Programma di Dottorato in Storia dell’Università Statale del Paranà occidentale (UniOeste). È componente del Gruppo di ricerca Storia e Potere. È autore, tra gli altri libri, di Integralismo ed egemonia borghese (EdUniOeste, 2011) ed effettua ricerche su Stato, Potere, Destra, Egemonia, Dittatura e Fascismo.
(Traduzione di Valerio Torre)
Note
[1] Gramsci, Antonio. Socialismo e Fascismo. In: Escritos Políticos. Volume 2, 1921–1926. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, p. 23–126.
[2] Note al testo. In: Gramsci, op. cit., p. 447.
[3] Gramsci, Antonio. “Os partidos e as massas”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 91.
[4] Gramsci, Antonio. “Golpe de Estado”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 78–79.
[5] Idem, p. 79.
[6] Gramsci, Antonio. “Burocratismo”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 43.