L’architrave del castello argomentativo di chi, a sinistra, sostiene che in Ucraina sia in corso una guerra di liberazione nazionale è il “diritto di autodeterminazione”.
Possiamo fieramente affermare che, se c’è un tema evocato assolutamente a sproposito per l’analisi del conflitto in atto, è proprio questo. E abbiamo diffusamente discusso dell’erroneità e dell’infondatezza di siffatto richiamo in alcuni articoli pubblicati su questo sito, e in particolare in questo, utilizzando gli scritti di Lenin, Trotsky e altri autori marxisti, i quali fanno giustizia dell’improprio ricorso al principio del “diritto di autodeterminazione” in ipotesi di guerra interimperialista qual è quella che si sta combattendo in Ucraina.
Mentre le piccole sette ormai approdate sui lidi del socialsciovinismo continuano, sia pure stancamente, a battere su questo tasto, ingenerando ancor più confusione teorica, ci piace riprendere la discussione in proposito: non certo per intavolare una polemica – inutile e improduttiva – con queste sette, irrimediabilmente perdute all’idea stessa del marxismo, ma per rivolgerci invece a quella platea di simpatizzanti del socialismo che vivono un disorientamento tanto diffuso da aver impedito che si formasse in Italia un genuino sentimento contro la guerra.
Lo facciamo presentando ai nostri lettori un testo dello scomparso marxista inglese Al Richardson, militante trotskista, che affronta il tema del diritto di autodeterminazione sullo sfondo delle guerre nei Balcani che insanguinarono quella regione negli anni 90 del secolo scorso. Ma, al di là del riferimento congiunturale che Richardson fa alla questione della Bosnia, il suo testo, seppur sinteticamente, sviluppa con estrema coerenza teorica la riflessione intorno al “diritto di autodeterminazione”, specificando come quest’ultimo sia stato concepito dai marxisti come un “mezzo” per realizzare gli interessi del proletariato, e non già come un “fine”, «un principio sovrastorico (sul modello dell’imperativo categorico di Kant)», secondo la felice descrizione di Trotsky ripresa nel saggio di Richardson e che calza alla perfezione alle sconclusionate analisi delle sette trotsko‑scioviniste odierne.
Riteniamo che la chiarezza di questo scritto, originariamente pubblicato sul periodico inglese “What Next?”, sia utile per sgombrare il campo da un argomento così impropriamente e artificiosamente introdotto nell’analisi del conflitto in atto in Ucraina.
Le note in calce al testo sono tutte dell’Autore, mentre quelle aggiunte dal traduttore sono indicate tra parentesi quadre e con la sigla “N.d.t.” per distinguerle dall’originale.
Buona lettura.
La redazione
La Bosnia e il diritto delle nazioni all’autodeterminazione
Al Richardson
Il primo punto da stabilire quando affrontiamo la questione dell’autodeterminazione dal versante del marxismo è quale atteggiamento dobbiamo assumere nei confronti dei “diritti” in generale. Tanto per cominciare, va detto che i marxisti non credono nei “diritti” immutabili, fissi per l’eternità. Questo vale non solo per la borghesia, ma anche per la classe operaia. Quando sugli striscioni dei sindacati campeggiava la parola d’ordine “Un giorno di lavoro giusto per un giorno di paga equo”, Marx sostenne invece lo slogan “Per l’abolizione del sistema di lavoro salariato”.
L’obiettivo finale del marxismo è la distruzione di tutti gli Stati e di tutte le classi, e ciò comprende anche i “diritti”. Come ha sottolineato Marx, «il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società»[1]. Inoltre, la dialettica ci insegna che le parole d’ordine che una volta erano progressive diventano reazionarie con il passare del tempo e il mutare delle circostanze. Nessuno, nell’attuale clima di opinione in Irlanda del Nord, oserebbe dire che la libertà di culto per tutti tranne che per i cattolici sia una richiesta progressiva: eppure, è ciò che si riteneva durante la guerra civile inglese.
Una seconda considerazione da fare è che lo Stato nazionale è l’espressione particolare degli interessi economici e politici della borghesia, non del proletariato[2]. È il mezzo politico necessario per assumere il controllo del proprio mercato per poter accumulare, per porre le basi per la sua futura competizione con i grandi colossi economici a livello internazionale.
I socialisti hanno in passato sostenuto la rivoluzione borghese, come ha spiegato Marx nel suo Indirizzo del Comitato centrale alla Lega dei Comunisti, per rompere il feudalesimo portando allo sviluppo del capitalismo, e quindi del proletariato, e per rendere la rivoluzione “permanente” fino alla vittoria di quest’ultimo[3]. L’hanno anche sostenuta per indebolire l’imperialismo di fronte alla sua classe operaia in patria[4]. Trotsky sviluppò ulteriormente la teoria della Rivoluzione permanente come strategia da adottare nel mondo coloniale per porre il proletariato alla testa delle masse lavoratrici, sostituendo una borghesia nazionale incapace sia di assicurare l’indipendenza della sua nazione, sia di realizzare i propri compiti storici. La sua teoria presupponeva che solo l’ascesa al potere della classe operaia avrebbe potuto assicurare l’indipendenza nazionale dei popoli di tali Paesi[5]. Il sostegno al diritto delle nazioni all’autodeterminazione in questo caso ha quindi un carattere simile a quello di porre rivendicazioni ai leader sindacali negli Stati imperialisti, non perché crediamo che siano in grado di guidare la lotta per il socialismo, ma per screditarli agli occhi della base. Ma in tutti questi casi il “diritto delle nazioni all’autodeterminazione” era un mezzo per il proletariato, non un fine, un semplice trampolino di lancio sulla strada della rivoluzione mondiale.
In nessun’altra opera questo principio è stato meglio illustrato rispetto al modo in cui Marx ed Engels affrontarono la questione nazionale nell’Europa orientale. Durante i fermenti rivoluzionari del 1846‑48, essi sostennero i diritti dei “popoli storici” (tedeschi, polacchi e ungheresi) quando incrociavano quelli delle masse contadine oppresse della regione. Ciò semplicemente perché era necessario schiacciare Prussia, Austria e Russia in quanto gendarmi della reazione su base paneuropea, e perché gli Stati che sarebbero stati fondati dalle nazioni “storiche” sarebbero stati abbastanza grandi da sviluppare mercati interni e un’industria moderna, determinando l’espansione del proletariato. In questo senso era perfettamente valida la loro opposizione alle pretese dei croati, dei ruteni, ecc., poiché tra loro era appena sorta la coscienza nazionale, e le questioni di uno Stato nazionale o dell’industrializzazione non erano ancora state poste. Per questo motivo l’argomento di Rosdolsky contro le opinioni di Marx ed Engels dell’epoca è mal concepito e astorico[6].
Ma alla fine del secolo lo sviluppo della coscienza nazionale tra le minoranze etniche degli imperi austriaco e russo fece della richiesta di autodeterminazione una componente necessaria di un programma rivoluzionario in quei Paesi. Inoltre, Marx ed Engels hanno spesso dimostrato che il loro atteggiamento nei confronti del diritto delle nazioni all’autodeterminazione dipendeva da come essi vedevano le esigenze strategiche della classe operaia su scala internazionale, fino al punto di cambiare posizione nel bel mezzo di una grande guerra europea. Questo è ciò che in realtà accadde durante la guerra franco‑prussiana (1870‑71), quando inizialmente appoggiarono l’unificazione tedesca, ma poi spostarono il loro sostegno alla Francia, ritenendo quel conflitto una legittima guerra di difesa nazionale dopo la battaglia di Sedan, a causa dell’annessione dell’Alsazia‑Lorena. E con l’ascesa della Comune di Parigi essi giunsero a stigmatizzare la borghesia francese come disfattista controrivoluzionaria[7].
Lo stesso vale per l’applicazione di questo principio da parte di Lenin. La sua polemica contro la negazione di Rosa Luxemburg del “diritto delle nazioni all’autodeterminazione” è spesso citata come se lo si ritenesse un diritto eterno, esistente al di fuori del tempo e dello spazio. Tuttavia, chi fa questo sembra aver dimenticato il terreno comune che esisteva tra Lenin e Luxemburg, e cioè quale politica in relazione a questo tema fosse la più appropriata nell’interesse della classe operaia. Quando si trattava di distruggere lo Stato zarista o quello del governo provvisorio, Lenin era favorevole ai diritti delle nazioni all’autodeterminazione perché senza un’alleanza con i contadini e i popoli oppressi (che erano essi stessi in gran parte contadini) la classe operaia non sarebbe mai potuta salire al potere. Eppure lo stesso Lenin certamente non subordinava gli interessi della classe operaia a questo “diritto” quando sostenne l’invasione della Polonia nel 1920, contemporaneamente prendendo in considerazione l’invasione dell’Ungheria[8]. Lo stesso governo bolscevico che aveva riconosciuto l’indipendenza della Georgia nel 1920 la riconquistò nel 1921, quando fu chiaro che questa veniva usata come base per l’intervento straniero contro l’Urss.
Anche nella sua polemica con Rosa Luxemburg su questo tema Lenin sottolineava: «Rispondere “sì” o “no” alla domanda di separazione di qualsiasi nazione? In realtà è assurda, metafisicamente teorica, e porta praticamente alla subordinazione del proletariato alla politica della borghesia. La borghesia pone sempre in primo piano le sue rivendicazioni nazionali. Le pone incondizionatamente. Il proletariato invece le subordina agli interessi della lotta delle classi. Teoricamente, non si può dire a priori se la rivoluzione democratica borghese sarà portata a termine mediante la separazione di una nazione determinata o la sua parità di diritti con un’altra nazione. In entrambi i casi, al proletariato importa assicurare lo sviluppo della propria classe, mentre la borghesia, cui importa ostacolare tale sviluppo, ne subordina gli obiettivi a quelli della “propria” nazione»[9].
E pur sostenendo che il rispetto dei diritti nazionali incarnasse una necessità vitale per mantenere l’alleanza dei lavoratori e dei contadini in Urss, allo stesso modo Trotsky negava che l’autodeterminazione nazionale fosse «un principio sovrastorico (sul modello dell’imperativo categorico di Kant)»[10].
In parole povere, mentre poteva essere considerata progressiva la politica di sostegno alla Serbia contro l’Austria nel 1907, patrocinare il principio dell’autodeterminazione serba sopra tutti gli altri dopo l’agosto 1914 avrebbe significato subordinare gli interessi della classe operaia all’Intesa durante la Prima guerra mondiale[11]. Il marxismo classico discute tutto dal punto di vista degli interessi internazionali della classe operaia, ai quali sono subordinati tutti gli altri “principi” e “diritti”, compreso il nazionalismo[12]. Ciò che accade quando il principio nazionale viene elevato al di sopra dei fondamentali criteri di classe è agevolmente illustrato dalla confusione teorica che ha accompagnato il crollo dell’Urss. La separazione delle più grandi minoranze nazionali per formare Stati nazionali borghesi ha in realtà dimostrato di essere un meccanismo necessario della controrivoluzione; eppure, la maggioranza del movimento trotskista, pur ritenendo sulla carta che quello che veniva distrutto era uno Stato operaio, ha praticamente supportato questo processo. L’esempio più ridicolo di come tale logica sia stata portata alle sue estreme conseguenze va sicuramente rinvenuto nell’appello di Workers Power al governo Thatcher per sostenere la separazione della Lituania. È un esempio classico di ciò che accade quando si elevano i principi della democrazia borghese al di sopra di quelli della difesa della classe operaia.
In effetti, Trotsky e Lenin ritennero importante non sostenere mai i conflitti nazionali dei popoli balcanici l’uno contro l’altro, nemmeno contro i turchi, il cui impero aveva governato negli ultimi tempi gran parte della regione[13]. E con una buona ragione: così tanti popoli nell’area si erano compenetrati gli uni con gli altri dalla caduta dell’Impero Romano in termini sia di classe che nazionali che era impossibile tracciare in modo equo i confini nazionali fra loro. Alcuni popoli erano così piccoli che non si poneva affatto la questione di erigere per loro uno Stato nazionale praticabile; altri si sovrapponevano in un complicato mosaico di classe e nazione. Quale divisione si sarebbe potuta fare, ad esempio, nella Transilvania prebellica, i cui contadini erano valacchi (rumeni), i cui proprietari terrieri erano magiari (ungheresi) e la cui borghesia e il proletariato erano tedeschi? Chiunque consulti un classico come Miti e realtà nell’Europa orientale di Walter Kolarz (Londra, 1946) potrà constatare che tutti questi popoli si sovrapponevano per area geografica e che erano tutti in grado di avanzare reciprocamente rivendicazioni territoriali più o meno valide. La razionalità economica rafforza il punto: i Balcani e l’arco dei Carpazi davano unità alla regione, il Danubio fungeva da asse portante e il sistema ferroviario era incentrato su Vienna e Istanbul. Non sorprende affatto che sia la Seconda che la Terza Internazionale si fossero espresse a favore di una Federazione dei popoli balcanici. Né è una coincidenza che Stalin, nell’ottica del nazionalismo grande russo, si sia opposto a questa stessa politica dopo la Seconda guerra mondiale. Una soluzione praticabile oltre che giusta dei problemi nazionali di quest’area semplicemente non poteva essere raggiunta sul modello degli Stati nazionali borghesi.
Un raro filmato del Congresso dei Popoli d’Oriente svoltosi a Baku (1920)
La storia lo ha dimostrato in modo negativo, per così dire. Gli unici Stati che hanno potuto assicurare stabilità sull’intera regione sono stati quelli che hanno negato il principio nazionale, sia come imperi pre‑capitalisti (Bisanzio, Turchia e Austria‑Ungheria) sia come repubblica federale delle nazioni post‑capitaliste (la Jugoslavia di Tito). Senza il tragico crollo di quest’ultima, tutto questo sanguinoso conflitto non si sarebbe affatto realizzato.
Naturalmente, una volta che si tratti dell’emergere di Stati nazionali borghesi separati, ciascuno cerca di allargare il più possibile i propri confini e la “pulizia etnica” diventa per tutti un mezzo per raggiungere questo scopo. Ciò può aumentare l’amarezza del conflitto, ma la sua portata e la sua durata non sono dovute solo a questo. A parte la Slovenia, che abbastanza significativamente non ha preso parte al conflitto fin dall’inizio, nessuno dei contendenti ha un’economia sostenibile. La guerra viene combattuta non solo da irregolari che brandiscono kalashnikov dietro le rocce, ma con carri armati, artiglieria, missili terra‑aria e tutto l’armamentario militare convenzionale moderno. Nessun pezzo di questo materiale è a buon mercato, ed è stato fornito, revisionato e in uso costante ormai da alcuni anni. Certamente, ci deve essere una discreta quantità di armi a basso costo di origine ceca, tedesco‑orientale e russa nell’Europa dell’est a partire dal crollo del blocco sovietico, ma tutto deve essere consegnato, revisionato e pagato. Quando è stata l’ultima volta che hai visto una bottiglia di Lutomer Riesling sugli scaffali del tuo supermercato? Chi paga tutto questo? Ovviamente, dietro la Serbia potremmo vedere la Russia e la Grecia, sarebbe sorprendente se Turchia, Iran e Arabia Saudita si dimenticassero della Bosnia, e la Croazia ha probabilmente sostenitori tedeschi e italiani. Il fatto che tutte queste armi possano attraversare così facilmente le frontiere nazionali suggerisce che non si tratta semplicemente di un affare di interessi individuali e monopolistici e di fornitori di armi. Può anche essere, come sospetto, che gli Stati in guerra non vengano affatto finanziati, ma vengano loro soltanto concessi conti spese illimitati partendo dal presupposto che se avranno successo nella spartizione dei territori, pagheranno poi i loro debiti ai finanziatori.
Comunque sia, ciò che è importante capire qui è che i conflitti e gli interessi delle grandi potenze vengono ovviamente combattuti nel corso di questo conflitto senza fine: senza fine semplicemente perché non è nell’interesse dei principali burattinai dietro le quinte che vada diversamente. Molto prima della Prima guerra mondiale per questo fenomeno venne coniata una nuova espressione da inserire nel vocabolario della diplomazia: “balcanizzazione”. È un triste riflesso dello stato teorico del movimento trotskista che oggi cerchiamo di utilizzarlo continuamente alla leggera.
Ritengo quindi che la simpatia di gran parte della sinistra per la Bosnia, basata in gran parte su storie di atrocità della stampa borghese, sia mal concepita. Il governo serbo è stato denunciato come fascista, eppure l’unica capitale in cui si è svolta una manifestazione di massa contro la guerra è stata Belgrado. Parte della propaganda di odio diretta contro i serbi, ovviamente dal versante dei pregiudizi femministi borghesi, secondo cui le truppe serbe si sono abbandonate allo stupro come parte di un piano deliberato per espandere la loro nazione, si è rivelata falsa. Ovviamente si può dimostrare che tutti i combattenti si sono abbandonati a massacri, stupri, pulizie etniche, ecc. Nessuno ha il monopolio della virtù. Coloro che hanno realizzato la maggior parte di queste azioni lo hanno fatto perché avevano il potere di farlo. Ci aspettiamo davvero che gli Stati‑nazione borghesi in guerra, governati da classi costituite in gran parte dagli strati locali della vecchia burocrazia titoista, si comportino diversamente?
L’ostilità nei confronti della Serbia, condivisa da interessi esterni in Europa e in America, può senza dubbio essere attribuita al fatto che, se dovesse raggiungere i confini a cui aspira, potrebbe – unico di tutti gli Stati successori – essere considerata qualcosa di più di una repubblica balcanica minore su scala europea: un’opzione che invece non è praticabile per Slovenia, Croazia, Bosnia, ecc. Per i socialisti c’è anche l’attrattiva che in qualche modo la Bosnia potrebbe essere uno Stato “internazionale” (quanti Stati borghesi multinazionali non federali esistono effettivamente?), o la speranza che possa in qualche modo evitare il destino di diventare un avamposto europeo del fondamentalismo musulmano, una volta che i suoi finanziatori esterni chiederanno qualcosa in cambio dei loro soldi.
Credo che dovremmo ancora una volta rilanciare il buon vecchio slogan del disfattismo rivoluzionario da tutte le parti, insieme alla richiesta di una Federazione socialista di tutti i Balcani. L’unica possibile eccezione potrebbe essere nel caso dei serbi, che si trovano nella condizione di affrontare la potenza della Nato e delle Nazioni Unite, benché anche qui dovremmo condizionarla perché questi armamenti potrebbero essere tutti puntati in un’altra direzione se si verificasse un riallineamento diplomatico, e si rendesse invece necessario ridimensionare la Croazia.
A mio avviso, quei socialisti per i quali l’aiuto alla Bosnia dipende dalle forze imperialiste dell’Onu o della Nato, e che devono cercarsi una via d’uscita, si trovano in una posizione non invidiabile. Anche coloro che spendono tante energie a discutere su quale sia la strada più “rivoluzionaria” per questo aiuto – quella settentrionale o quella meridionale – si trovano in una posizione ridicola.
Note
[1] K. Marx, “Critica del programma di Gotha”, maggio 1875, The First International and After, Harmondsworth, 1974, p.347.
[2] Ho sostenuto altrove che ogni rivoluzione crea forme di Stato superiori a quelle precedenti. Fino ad oggi, la massima espressione dell’organizzazione del potere borghese è lo Stato nazionale. La classe operaia al potere crea uno Stato multinazionale, come mostra l’esempio dell’Urss (cfr. In Defence of the Russian Revolution, Londra, 1994, pp. XI e XVI). Naturalmente, non è affatto escluso per il futuro che, intuendo l’inadeguatezza dello Stato nazionale per il loro ulteriore sviluppo, i grandi monopoli possano creare Stati multinazionali su scala continentale fuori dalla Cee, dal blocco nordamericano e dal gruppo del bacino del Pacifico, sul modello di 1984 di Orwell.
[3] K. Marx, “Indirizzo del Comitato centrale alla Lega dei Comunisti”, aprile 1850, in Max Eastman (a cura di), Capital and Other Writings di Karl Marx, New York, 1932, pp. 366‑367.
[4] K. Marx, “Lettera a L. Kugelmann”, 29 novembre 1869; “Lettera a S. Meyer e A. Vogt”, 9 aprile 1870, Karl Marx e Frederick Engels on Britain, Mosca, 1953, pp.502‑5033, 504‑508.
[5] L. Trotsky, “A novant’anni dal Manifesto Comunista”, 30 ottobre 1937, Writings of Leon Trotsky 1937‑38, New York, 1976, pp. 24‑25; “L’India di fronte alla guerra imperialista”, 25 luglio 1939, Writings of Leon Trotsky 1939‑40, New York 1973, p.29.
[6] R. Rosdolsky, “Engels and the ‘Non‑historic’ Peoples: The National Question in the Revolution of 1848”, Critique, nn. 18‑19, Glasgow, 1986.
[7] K. Marx, “Lettera a Engels”, 20 luglio 1870; F. Engels, “Lettera a Marx”, 15 agosto 1870, K. Marx e F. Engels, Corrispondenza 1846‑1895, Londra, 1934, pp.2 92, 295‑6; K. Marx, “The Civil War in France”, 13 giugno 1871, in Hal Draper (a cura di), Karl Marx e Friedrich Engels: Writings on the Paris Commune, New York, 1971, pp. 104‑105, ecc.
[8] V.I. Lenin, “Il significato internazionale della guerra contro la Polonia”, 22 settembre 1920, in Al Richardson (a cura di), In Defence of the Russian Revolution. A Selection of Bolshevik Writings 1917–1923, Porcupine Press, London 1995, pp. 134‑158.
[9] V.I. Lenin, “Sul diritto di autodecisione delle nazioni”, aprile‑giugno 1914, Collected Works, Vol. 20, Mosca 1964, p. 410.
[10] L. Trotsky, “On the National Question”, 1° maggio 1923, In Defense of the Russian Revolution, p. 179.
[11] [È quello che abbiamo sostenuto nel nostro scritto “La guerra in Ucraina e il social‑sciovinismo dei giorni nostri” per contestare l’affermazione assolutamente falsa secondo cui quando la Serbia fu attaccata dall’Austria, i bolscevichi avrebbero difeso contro l’imperialismo austriaco i diritti nazionali della Serbia nonostante i suoi forti legami con la Russia zarista: una sciocchezza sesquipedale (N.d.t.)].
[12] Per fare un esempio attuale, è discutibile se l’autodeterminazione nazionale sarebbe nell’interesse del proletariato curdo, la maggior parte del quale vive a molte miglia di distanza dal Kurdistan. Potrebbe anche indurre reazioni razziste, discriminazioni e pogrom, e il suo destino ci è più caro di quello di qualsiasi agglomerato tribale. Anche se si dovesse formare un Kurdistan separato, esso potrebbe diventare una trappola mortale, poiché mancherebbe di una fascia costiera e sarebbe circondato da Stati con la volontà e il potere di strangolarlo economicamente.
[13] L. Trotsky, Le guerre balcaniche, New York, 1980, pp. 4‑5, 30, 40‑41, ecc.
(Traduzione di Valerio Torre)