Siamo al terzo appuntamento con la serie “Gramsci e il fascismo”, dello storico Gilberto Calil, che in questo saggio descrive il ruolo della piccola borghesia in relazione all’ascesa del fascismo, e in particolare il suo rapporto con la grande borghesia, evidenziandone soprattutto, riguardo a quest’ultima, la relazione di subordinazione e l’organica incapacità di sviluppare e portare avanti una politica indipendente.
Incidentalmente, non possiamo esimerci dall’osservare come alcune delle citazioni degli scritti di Gramsci, riprese nell’articolo che oggi presentiamo, paiono attagliarsi significativamente alla situazione che l’Italia del 2019 sta vivendo.
Buona lettura.
La redazione
Gramsci e il fascismo
La posizione della piccola borghesia
Gilberto Calil [*]
«L’esperienza storica non vale per i piccoli borghesi
che non conoscono la storia […]
L’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva;
la storia insegna, ma non ha scolari»[1].
Una delle caratteristiche fondamentali del fascismo nelle sue diverse esperienze storiche è il fatto che, quantunque si costituisca come espressione degli interessi del grande capitale (come è abbondantemente dimostrato dalle politiche concrete dei regimi fascisti), la sua ascesa è sospinta fondamentalmente da settori intermedi, e in particolare la piccola borghesia. Questa caratteristica, che si osserva oggi in maniera così nitida nei dati dei sondaggi elettorali (seppure diluiti nei criteri per “fasce di reddito” utilizzati dagli istituti demoscopici), come pure nella formazione di milizie e gruppi di azione violenta, venne riscontrata durante l’ascesa del nazismo da Wilhelm Reich, il quale, esaminando i dati elettorali, dimostrò il sostegno maggioritario della piccola borghesia urbana e rurale al nazismo[2], mentre i lavoratori restavano perlopiù fedeli alla socialdemocrazia e ai comunisti. Allo stesso modo, questo fenomeno non passò inosservato nell’analisi di Gramsci, come vedremo più avanti.
Nella tradizione marxista, il termine “piccola borghesia” non sta a significare una borghesia su scala ridotta, come il nome parrebbe erroneamente suggerire, ma uno strato sociale con caratteristiche particolari che comportano un’insanabile contraddizione: questo vasto strato sociale, che riunisce piccoli commercianti, artigiani e piccoli proprietari rurali, ha in comune con la borghesia il fatto di essere proprietario, e con la classe lavoratrice il fatto di aver bisogno di impiegare il proprio stesso lavoro per poter vivere. Da un lato, questi settori si identificano con la condizione di proprietari, dal momento che hanno il controllo delle risorse produttive dalle quali dipende la loro attività (sia essa un negozio, un ristorante, un’officina o una piccola azienda agricola). Dall’altro, al contrario della grande borghesia, essi possono sopravvivere – al pari dei lavoratori – grazie al loro stesso lavoro (e, nella maggior parte dei casi, anche al lavoro della propria famiglia). La loro piccola attività, quand’anche utilizzi alcuni lavoratori salariati, non si svolge su scala sufficientemente ampia da poter permettere loro di vivere soltanto estraendo plusvalore dal lavoro altrui. Questa contraddittoria condizione determina l’impossibilità di sostenere un progetto di società proprio e autonomo (una società di piccoli proprietari è tanto anacronistica che perfino ideologicamente la sua efficacia è limitatissima), e dunque la loro azione politica si sviluppa necessariamente a rimorchio di una delle classi fondamentali: la borghesia e i lavoratori. Il fascismo è rilevante proprio perché permette storicamente di porre la piccola borghesia al servizio della grande borghesia e, soprattutto, di formare truppe d’assalto in difesa dei propri interessi.
È impressionante l’attualità della definizione gramsciana sul significato del fascismo in un contesto di crisi economica e del ruolo della piccola borghesia al riguardo:
«Cos’è il fascismo, osservato su scala internazionale? È il tentativo di risolvere i problemi di produzione e di scambio con le mitragliatrici e le revolverate. […] Si è creata un’unità e simultaneità di crisi nazionali che rende appunto asprissima e irremovibile la crisi generale. Ma esiste uno strato della popolazione in tutti i Paesi – la piccola e media borghesia – che ritiene di poter risolvere questi problemi giganteschi con le mitragliatrici e le revolverate, e questo strato alimenta il fascismo, dà gli effettivi al fascismo»[3].
Nel gennaio del 1921, Gramsci osservava il fenomeno all’epoca nuovo della realizzazione di grandi manifestazioni di piazza reazionarie, e lo collegava alla “perdita di importanza della piccola borghesia”, che, allontanata «da ogni funzione vitale nel campo della produzione», tentava di reagire a questo processo «cerca[ndo] in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza»[4].
Il riferimento al “popolo delle scimmie”, di cui alla raccolta di novelle Il libro della giungla, di Rudyard Kipling[5], offre a Gramsci lo spunto per un’acida analogia sul senso di superiorità di classe e di brutale incoerenza dei discorsi moralistici della piccola borghesia: come accade per il «popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della giungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc., ecc. Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d’opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza»[6]. Curiosamente, tutta l’aggressività, la violenza e il militarismo della sua azione, che vorrebbero esprimere forza e potenza, in realtà esprimono invece proprio la sua incapacità organica:
«Dopo aver corrotto e rovinato l’istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina anche gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l’esercito, la polizia, la magistratura. Corruzione e rovina condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l’unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il “popolo delle scimmie” è caratterizzato appunto dall’incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato)»[7].
Al contempo, la grande borghesia rinuncia a qualsiasi velleità democratica e aderisce allegramente alla barbarie introdotta dalle truppe d’assalto che il fascismo mette a sua disposizione: «La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei confronti del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del “popolo delle scimmie”, della piccola borghesia»[8].
L’articolo era stato scritto quasi due anni prima della Marcia su Roma, pietra miliare dell’ascesa del fascismo al potere, e perciò è particolarmente interessante osservare quanto Gramsci avesse chiara l’autentica impotenza che caratterizzava la piccola borghesia, crescentemente subordinata soggettivamente ed oggettivamente al grande capitale, a dispetto del tentativo di dissimulare questa subordinazione dietro le pistolettate o i proclami “contro l’ordine costituito”. Il suo bilancio è devastante:
«La piccola borghesia, anche in questa sua ultima incarnazione politica del “fascismo”, si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il Parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre più larga scala, la violenza privata alla “autorità” della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre più larghi strati della popolazione»[9].
Se l’ultima frase esprimeva “l’ottimismo della volontà” di Gramsci rispetto alla possibilità di sconfiggere il fascismo attraverso la realizzazione della rivoluzione socialista, la restante parte della citazione assomiglia terribilmente al processo che stiamo vivendo in Brasile. Fino a poco tempo fa potevamo evidenziare che ancora non appariva evidente la costituzione di una base militante organizzata nella forma di truppa d’assalto e l’aumento della violenza che la caratterizza. Non è più possibile avere la stessa certezza, sicché è urgente riconoscere il fenomeno del fascismo, gli elementi che lo identificano e l’esigenza immediata di affrontarlo.
[*] Gilberto Calil è Dottore di ricerca in Storia all’Università Federale Fluminense (Uff) ed è docente del corso di Storia e del Programma di Dottorato in Storia dell’Università Statale del Paranà occidentale (UniOeste). È componente del Gruppo di ricerca Storia e Potere. È autore, tra gli altri libri, di Integralismo ed egemonia borghese (EdUniOeste, 2011) ed effettua ricerche su Stato, Potere, Destra, Egemonia, Dittatura e Fascismo.
Note
[1] Gramsci, Antonio. “Itália e Espanha”. In: Escritos Políticos. Volume 2, 1921–1926. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, p. 48.
[2] Reich, Wilhelm. Psicologia de massas do fascismo. São Paulo: Martins Fontes, 2001.
[3] Gramsci, “Itália e Espanha”. In: Escritos Políticos, op. cit., pp. 46‑477 (il grassetto è mio).
[4] Gramsci, “O Povo dos Macacos”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 31.
[5] Kipling, Rudyard. O livro da selva: as histórias de Mowgli. São Paulo: Scipione, 2009. L’edizione originale è del 1894.
[6] Gramsci, Antonio. “O Povo dos Macacos”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 31–32.
[7] Idem, p. 32 (il grassetto è mio).
[8] Idem, p. 33.
[9] Idem, p. 34.
(Traduzione di Valerio Torre)