Il 25 aprile 1974 una sollevazione militare in Portogallo rovesciò la dittatura salazarista, aprendo la strada a un processo rivoluzionario che vide una profonda dinamica di protagonismo delle classi lavoratrici che cambiò radicalmente le basi economiche della società portoghese.
Quel processo – che fu l’ultimo sussulto rivoluzionario vissuto dal continente europeo – venne tradito dalla combinata azione della socialdemocrazia, che incarnava gli interessi degli imperialismo statunitense e dei Paesi europei, e dello stalinismo, che, sotto l’egida di Mosca, operò coscientemente perché la rivoluzione anticapitalista non si approfondisse e il Portogallo, riportato entro i limiti di uno Stato borghese liberale, non uscisse dall’orbita della spartizione inaugurata nel dopoguerra a Yalta. Ma non secondaria, in questo contesto, fu la marginalità delle piccole organizzazioni rivoluzionarie, che non riuscirono a guadagnare l’influenza necessaria per dirigere le masse verso l’assalto finale al potere.
Ci racconta tutto quel periodo Valério Arcary nel lungo, ma interessantissimo ed estremamente documentato, saggio che, pubblicato originariamente sulla rivista Outubro (n. 2, 2004) in occasione del trentennale della Rivoluzione dei garofani, presentiamo tradotto in italiano. La sua testimonianza è particolarmente rilevante, perché l’Autore era all’epoca studente universitario a Lisbona e partecipò agli eventi che ci fa rivivere.
Buona lettura.
La redazione
Quando il futuro era ora
25 aprile 1974: l’incontro della Rivoluzione con la Storia
Valério Arcary[*]
«À sombra de uma azinheira,
que já não sabia a idade,
jurei ter por companheira,
Grândola, tua vontade»[1]
(Zeca Afonso, cantore popolare portoghese)
Nel maggio del 1926, un colpo di stato protofascista rovesciò la prima repubblica portoghese e i militari invitarono Antonio de Oliveira Salazar, un professore di Coimbra, ad assumere l’incarico di ministro delle Finanze. Divenne primo ministro nel 1932. Conosciuto anche come “Stato Nuovo”, il regime non appariva un’eccezione negli anni Trenta, quando il capitalismo europeo soffiava sull’esaltazione del nazionalismo e ricorreva su larga scala, anche nei Paesi più sviluppati, ai metodi della controrivoluzione.
La dittatura salazarista sopravvisse tuttavia alla caduta di Hitler e Mussolini, ma la borghesia di questo piccolo Paese, erede di un immenso impero d’oltremare, resisté anche all’ondata di decolonizzazione del dopoguerra e affrontò una guerra di guerriglia in Africa a partire dal 1960. Il fascismo “difensivo” di questo impero sproporzionato e semi‑autarchico sopravvisse a Salazar e restò incredibilmente al potere per quarantotto anni. Le riforme, da tanto attese, non giunsero; e furono le masse popolari, attraverso la rivoluzione, a lanciarsi alla conquista di ciò che le classi possidenti evitarono di fare attraverso delle riforme. È stato detto che le rivoluzioni rinviate sono le più radicali. E quel fascismo obsoleto e decadente finì per aprire il più profondo processo rivoluzionario in Europa dopo la guerra civile spagnola.
Dalla guerra interminabile al Mfa
Nel 1972, quarant’anni dopo l’ascesa di Salazar, il generale Antônio Spínola pubblicò il libro Il Portogallo e il futuro. Fu una pietra miliare, perché per la prima volta una voce del più alto comando delle forze armate – un ex comandante in capo dell’esercito in Guinea‑Bissau – sfidava il principale tabù della dittatura, ammettendo pubblicamente che era impossibile una soluzione militare per la guerra. Spínola sosteneva che il regime dovesse prendere l’iniziativa politica per un progetto di decolonizzazione ispirato sul modello inglese del dopoguerra. Nella sorpresa generale, il governo di Marcelo Caetano autorizzò la pubblicazione del libro, la qual cosa evidenziava che le divisioni all’interno del blocco che sosteneva il regime erano molto più ampie di quanto non apparissero. Il parere favorevole alla pubblicazione del libro venne addirittura dal generale Costa Gomes, che sarebbe succeduto allo stesso Spínola all’incarico di presidente dopo il fallimento dell’autogolpe del 28 settembre 1974:
«L’autore sostiene con logica ferrea una soluzione equilibrata, che possiamo inquadrare a metà strada fra due soluzioni estreme: l’indipendenza pura e semplice, immediata, di tutti i territori d’oltremare, patrocinata dai comunisti e dai socialisti, e l’integrazione in un tutto omogeneo di tutte quelle regioni, proposta dalla destra […] queste soluzioni debbono essere accantonate, la prima perché lesiva degli interessi nazionali e la seconda perché irrealizzabile»[2].
Ciò che allora non si sapeva era che il libro di Spínola era soltanto la punta di un iceberg e che clandestinamente, nei settori degli ufficiali di medio rango, già era in via di formazione il Movimento delle Forze Armate (Mfa). La debolezza del governo di Marcelo Caetano era così grande da portarlo poi a cadere in poche ore, come una mela marcia. Attraverso la porta della rivoluzione antimperialista nelle colonie sarebbe entrata la rivoluzione politica e sociale nella metropoli.
La guerra in Angola, Mozambico e Guinea‑Bissau aveva sprofondato il Portogallo in una crisi cronica. Un Paese di dieci milioni di abitanti, ancora semi‑urbanizzato e notevolmente in ritardo rispetto alla prosperità europea degli anni Sessanta, dissanguato dall’emigrazione delle masse giovanili che fuggivano dal servizio militare e dalla miseria, non poteva continuare a mantenere all’infinito un esercito di decine di migliaia di uomini impegnato in una guerra in Africa.
Il servizio militare obbligatorio durava la bellezza di quattro anni, almeno due dei quali dovevano essere svolti nei territori d’oltremare. Ci furono migliaia di morti, senza contare i feriti e i mutilati. E fu dall’interno di quest’esercito di reclute, che non erano soldati professionali, che sorse uno dei soggetti politici decisivi del processo rivoluzionario: il Mfa. Rispondendo alla radicalizzazione delle classi medie della metropoli, questi settori di ufficiali di medio rango erano stanchi di una guerra senza soluzione militare; e, esauriti dall’ottusità della dittatura, ansiosi di libertà, andavano rompendo con il regime.
«Una ricerca rivelò che i membri del movimento dei Capitani erano, dal punto di vista sociologico, figli della piccola borghesia e delle classi medie (alcuni di classe operaia), nati negli anni Quaranta (e dunque, giovani intorno ai trent’anni). Una maggioranza relativa (39,4%) proveniva da famiglie di impiegati pubblici […] Nel 1974 c’erano 4165 ufficiali in servizio permanente nell’esercito: di questi, 703 parteciparono al colpo di stato (16,9%) … e l’80,8% era composto da capitani e maggiori»[3].
Queste pressioni sociali spiegano anche i limiti politici del Mfa e aiutano a comprendere perché, dopo aver rovesciato Caetano, i suoi membri consegnarono il potere a Spínola.
Lo stesso Otelo de Carvalho[4], che a partire dal 11 marzo sostenne il progetto di trasformare il Mfa in un movimento di liberazione nazionale – la tentazione di sostituzionismo delle masse – a guisa dei movimenti militari nei Paesi periferici come il Perù, fece un bilancio dalla sconcertante franchezza:
«Questo sentimento radicato di subordinazione alla gerarchia, della necessità di un capo che, al di sopra di noi, ci orientasse sulla “buona strada”, ci avrebbe perseguitato fino alla fine, con le funeste conseguenze già note. Questo ostacolo sarebbe risorto più tardi, mostrandosi di difficile soluzione […] Alcuni ufficiali, pur eccellenti, si sentivano nondimeno indifesi fuori della loro limitata sfera professionale e pretendevano di ricorrere alla figura paternalista di chi avesse avuto più decorazioni, uomini d’esperienza che s’intendessero sul serio di politica»[5].
Così come molti capitani erano inclini a riporre fiducia nei generali, una parte dell’estrema sinistra consegnava ai capitani la direzione del processo. Spínola era pomposo, con pose da generale germanofilo e il suo eccentrico monocolo. Dal Mfa sorsero le direzioni di Salgueiro Maia e Dinis de Almeida (due Antonov‑Ovseenko, ma senza istruzione marxista[6]); di Otelo Saraiva de Carvalho […]; di Vasco Gonçalves […]. E fu dalla truppa, naturalmente, che emerse il Bonaparte, il sinistro Ramalho Eanes, l’uomo della ricostruzione dell’ordine.
I garofani rossi di aprile
L’economia portoghese, poco internazionalizzata ma già ragionevolmente industrializzata, si strutturava nella divisione internazionale del lavoro in due “nicchie”, i due pilastri imprenditoriali del regime, lo sfruttamento delle colonie e l’esportazione. Sette grandi gruppi controllavano quasi tutto. Erano ramificati in trecento imprese che avevano l’80% dei servizi bancari, il 50% delle assicurazioni, otto delle dieci più grandi industrie, cinque delle sette maggiori esportatrici. I monopoli dominavano, ma non c’era dinamica di crescita. Il Paese versava, complessivamente, in una fase di stagnazione, mentre l’economia europea viveva il boom del dopoguerra. Il sistema salazarista si sostenne, anche dopo la morte del dittatore, grazie a un implacabile braccio armato – la Polícia Internacional e de Defesa do Estado (Pide)[7] – composto da 20.000 informatori e 80.000 membri della Legione portoghese.
I giorni di Caetano erano agli sgoccioli. Certamente, non c’è un sismografo per le situazioni rivoluzionarie. È molto difficile prevedere come e perché le grandi moltitudini popolari, urbane o rurali, che per decenni hanno accettato con rassegnazione delle tirannidi, poi si mettono in movimento risvegliandosi furiose nell’arena politica in cerca di una soluzione collettiva per le loro rivendicazioni. Sta di fatto che la mattina del 25 aprile, nell’ascoltare per radio la comunicazione della sollevazione militare del Mfa, migliaia di persone scesero nelle strade e si diressero verso il quartiere Baixa di Lisbona accerchiando la caserma della Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr) in Largo do Carmo, dove Marcelo Caetano si era rifugiato, esigendo la presenza di Spínola. Alcune centinaia di membri della Pide che erano lì asserragliati spararono sulla folla facendo quattro morti. Questo fu l’unico atto di resistenza della dittatura.
Ogni rivoluzione ha il suo lato pittoresco. Nelle prime ore della mattina, quando una colonna di militari percorreva la Avenida da Liberdade verso il Terreiro do Paço, le fioraie di Parque Mayer domandarono loro cosa stesse accadendo. Alla risposta dei soldati, che stavano andando a rovesciare la dittatura, spinte da una felicità irrefrenabile, esse offrirono loro dei garofani rossi. E così, inconsapevolmente, battezzarono la rivoluzione col nome di un fiore.
Ricordiamo che una rivoluzione non deve essere confusa con il trionfo di una sollevazione militare, anche quando si tratta di un’insurrezione con appoggio popolare. L’insurrezione è uno dei tempi della rivoluzione. Ciò che è stato straordinario nella Rivoluzione dei garofani non è stato il collasso della dittatura nelle prime ore del 25 aprile – benché esso sia comunque stato spettacolare – ma l’entrata in scena di milioni di persone, in maggioranza lavoratori e giovani, come soggetti del processo rivoluzionario. La Storia è piena di esempi di sollevazioni militari e golpe di palazzo vittoriosi sullo sfondo dell’indifferenza e dell’apatia popolare; così come, al contrario, di autentiche rivoluzioni popolari che sono state sconfitte prima di avere concentrato le forze per l’insurrezione.
Ma, pur trattandosi di esempi differenti, vengono a volte associati. Non è raro che golpe militari o ribellioni di soldati funzionino, storicamente, come un segnale che una tormenta molto più grande stia per arrivare. Le operazioni di palazzo possono “aprire una breccia” verso dove, in seguito, entrerà il vento della rivoluzione che fino ad allora era compresso.
In Portogallo, il processo di rivoluzione politica ruppe gli argini perché, come nella Russia del 1917, l’esercito era stato sconfitto in guerra e la lotta di classe penetrò nelle sue file.
Una rivoluzione politica che trascresce in una rivoluzione sociale
Forse sorprenderà la caratterizzazione di rivoluzione sociale. Il 25 aprile, in sé, fu un’operazione militare trascresciuta in rivoluzione politica che, a sua volta, aprì un processo rivoluzionario. Il contenuto sociale obiettivo del processo fu determinato dai compiti pendenti – fine della guerra coloniale, indipendenza delle colonie, riforma agraria, lavoro per tutti, aumento dei salari, abitazione, accesso all’insegnamento pubblico – che non si riassumevano nel rovesciamento della dittatura.
Una rivoluzione, soprattutto se sconfitta, non può essere analizzata soltanto attraverso i suoi risultati. Spesso questi ultimi ci parlano più della controrivoluzione che non della rivoluzione stessa. C’erano altre possibilità plausibili, altri sviluppi. Bisogna considerare quali erano i soggetti sociali e politici, nonché la dinamica storica della situazione nazionale e internazionale. Trotsky studiò questo movimento nella storia delle rivoluzioni:
«Le diverse fasi del processo rivoluzionario, concretizzate dall’affermarsi di partiti sempre più estremisti, traducono una spinta delle masse verso sinistra che continuamente si rafforza, sinché questo slancio non si infranga contro ostacoli oggettivi. Allora comincia la reazione: disillusione in certi ambienti della classe rivoluzionaria, accentuarsi dell’indifferenza»[8].
La caduta del regime fu l’atto inaugurale di una fase politica di radicalizzazione popolare incomparabilmente più profonda – una situazione rivoluzionaria – in cui vennero costruite le esperienze di auto‑organizzazione, la tendenza storica di ricerca di organismi di democrazia diretta per la lotta, o potere popolare, che costituivano embrioni di doppio potere. Possiamo suddividere il processo in quattro congiunture sempre più radicalizzate verso sinistra:
- dall’aprile 1974 fino al 28 settembre, una situazione rivoluzionaria tipica delle rivoluzioni politiche o democratiche – paragonabili al Febbraio russo[9] – in cui vennero garantite le libertà democratiche, venne assicurata la cessazione delle ostilità in Africa e sconfitto il progetto spinolista di consolidamento di un regime presidenzialista;
- tra il 28 settembre 1974 e l’11 marzo 1975, quando cominciarono le occupazioni delle terre nell’Alentejo e si accentuò il carattere sociale degli scontri, una differenziazione più nitida degli antagonismi di classe, perché l’auto‑organizzazione acquisì la forza politica di un dualismo di poteri, che però permaneva atomizzato;
- tra l’11 marzo e il luglio del 1975, con il riconoscimento delle indipendenze, ad eccezione dell’Angola, la generalizzazione dell’auto‑organizzazione delle masse, la formazione di commissioni di lavoratori in centinaia di imprese e di unità collettive di produzione nei latifondi espropriati, quando si precipitò in una situazione rivoluzionaria, ma sui generis, perché il doppio potere non era unificato, né andava verso la centralizzazione, e i rivoluzionari non avevano conquistato influenza politica di massa;
- infine, la crisi rivoluzionaria, fra luglio e dicembre 1975, con la scissione del Mfa, l’indipendenza dell’Angola, la radicalizzazione anticapitalista, l’allontanamento di basi di massa dall’influenza del Partito socialista (Ps) e del Partito comunista (Pcp), la formazione dei Suv (auto‑organizzazione di soldati e marinai)[10] e manifestazioni armate, un’anticamera di una rivoluzione sociale – un “pre‑ottobre” [russo] – in cui diventavano inevitabili o un cambiamento radicale dello Stato o un golpe controrivoluzionario.
La borghesia prepara il golpe
Sei governi provvisori si succedettero fino al 25 novembre 1975, segnando il percorso verso sinistra del processo fino alla “estate calda” del 1975. Il primo durò fino al 13 luglio 1974, con Palma Carlos – uomo di fiducia di Spínola – come primo ministro, quando l’assemblea del Mfa lo sostituì con Vasco Gonçalves, che restò al potere fino alla caduta del quinto governo. La rappresentazione delle forze espressione diretta del capitale si ridusse progressivamente fino a che rimase soltanto l’ombra della borghesia. Il terzo governo fu formato il 28 settembre, quando fallì il primo tentativo di golpe: un appello pubblico di Spínola alla “maggioranza silenziosa”, la quale, o non era maggioranza, oppure, oltre ad essere silenziosa, era anche sorda, dato che se ne restò a casa mentre Spínola si vide obbligato a rinunciare alla presidenza cedendola al generale Costa Gomes. Centocinquanta cospiratori furono arrestati.
Ma le forze che stavano alla base del progetto del neocolonialismo “all’inglese” non si erano ancora esaurite. Tentarono di nuovo un putsch korniloviano l’11 marzo, più organizzato, con un tentativo di bombardamento di Lisbona. Ancora una volta, le barricate portarono molti soldati nelle strade. Fu l’ultimo e disperato tentativo della frazione borghese che si opponeva all’immediata indipendenza delle colonie e contò sulla partecipazione della Guardia Nazionale Repubblicana. Il Reggimento di artiglieria leggera di Lisbona fu bombardato e accerchiato da unità di paracadutisti. Un soldato morì, ma il golpe fu sbaragliato. Spínola e altri ufficiali complici ripararono in Spagna, dove furono protetti da Franco. Molti di essi fuggirono poi in Brasile.
Il giorno successivo, i lavoratori delle banche proclamarono lo sciopero politico assumendo il controllo del sistema finanziario. Il Mfa decretò la nazionalizzazione dei sette più importanti gruppi bancari portoghesi; seguite da quelle nel campo delle assicurazioni, della siderurgia, del cemento, ecc. Molte imprese furono occupate dai lavoratori. Larga parte della borghesia, in preda al panico e di fronte all’imponderabile, lasciò il Paese.
Il quarto governo provvisorio si insediò il 26 marzo. Sconfitto Spínola col suo progetto neocoloniale – sostenuto dalle stesse famiglie e gruppi che avevano preservato Caetano fino alla sua caduta – il Paese era irrimediabilmente diviso e nessuno poteva sapere in che direzione avrebbe girato la ruota della Storia.
L’Africa era perduta e la borghesia cominciò a temere il peggio anche nella metropoli. Si riorientò verso il progetto europeo. La ricostruzione dello Stato, a cominciare dalle forze armate, era ancora la priorità. Ma la cosa più complicata restava ancora irrisolta: bisognava improvvisare una rappresentazione politica e tentare di guadagnare la maggioranza delle classi medie neutralizzando i lavoratori.
Non avendo più Spínola come asso nella manica – ed essendo indeboliti il Partito Popolare Democratico (Ppd) e il Partito del Centro Democratico Sociale (Cds) a causa del loro legame con Spínola – la borghesia non aveva strumenti diretti, se non parte della stampa e il peso sull’alta gerarchia delle forze armate, e doveva far ricorso alla pressione della borghesia europea e degli Stati Uniti sulla socialdemocrazia e sull’Unione Sovietica affinché disciplinassero il Partito socialista e, soprattutto, il Partito comunista.
L’ora delle vertigini
Dopo l’11 marzo, venne la seconda primavera delle utopie e delle speranze. Lisbona era una delle capitali più libere del mondo. I lavoratori esigevano che le loro rivendicazioni – indipendenza delle colonie, libertà, salari degni, lavoro, terra, istruzione, sanità e previdenza – venissero soddisfatte, e imparavano nel vivo della lotta che senza espropriazioni non avrebbero potuto conquistarle. Fu attraverso la mobilitazione che sorsero gli organismi che sfidavano il potere dei governi provvisori. Cominciò la fase di quello che fu definito “assemblearismo”.
Nacquero, a ondate consecutive di lotta, commissioni di lavoratori in tutte le grandi e medie aziende, molte delle quali in seguito vennero nazionalizzate come la Cuf (Companhia União Fabril) – che, da sola, raggruppava 186 fabbriche – concentrata in maggioranza in Barreiro, città industriale vicino a Lisbona, dall’altro lato del fiume Tago. Champalimaud, uno dei dirigenti più influenti della borghesia, reagì dichiarando: «Gli operai sono oggi troppo liberi»[11].
I dipinti murali politici – pannelli alla messicana, graffiti all’americana, “dazebao” alla cinese, oltre a semplici disegni – facevano delle vie di Lisbona un’espressione estetico‑culturale di questo “universo diverso” della rivoluzione. Ce n’erano di tutti i tipi, dai più solenni ai più irriverenti. All’ingresso del cimitero, impagabile, campeggiava “Abbasso i morti, la terra a chi la lavora”. Nei grandi viali, quello drammatico, “Non un solo soldato per le colonie”. Nella regione delle strade nuove – quartieri dei privilegiati – ce n’era uno che diceva “La crisi la paghino i ricchi”, firmato dall’Unione Democratica Popolare (Udp), e, subito a fianco, un altro che replicava “La crisi la paghi la Udp”, firmato: “I ricchi”.
La Chiesa non sfuggì alla furia del processo rivoluzionario. A Lisbona, le chiese furono disertate dai giovani. Associata per decenni al salazarismo – quando il cardinale Cerejeira fu il braccio destro del regime – la Chiesa era palesemente sconfessata, soprattutto nel Sud del paese, da ampi settori sociali. Le occupazioni si estesero ai mezzi di comunicazione. Il 27 maggio, i lavoratori di Radio Renascença occuparono gli studi e il centro di trasmissione. Fu rimossa la denominazione di “emittente cattolica” e si cominciò a trasmettere una programmazione di sostegno alle lotte dei lavoratori.
Gli operai della Lisnave (Cantieri navali di Lisbona) diedero sin dall’inizio l’esempio – furono la “Putilov” della rivoluzione portoghese[12] – organizzando picchetti per occupare il loro sindacato e imponendo negoziazioni con l’amministrazione. Nella città di Amadora, una delle vaste concentrazioni operaie – paragonabile ai distretti industriali di Vyborg o dell’ABC[13] – la Sorefame, una delle più grandi industrie metallurgiche del Paese, entrò in sciopero, così come la Toyota, la Firestone, la Renault, la Carris (impresa dei trasporti urbani), la TAP (linea aeree) e la CP (Comboios de Portugal, le ferrovie). L’agitazione si estese anche verso l’interno, come tra gli operai tessili di Covilhã, o i minatori di Panasqueira. L’ondata di auto‑organizzazionee – formazione di commissioni di lavoratori – che approfondiva la dinamica rivoluzionaria della situazione, produsse reazioni:
«I sindacalisti del Partito comunista, avviliti, si lamentavano: “Gli scioperanti fanno tabula rasa delle forme tradizionali di lotta, neppure tentano di negoziare, e a volte decidono di fermare il lavoro senza neanche aver preparato una lista di rivendicazioni. In molti casi, i lavoratori non si limitano a chiedere aumenti, passano all’azione diretta, cercano di prendere il potere decisionale e di istituire la cogestione senza esservi preparati” (così, Francisco Canais Rocha al Diário de Lisboa, 24/6/1974). Per recuperare le “forme tradizionali di lotta”, il Pcp lanciò il 19 luglio la parola d’ordine della sostituzione delle commissioni di lavoratori con delegati sindacali»[14].
Anche quando il Pcp utilizzava tutta la sua immensa autorità per frenare – o sabotare – gli scioperi, le occupazioni di terre nei latifondi dell’Alentejo si andavano generalizzando, mentre si diffondevano le occupazioni di case sfitte a Lisbona e a Porto; le “bonifiche” – un eufemismo utilizzato per definire le espulsioni dei fascisti – producevano epurazioni nella maggior parte delle imprese, a cominciare dal servizio pubblico, e la pressione studentesca nelle Università imponeva assemblee deliberative.
Tutto l’antico ordine sembrava crollare e i cambiamenti precipitavano vertiginosamente. La lotta cambiava la vita:
«La creazione del salario minimo nazionale riguardava più del 50% dei salariati fra i lavoratori agricoli. Erano i lavoratori meno qualificati, le donne, i più oppressi, a costituire l’avanguardia della conquista del potere d’acquisto e dei diritti sociali. Il potere d’acquisto dei salariati aumentò del 25,4% nel 1974 e nel 1975; i salari che, nel 1974, rappresentavano il 48% del reddito nazionale, raggiunsero il 56,9% nel 1975. La struttura della proprietà si modificò: 117 imprese furono nazionalizzate, altre 219 avevano più del 50% di partecipazione statale, in 206 vi fu intervento pubblico riguardando 55.000 operai; 700 imprese entrarono in autogestione, con 30.000 operai»[15].
Ogni rivoluzione ha il suo vocabolario. Come il pendolo della politica oscillava verso l’estrema sinistra, i discorsi della destra svoltavano verso il centro, e dal centro verso sinistra. Il travestitismo politico – la mancanza di corrispondenza tra parole e atti – rendeva irriconoscibili le proposte dei partiti elettorali. Ma in Portogallo le forze borghesi andarono oltre l’immaginabile. Tutte le formazioni politiche, perfino il Partito Popolare Monarchico, rivendicavano una qualche forma di socialismo: il che spiega la retorica della sorprendente Costituzione ancora oggi in vigore.
Le elezioni per la Costituente
La situazione apertasi con la caduta di Spínola portava nuove sfide. La borghesia esigeva ordine e, soprattutto, rispetto per la proprietà privata. Di fronte alle rivendicazioni borghesi, il Ps e il Pcp, le forze politiche di gran lunga maggioritarie e le uniche con autorità morale nella direzione dei governi provvisori – oltre al Mfa – si divisero provocando una scissione fra i lavoratori e i loro alleati.
Il 25 aprile 1975, le elezioni per l’Assemblea costituente furono sorprendenti. Il Ps fu il grande vincitore con lo spettacolare dato del 37,87%. Il Pcp deluse con solo il 12,53% mostrando un abisso fra la sua forza di mobilitazione sociale ed elettorale. Il Ppd di Sá Carneiro, un dirigente liberale inserito nelle strutture del regime salazarista, giunse secondo con il 26,38%. Il Cds di estrema destra e altre forze di sinistra pure ottennero rappresentanza parlamentare.
Tre progetti e tre legittimità entrarono in conflitto. E questa divisione attraversò anche il Mfa. Sorsero tre campi: quello del governo di Vasco Gonçalves, con il Pcp, che si appoggiava sulla maggioranza del Mfa; quello di Soares[16], che rivendicava l’autorità del risultato nelle urne; e quello soggettivamente più fragile – eppure il più temuto, perché anticapitalista – quello cioè che nasceva dagli embrioni di potere popolare.
Un progetto nazionale autarchico
Il Pcp fu uno dei primi partiti comunisti a partecipare ad un governo in Europa occidentale dopo la guerra. Prima di esso, ce ne fu uno a governare in coalizione in Islanda, ma non sembrò aver preoccupato più di tanto Washington. Il partito di Álvaro Cunhal[17] fu l’unica organizzazione che attraversò tutta la resistenza alla dittatura di Salazar. Gli anni delle condanne in carcere dei membri del suo Comitato centrale ammontavano a più di due secoli, e questo dà un’idea del rispetto che riscuoteva fra le masse che odiavano il fascismo.
Ma era anche uno dei partiti più organicamente integrati con Mosca e con una direzione molto più omogenea rispetto all’omologo partito di Santiago Carrillo nello Stato spagnolo. La maggior parte dei suoi quadri aveva avuto lunghe permanenze nell’Urss o nei Paesi dell’Est. Cunhal non sarebbe stato un Tito, e neppure un Mao. Non sarebbe andato oltre i limiti negoziati da Breznev.
Il Pcp aveva resistito, intatto, alle rotture filocinesi e alle pressioni castriste. Dopo il 25 aprile fu maggioritario nelle grandi concentrazioni della classe operaia, fra i lavoratori rurali dell’Alentejo e i contadini poveri dell’interno, così come pure fra la popolazione plebea del Sud del Paese. Tuttavia, concentrava la sua influenza nella Grande Lisbona.
Giunse ad avere un’importante peso all’interno del Mfa che si esprimeva, soprattutto, attraverso la Quinta Divisione. Alla testa di una struttura organizzata di circa 100.000 militanti, era una macchina politica dall’incredibile efficienza, capace di organizzare, letteralmente in poche ore, manifestazioni di piazza di decine di migliaia di partecipanti. Partecipò ai governi provvisori sin dall’inizio. Durante il quinto governo provvisorio – dopo la rottura del Ps, quando già non c’erano più rappresentanti diretti della borghesia – difese Vasco Gonçalves fino all’ultimo giorno.
Benché l’Urss fosse interessata ad una rivoluzione anticapitalista – inaccettabile per gli Usa – in un piccolo Paese dell’Europa occidentale, Mosca aveva interessi in Africa. Senza la prospettiva delle relazioni con l’Angola, la Guinea e il Mozambico, sarebbe impossibile analizzare la strategia del partito di Cunhal. La questione africana era al centro delle preoccupazioni diplomatiche dell’Unione Sovietica nel sistema mondiale di Stati:
«Il Pcp si lancia in una corsa contro il tempo che gli permetta di creare le condizioni per una rapida decolonizzazione che possa mettere da parte qualsiasi velleità di intervento di altre potenze e favorire la trasmissione del potere nelle colonie nelle mani dei movimenti che dall’inizio sono, di fatto, nella migliore situazione: il Frelimo, il PAIGC e l’MPLA»[18].
La Guinea‑Bissau divenne indipendente il 26 agosto 1974; l’indipendenza del Mozambico fu riconosciuta il 25 giugno 1975, e quella di Capo Verde il 5 luglio. L’indipendenza dell’Angola, dichiarata unilateralmente dall’MPLA, venne registrata l’11 novembre, quando era già in carica dal 19 settembre il sesto governo provvisorio a guida Pinheiro de Azevedo che però era messo in discussione da forti mobilitazioni, come lo sciopero degli edili che assediarono l’Assemblea della Repubblica.
Il Pcp praticava una politica stupefacente, cercando di convincere le masse in lotta che il potere politico era già stato conquistato. Mancava solo il potere economico, ma la “democrazia nazionale” – il regime di tutela del Mfa sui governi provvisori in alleanza con le “forze progressiste” – avrebbe permesso di “avanzare verso la vittoria”. La situazione, invece, era praticamente l’opposto: gran parte del capitale era già stata espropriata, ma la borghesia – politicamente – era ancora al potere perché conservava posizioni chiave dentro le forze armate. Il Pcp sosteneva che il socialismo non era all’ordine del giorno. In sintesi, una formula tappista (che giustificava la rinuncia all’antagonismo fra capitale e lavoro come il fattore decisivo) e al contempo illusionista. Una formula, insomma, che diffondeva illusioni rispetto alla cosa più importante: la lotta per il potere. Si distinse nella campagna per la “battaglia per la produzione” contro quello che considerava l’avventurismo e l’estremismo degli scioperi ad oltranza: «In una fase iniziale del processo, grazie alla sua lunga esistenza, alla sua organizzazione, alla sua disciplina ed esperienza – punti di forza che gli garantiscono dall’inizio una capacità di manovra di attacco e risposta, di avanzamento e ritirata, infinitamente superiori a quelli di qualsiasi altro partito – è il Pcp ad essere alla testa. Ed è proprio per essere alla testa, per sentirsi in qualche misura confuso con il potere – potere di fatto – che il Pcp diventa il principale avversario del movimento degli scioperi»[19].
Secondo Cunhal, una rivoluzione sociale non era possibile e si trattava invece di recuperare un’economia decadente: ciò che esigeva alcune nazionalizzazioni e qualche accomodamento delle rivendicazioni popolari. Il Pcp si lanciò in una politica di “guerra di posizione”, ma non fra le classi, bensì fra i partiti: disputa dell’influenza sul Mfa, occupazione di incarichi e controllo monolitico degli spazi dentro e fuori lo Stato. Nel suo affanno burocratico, alimentava una sistematica politica d’apparato che seminava divisioni, e dunque sfiducia, fra i lavoratori.
Appoggiava la corrente d’opinione maggioritaria fra gli ufficiali che componevano il Consiglio della Rivoluzione, l’organismo al vertice del Mfa che di fatto esercitava dall’11 marzo una tutela sul governo, sminuendo il ruolo delle relazioni politiche tra partiti nella Costituente. Il Pcp era coerente con la strategia della “alleanza del popolo con le forze armate” e propugnava il rispetto della gerarchia nella catena di comando alla base della disciplina nel Mfa: «Nelle forze armate non sarà consentito nessun tipo di organizzazione dal carattere politico‑militare, di partito o meno, estranea al Mfa: tutti i militari dovranno essere progressivamente integrati nel loro proprio movimento»[20].
Sosteneva inoltre la necessità di un progetto nazionalista semi‑autarchico, la “democrazia nazionale”, perché pretendeva riconoscere l’indipendenza delle colonie, ma salvaguardando gli interessi portoghesi, che non erano pochi, e preservando la condizione di submetropoli intermediatrice tra Africa ed Europa. Il mito sulla possibilità di un “golpe comunista” – un’invenzione che serviva per la mobilitazione controrivoluzionaria – era il cavallo di battaglia di Soares e di tutta la stampa di destra, mentre i tamburi dell’estrema destra rullavano. E invece: «Tutta la finzione sui tentativi del Pcp di conquistare il potere, l’analisi sull’imminenza di un “golpe di Praga”, che ebbero una grande importanza in quel primo anno della Rivoluzione portoghese, altro non erano che elementi di un’offensiva ideologica con l’obiettivo di stimolare la divisione nel movimento operaio. Non c’era un briciolo di verità. Ciò che invece i rivoluzionari devono denunciare in un bilancio rigoroso è proprio l’adattamento del Pcp al potere costituito con cui cercava di preservare i rapporti di produzione in un contesto in cui il partito tentava di guadagnare margini di manovra, posti di controllo, strumenti di influenza […]. Una testimonianza decisiva è quella di Costa Gomes che racconta come Breznev gli avesse confidato le sue preoccupazioni sull’evoluzione della situazione portoghese e sulla necessità per il Paese di restare all’interno della Nato»[21].
L’influenza del Pcp nel quarto e nel quinto governo spiega il flirt con il movimento dei Paesi non allineati, una via intermedia fra un allineamento incondizionato all’Europa che voleva quantomeno rinviare e una rottura che desiderava impedire. I comunisti si appoggiavano sulle imponenti mobilitazioni di massa per deviarle entro i limiti del regime. Frenavano appena possibile l’auto‑organizzazione, specialmente nelle caserme. C’era imbarazzo nel governo, nel Mfa e nel Pcp rispetto all’azione diretta che metteva in discussione la proprietà privata dei grandi monopoli, delle banche e dei latifondi dell’Alentejo, ma il processo aveva una dinamica anticapitalista indipendente che nessuno riusciva a controllare fino in fondo. Insomma, come difendere la proprietà dei complici golpisti di Spínola?
La reazione “democratica”
L’imperialismo americano, più attivo di quello europeo durante la Rivoluzione portoghese, era consapevole del fatto che anche la questione africana si disputasse a Lisbona. Non stupisce che la flotta della Nato sia stata di stanza nel Tago nel 1975. Fece innanzitutto pressione perché la rivoluzione fosse controllata dal Mfa, quantunque fosse alleato con il Pcp, e poi, quando fu chiaro che il governo di Vasco Gonçalves era incapace di contenere le basi sociali sulle quali si sosteneva, si appoggiò all’opposizione di destra.
Spettò al Partito socialista, guidato da Mário Soares – uomo di fiducia dell’Europa – il ruolo chiave nella disputa politica per la stabilizzazione, a fronte della fragilità strutturale dei partiti borghesi. Il suo piano era di far cadere il quinto governo grazie alla divisione nel Mfa e, subito dopo, affogare la rivoluzione nelle urne.
Il Ps fu il partito dei lavoratori dei servizi e degli operai più moderati, ma anche della maggioranza delle classi medie, soprattutto al centro e al Nord del paese, e guadagnò il sostegno della borghesia, della Chiesa, e degli ufficiali reazionari delle forze armate. Voleva consolidare un regime democratico liberale stabile e seppellire il più rapidamente possibile l’esperienza di dualismo di potere che si estendeva. Il Ps fu presente in tutti i governi provvisori fino al luglio del 1975, quando ruppe con Vasco Gonçalves. Da quel momento, Soares si lanciò in una durissima campagna contro il quinto governo, praticando una divisione nel Mfa – con l’appoggio al Gruppo dei Nove diretto da Melo Antunes e Vasco Lourenço – e costruendo una mobilitazione che portò centinaia di migliaia di persone all’Alameda da Fonte Luminosa, a Lisbona. Una campagna di queste dimensioni, tuttavia, non sarebbe stata possibile solo con l’appoggio della controrivoluzione. Molte migliaia di lavoratori che ripudiavano le limitazioni già sperimentate alle libertà democratiche risposero all’appello del Ps. La divisione in seno alle forze popolari era consumata.
Soares usò come bandiera la difesa delle libertà democratiche e, come esempio, l’episodio del quotidiano República. L’occupazione da parte degli operai della grafica del giornale di Raul Rego, membro dell’esecutivo del Ps – un’azione che divise i lavoratori e le classi medie perché, sebbene si appoggiasse sulla legittimità della rivendicazione di diritti, sequestrava il quotidiano della socialdemocrazia – fu il pretesto per iniziare una campagna di mobilitazione per far cadere il quinto governo. Come disse lo stesso Mário Soares: «La nostra rivoluzione è in pericolo nella misura in cui si mettono in discussione le istituzioni democratiche che sono il suo primo fondamento e giustificazione […]. C’è una crisi generale di autorità dello Stato, corrotto dalla demagogia, dall’irresponsabilità e dall’anarco‑populismo»[22].
I socialisti temevano che la dinamica anticapitalista si diffondesse nella Spagna – ancora sotto la dittatura franchista ma in una situazione molto instabile che avrebbe potuto rapidamente evolvere in senso rivoluzionario – e radicalizzasse le masse giovanili e dei lavoratori in tutta l’area sud del Mediterraneo pochi anni dopo l’ondata del ’68. La lettera di integrazione nella Comunità europea e la promessa di estendere ai portoghesi un tenore di vita simile a quello degli europei, che una significativa parte della popolazione conosceva attraverso gli apporti economici alla fragile economia del Paese da parte di chi era emigrato, era il suo più importante asso nella manica.
Il 18 e 19 luglio, prima a Porto e poi a Lisbona, il Ps scese in piazza per misurare le forze e mostrò chiaramente la sua capacità di sfidare il Pcp sul terreno che fino ad allora era stato assolutamente appannaggio di questo. Riunì centinaia di migliaia di persone nei comizi più partecipati dopo il 1° maggio 1974. Soares minacciava di fermare il Paese e sembrava capace di farlo. Il 20 luglio cominciarono gli assalti, al nord e al centro del Paese, contro le sedi del Pcp, del Mes, del Mdp/Cde. Per quindici giorni[23] si registrarono saccheggi e incendi – a volte con la partecipazione di preti alla testa, come se si trattasse di processioni – anche contro le sedi dei sindacati.
La Chiesa cattolica si aggiunse a questo fronte che aveva la sua voce in Soares; le sue gambe e i muscoli nella forza d’apparato del Ppd (partito borghese che raggruppava in maggioranza i quadri del salazarismo riciclato) e nel Cds (l’estrema destra ideologicamente più dura); e la sua autorità morale nei cardinali e vescovi. Né mancò il denaro. Furono molti i milioni di dollari utilizzati dall’ambasciata – allora diretta dal tristemente noto Frank Carlucci, non a caso poi uomo di Reagan in Nicaragua e oggi grande investitore immobiliare in Portogallo – per lanciare giornali, manipolare le radio e convocare manifestazioni di piazza composte dai settori di classe media più arretrati e disposti a proteggere il Paese dal pericolo del “comunitarismo totalitario”.
«Dietro il discorso legalitario c’era la sordida realtà della divisione operaia, dello scontro aperto, strumenti della politica sia del Ps che del Pcp. Un giornalista vicino a Soares e Mitterrand, Jean Daniel, del Nouvel Observateur, giungeva a questo punto per giustificare la politica di Soares: “Se il Pcp persevera diabolicamente in una logica che implica l’eliminazione degli altri partiti operai, quale altra strada resta se non combatterlo alleandosi organicamente con i reazionari, i clericali, i fascisti che fino a ieri regnavano in Portogallo?”. La risposta fu quella sotto gli occhi di tutti: manifestazioni di devoti che distruggevano sedi, attentati dinamitardi di diversi tipi e, dietro la cortina di fumo delle ideologie, la preparazione del blocco politico che organizzò dal punto di vista civile e militare il 25 novembre»[24].
Dopo la caduta del quinto governo, il piano si rivelò totalmente devastante. Congedare sommariamente soldati e marinai guadagnati con la rivoluzione e reclutarne di nuovi; istituzionalizzare il Mfa e ristabilire la gerarchia nelle forze armate; distruggere il doppio potere; porre fine all’assemblearismo e al diritto dei lavoratori di riunirsi nei luoghi di lavoro e di manifestare; “liberare” l’Assemblea Costituente dalla tutela del Mfa; realizzare il più rapidamente possibile elezioni presidenziali; ricattare le masse sostenendo che i fondi europei e statunitensi sarebbero arrivati solo dopo la sconfitta degli estremisti.
La lotta per il potere popolare
Il terzo campo – cioè, le forze che si collocavano alla sinistra del quinto governo – era l’unico che, in teoria, difendeva la necessità della rivoluzione socialista. Il minimo che si può dire per descriverlo è che era acefalo. Non riuscì ad affermarsi come opposizione a Vasco Gonçalves.
Eppure, l’impatto delle sue iniziative politiche fu significativo. Aveva influenza, benché minoritaria, tra i giovani operai e gli studenti. Non aveva una direzione omogenea, ma faceva affidamento sulla simpatia di un rilevante settore delle basi socialiste e comuniste che, senza rompere con le proprie direzioni, era comunque spinta dall’entusiasmo della partecipazione negli organismi della democrazia diretta. Il 17 luglio, per esempio, convocata dal Partito Rivoluzionario del Proletariato/Brigate Rivoluzionarie – che influenzava il Consiglio Rivoluzionario dei Lavoratori, Soldati e Marinai – venne realizzata a Lisbona una manifestazione armata che ottenne l’adesione del Ralis, principale caserma della città, i cui militari portarono in strada i blindati.
Il 25 settembre, ci fu la manifestazione del SUV a Lisbona, con migliaia di soldati a volto coperto e armati, che, con l’appoggio popolare, deviarono decine di autobus verso la caserma Trafaria, dall’altro lato del Tago, riuscendo a liberare due soldati attivisti che erano lì detenuti.
Il capitano Fernandes assaltò una caserma il 30 settembre e si appropriò di un considerevole numero di armi, distribuendole clandestinamente e affermando che esse sarebbero state usate per difendere le lotte popolari. Otelo Saraiva de Carvalho, comandante della forza d’intervento Copcon, contestato dalla stampa dichiarò: «Se le armi sono in mano al popolo, allora sono in buone mani».
L’iniziativa di questa militanza “a sinistra della sinistra” fu all’origine di una parte significativa di episodi eroici della rivoluzione. Il bilancio politico più generale fu, tuttavia, desolante. L’estrema sinistra cedeva alle pressioni dei due apparati più potenti, il Ps e il Pcp, e non sembra ingiusto dire che restò prigioniera della forza di gravità, o dello stalinismo o della socialdemocrazia. Essa si divise, grosso modo, in tre posizioni.
- La prima, e più influente, soprattutto nel Mfa e fra gli intellettuali, era composta da forze (Mes, Luar, Prp e Udp) che raggruppavano settori di sinistra cattolica, castristi e comunisti filoalbanesi. La sua politica consisteva nel non valorizzare la necessità di costruire organismi unitari di base che avrebbero potuto favorire la rottura delle masse socialiste e comuniste con le loro direzioni; al contrario, ricercava alleanze sovrastrutturali con settori degli ufficiali. Inoltre, aveva una lettura impressionistica della situazione, ritenendo imminente un golpe fascista: secondo questa semplicistica – e ingenua – analisi, la borghesia avrebbe potuto sconfiggere la rivoluzione solo con un colpo di stato armato e non attraverso la ricostruzione delle istituzioni democratico‑borghesi, considerata impossibile. Su questa visione influì molto il golpe di Pinochet in Cile.
- La seconda posizione raggruppava le forze che guardavano al maoismo e ne adottavano la bizzarra teoria dei “campi”, secondo la quale nel primo campo avrebbero militato l’imperialismo degli Usa e il social‑imperialismo dell’Urss che lottavano fra loro, con i loro alleati, per la supremazia mondiale; nel secondo, ci sarebbero stati i Paesi socialisti; nel terzo, la maggioranza delle nazioni periferiche. La stravagante conclusione era che, dopo la rottura di Soares con il quinto governo, il maggior pericolo veniva dal social‑imperialismo russo, a causa del peso del Pcp, che veniva accusato di essere social‑fascista.
- La terza posizione era composta da direzioni senza esperienza e politicamente quasi imberbi. Le tre organizzazioni che la componevano, e che si richiamavano alla Quarta Internazionale, erano molto piccole. Due di esse – la Lci (Liga Comunista Internacionalista) e il Prt (Partido Revolucionario dos Trabalhadores) – avevano un intervento indipendente. L’altra, legata alla Oci francese, militava come corrente all’interno del Partito socialista. Avevano linee politiche differenziate, tanto da non riuscire a proporre una partecipazione congiunta alle elezioni del 1975 e 1976. Nondimeno, la Lci ebbe un ruolo decisivo nella formazione dei SUV e una certa influenza in alcune grandi imprese; il Prt, pur marginale, co‑diresse il movimento degli studenti liceali e realizzò un importante intervento fra i metalmeccanici di Aveiro; la terza componente, in quanto tendenza all’interno del Ps, riuscì ad eleggere due deputati alla Costituente del 1975.
La rivoluzione impossibile
Il 25 novembre 1975 ci fu la prima sconfitta seria. Cominciò con una provocazione. Un ordine dello Stato maggiore smobilitava alcuni reggimenti e congedava alcuni reggimenti. In risposta, una sollevazione militare dei paracadutisti, influenzati da settori dell’estrema sinistra, iniziò alle prime ore della mattina. I ribelli riuscirono anche a prendere il controllo di un’emittente televisiva, da cui iniziarono a trasmettere. Intanto, un’ala degli ufficiali lanciò un fulmineo contro‑golpe e assunse il potere all’interno delle forze armate, distruggendo la democrazia diretta nelle caserme.
Il Mfa cedette, così come il Pcp che si giustificò sostenendo che il Paese non avrebbe potuto sopportare una guerra civile. Le libertà democratiche non furono distrutte, ma tutte le conquiste sociali furono compromesse. Costa Gomes decretò lo stato d’assedio parziale nella regione di Lisbona. Le truppe ribelli che occupavano Monsanto si arresero. Durante l’occupazione della caserma del Reggimento della Polizia militare morirono due comandanti e un agente. I giorni seguenti videro l’arresto di decine di ufficiali, l’emissione di diversi mandati di cattura, la chiusura di molti giornali, lo scioglimento del Copcon e la sostituzione di alte cariche dell’esercito. Nei sei mesi successivi, una significativa quota delle truppe fu smobilitata.
La forza della resistenza operaia, nonostante le divisioni, restava ancora viva, ma l’alleanza con i soldati, i marinai e gli ufficiali più radicalizzati si era spezzata con il ripristino della disciplina interna dell’esercito. Una dichiarazione di sciopero, un mese dopo il 25 novembre, è indicativa:
«Si è deciso di formare picchetti all’ingresso della fabbrica per monitorare ingressi e uscite. Gli operai di Cambournac continuano la loro lotta occupando la fabbrica nel fine settimana. Gli 800 lavoratori non andranno sul lastrico, ci sia o meno il fallimento. Siamo disposti a lottare per la proprietà di ciò che da sempre ci è stato rubato e non resteremo passivi in attesa del governo, poiché solo la classe operaia potrà liberare se stessa»[25].
In seguito, mancava la cosa più difficile: sconfiggere i lavoratori. Poiché non si poteva rischiare uno scontro diretto come nelle caserme, la soluzione immediata fu quella politica. Ramalho Eanes, il generale che aveva soffocato l’insurrezione del 25 novembre, fu eletto presidente della repubblica nelle presidenziali del 1976. Il Ps e il Pcp lo sostennero. Ebbe anche l’appoggio delirante del partito di estrema sinistra Mrpp.
Mário Soares ebbe il suo premio. Fu eletto primo ministro dopo le parlamentari del 1977 e il Mfa venne sciolto. A partire da allora, nonostante la resistenza nei settori più organizzati, la rivoluzione entrò in agonia.
* * *
Chi scrive visse i sei mesi più intensi ed emozionanti della sua vita. Eravamo così giovani da credere che la vita ci avrebbe offerto una seconda chance al prossimo incrocio pericoloso della Storia. Ci sbagliavamo. Le sconfitte storiche richiedono almeno l’intervallo di una generazione perché i suoi esiti possano essere superati. Ogni processo rivoluzionario è la smentita tragica delle tesi gradualiste che sminuiscono l’importanza della rottura – e, dunque, dell’insurrezione – nella strategia di lotta anticapitalista. Boaventura de Sousa Santos fu uno dei sostenitori del bilancio della rivoluzione come un processo evoluzionista: «La rivoluzione socialista è il processo più o meno lungo di trasformazione globale delle differenti strutture di potere della società capitalista nel senso della democratizzazione globale della vita collettiva e individuale. È la totalità storica in cui culmina l’insieme delle riforme sociali disperse nel tempo e nelle diverse pratiche politiche»[26].
La prospettiva di un lungo processo di estensione della democrazia, di accumulazione di forze e diritti, di convincimento o neutralizzazione disarmata dei nemici sociali senza l’intensità massima dell’assalto al potere, non ha trovato un solido fondamento storico. Dopo il novembre 1975, con la distruzione del doppio potere nelle forze armate, in larga misura senza che potesse essere percepita la terribile portata della sconfitta, il processo assunse una lenta e comunque irreversibile dinamica di stabilizzazione in un regime democratico liberale. L’opportunità era stata persa.
La sconfitta della Rivoluzione portoghese non ha richiesto spargimento di sangue, ma ha consumato molti miliardi di marchi tedeschi e franchi francesi. La controrivoluzione ha avuto bisogno di diciotto anni per smantellare ciò che la rivoluzione aveva realizzato in diciotto mesi. La successiva integrazione nella Comunità economica europea con l’accesso ai fondi strutturali – giganteschi trasferimenti di capitali per modernizzare l’infrastruttura e costruire un patto sociale capace di assorbire le tensioni sociali post‑salazariste – permise la stabilizzazione del regime negli anni Ottanta e Novanta.
(Traduzione di Valerio Torre)
Note
[1] «All’ombra di un leccio che non sapeva più la sua età, ho giurato di avere per compagna, Grândola, la tua volontà». La canzone “Grândola vila morena” era stata censurata dal regime e ne era vietata la trasmissione. Fu invece messa in onda alle prime ore del 25 aprile 1974, come segnale convenuto per l’inizio dell’insurrezione militare che fu l’atto iniziale della Rivoluzione dei garofani [Ndt].
[2] M. Caetano, Depoimento, Record, 1974, p. 194.
[3] A. Afonso, B. Costa, cit. in L. Secco, A Revolução dos Cravos, Alameda, 2004, p. 157.
[4] Otelo Saraiva de Carvalho era un militare portoghese che fu tra i protagonisti della Rivoluzione dei garofani [Ndt].
[5] O. Saraiva de Carvalho, Memórias de abril. Los preparativos y el estallido de la revolución portuguesa vistos por su principal protagonista, El ViejoTopo, s.d., p. 163.
[6] Vladimir Aleksandrovič Antonov-Ovseenko, leader bolscevico a capo del Comitato militare rivoluzionario, fu lui a guidare la presa del Palazzo d’Inverno e ad arrestare i ministri del governo provvisorio il 25 ottobre (7 novembre) 1917 [Ndt].
[7] Era il corpo di polizia politica del regime salazarista [Ndt].
[8] L. Trotsky, Historia de la Revolución Rusa, Pluma, 1982, vol. I, p. 8.
[9] Per la questione circa i tempi della rivoluzione e i criteri per la valutazione dei rapporti sociali di forza si può fare riferimento al mio libro As esquinas perigosas da História. Situações revolucionárias em perspectiva marxista, Xamã, 2004.
[10] La sigla Suv stava per “Soldados Unidos Vencerão” (Soldati uniti vinceranno) e rappresentava un’esperienza organizzativa di militari che propugnavano l’auto‑organizzazione nelle caserme e la lotta contro i superiori reazionari e gli ufficiali borghesi. Nata il 6 settembre 1975, si definì anticapitalista e antimperialista. Nel suo programma c’era la parola d’ordine della “distruzione dell’esercito borghese e la creazione del braccio armato del potere dei lavoratori: l’Esercito Popolare Rivoluzionario”. Era vicina ai partiti dell’estrema sinistra portoghese, il Partito Rivoluzionario del Proletariato/Brigate Rivoluzionarie (Prp/Br) e la Lega Comunista Internazionalista (Lci) [Ndt].
[11] Così Champalimaud in una dichiarazione al giornale Diário de Notícias, Lisbona, 25 giugno 1974, cit. in F. Louçã, 25 de abril, dez anos de lições. Ensaio para uma revolução, Cadernos Marxistas, 1984, p. 36.
[12] Le Officine Putilov costituivano un enorme complesso metalmeccanico a Pietrogrado e i suoi lavoratori svolsero un importante ruolo insurrezionale nella Rivoluzione russa del 1917 [Ndt].
[13] Vyborg era un distretto industriale di Pietrogrado all’epoca della Rivoluzione russa. L’ABC è un distretto industriale della regione metropolitana di San Paolo del Brasile, centro di grandi lotte operaie [Ndt].
[14] Dichiarazione di Francisco Canais Rocha (segretario generale della centrale sindacale Cgtp) al Diário de Lisboa, il 24 giugno 1974, cit. in F. Louçã, op. cit., p. 36.
[15] F. Louçã, op. cit., p. 35.
[16] Mário Soares, dirigente del Partito socialista portoghese. Su di lui, in occasione della sua morte, è stato pubblicato su questo sito un articolo della storica Raquel Varela [Ndt].
[17] Segretario del Pcp dal 1961 al 1992 [Ndt].
[18] J.A. Saraiva e V.J. Silva, O 25 de Abril visto da História, Bertrand, 1976, p. 172.
[19] Ivi, p. 169.
[20] Dal “Piano di azione politica del Mfa” che lo identifica come Movimento di Liberazione Nazionale: cit. in F. Louçã, op. cit., p. 43.
[21] Ivi, p. 30.
[22] Dalla lettera di dimissioni di Mário Soares al presidente Costa Gomes del 10 luglio 1975, cit. in F. Louçã, op. cit., p. 49.
[23] Fu, questa, quella che venne definita “l’Estate calda” della rivoluzione portoghese [Ndt].
[24] Op. ult. cit., p. 49.
[25] Comunicato dei lavoratori di Cambourbac, dicembre 1975, cit. in F. Martins Rodrigues, O futuro era agora, Dinossauro, 1994. Il titolo di quest’articolo riprende, previa l’autorizzazione dell’Autore, quello di questo straordinario libro.
[26] B. de Sousa Santos, “A questão do socialismo”, Revista Crítica de Ciências Sociais, n. 6, maggio 1981, p. 170.
[*] Valério Arcary è docente presso l’Instituto Federal de São Paulo (Ifsp). Militante marxista, è autore di numerosi libri, tra cui O martelo da História, Um reformismo quase sem reformas, O encontro da revolução com a História e As esquinas perigosas da História.