Continuiamo nella pubblicazione in italiano dei saggi scritti dallo storico brasiliano Gilberto Calil che compongono la serie “Gramsci e il fascismo”, questa volta presentando la lucida analisi avanzata dal rivoluzionario italiano sulla complicità dello Stato borghese e dei suoi organi repressivi – primo fra i quali la magistratura – con il fascismo. Le acute riflessioni di Gramsci sul tema vengono evidenziate da Calil nel quadro di un passaggio fondamentale per l’affermarsi del fascismo: quello dell’unificazione tra la repressione posta in essere dagli organi repressivi dello Stato e la violenza delle bande fasciste.
A partire da qui, l’autore segnala come Gramsci abbia posto in rilievo la necessità che la classe operaia non debba mai riporre fiducia negli apparati repressivi dello Stato, e in particolare nella magistratura: come purtroppo avviene oggi anche in Italia, soprattutto ad opera di burocrazie sindacali e dirigenti di organizzazioni politiche che, avendo ancora presa sui lavoratori, li inducono a confidare in una giustizia classista invece di spingerli alla lotta.
Buona lettura.
La redazione
Gramsci e il fascismo
La complicità dello Stato e della magistratura
Gilberto Calil [*]
Il periodo in cui Gramsci scrisse l’insieme degli articoli analizzati in questa serie[1], che corrisponde all’ascesa del fascismo (1921‑1922) e che precede l’effettiva presa del potere statale da parte dei fascisti, venne segnato da centinaia di attacchi terroristici, attentati, assassini, massacri e incendi di sedi comuniste e sindacali promossi dalle milizie fasciste. La crescente violenza fascista era esplicita e evidente. In questo contesto, mentre i socialisti facevano appello allo Stato perché contenesse la violenza e giungevano al punto di negoziare con gli stessi fascisti un “patto di non aggressione”, Gramsci aveva assolutamente chiara la complicità dello Stato liberale italiano, e specialmente del potere giudiziario, con i crimini del fascismo.
Per le sue caratteristiche costitutive, il fascismo si presenta sempre come “anti‑regime” e “anti‑sistema”, in modo tale da guadagnare a sé la rivolta sociale imprimendole un senso reazionario. Si tratta di un aspetto necessario, senza il quale i fascisti non avrebbero successo, e che si ripete in movimenti fascisti nei più diversi contesti e momenti storici. Gramsci riconosceva la necessità di quest’aspetto, ma si affrettava a denunciare che non corrispondeva al processo concreto nella sua essenza e che, pertanto, «bisogna insistere per far comprendere che oggi il proletariato non si trova di contro solo un’associazione privata, ma si trova contro tutto l’apparecchio statale»[2], considerando che «il fascismo è organicamente legato all’attuale crisi del regime capitalista e che sparirà solo con la soppressione del regime»[3]. Confidare nella tradizione democratica dello Stato – soprattutto in un contesto come quello italiano, in cui questa era abbastanza fragile – sarebbe stato troppo ingenuo. Al contrario, egli riteneva imprescindibile riconoscere la complementarietà tra la violenza illegale del fascismo e la repressione legalmente scatenata dallo Stato, potendosi anche prevedere una crescente articolazione tra le due fino alla loro unificazione: «Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese. Un semplice calcolo di utilità induce a prevedere che la classe dominante vorrà ad un certo punto amalgamare anche ufficialmente questi due apparecchi e che spezzerà le resistenze opposte dalla tradizione del funzionamento statale con un colpo di forza diretto contro gli organismi centrali di governo»[4].
La complicità attiva dello Stato, specialmente dei settori legati alle funzioni repressive e alla magistratura, era per Gramsci una delle imprescindibili chiavi di lettura per la comprensione del fascismo, senza la quale non lo si sarebbe potuto intendere: «I fascisti hanno potuto svolgere la loro attività perché decine di migliaia di funzionari dello Stato, specialmente dei corpi di pubblica sicurezza (questure, guardie regie, carabinieri) e della magistratura, sono diventati i loro complici morali e materiali. Questi funzionari sanno che la loro impunità e la loro carriera sono strettamente legate alle fortune dell’organizzazione fascista, e perciò hanno tutto l’interesse a sostenere il fascismo in qualsiasi tentativo voglia fare per consolidare la sua posizione politica»[5]. È la complicità statale che spiega l’ampia libertà su cui i fascisti fecero affidamento mentre appiccavano incendi, compivano assassini e pestaggi alla luce del sole e con la più ampia complicità dell’apparato statale e persino, molte volte, con la partecipazione diretta dei suoi agenti a comporre le file del fascismo.
Gramsci non può astenersi dall’osservare che questa complicità aggrava la crisi dello Stato liberale e favorisce l’imporsi del fascismo, dei suoi metodi e della sua politica, in un processo di graduale trasferimento delle funzioni repressive dall’apparato statale a quello privato del fascismo: «Se il governo lascia impunemente violare la Costituzione, se il governo permette la formazione nel paese di bande armate, […] cosa ciò significa se non questo: avere il governo, responsabile per il sovrano, violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione? Cosa significa ciò se non che si sta preparando, da parte degli organismi statali che si raggruppano nel potere esecutivo, un colpo di stato? Cosa significa ciò se non che in Italia viviamo già nell’ambiente da cui automaticamente deve sbocciare il colpo di stato?»[6]. Questo lucido allarme di Gramsci, un anno prima della Marcia su Roma dei fascisti, non era preso sul serio dalla burocrazia sindacale e dai dirigenti del Partito socialista, che «ridono del fatto che solo si faccia l’ipotesi del colpo di stato»[7].
All’interno dell’apparato repressivo dello Stato italiano, il potere giudiziario occupava un posto della massima importanza, e Gramsci non si stancò di ricordare quanto le fragilità della democrazia borghese stabilita in Italia avessero favorito la formazione di una magistratura particolarmente reazionaria: «In Italia, poiché non è mai esistito un potere giudiziario indipendente, ma soltanto un ordine giudiziario subordinato al potere governativo, in Italia non è mai esistita la democrazia, ma solo un regime paterno, addolcito e mitigato. […] Dove, come in Italia, la forza armata dipende dal governo che può, quando vuole, disperdere le Camere con le baionette, non esiste democrazia, esiste la dittatura, cioè la reazione in permanenza»[8]. Sono osservazioni certamente pertinenti e che aiutano a riflettere su altre autocrazie borghesi in tempi diversi. Riaffermando che «la magistratura italiana non procede contro i fascisti»[9], Gramsci riteneva imprescindibile denunciare il carattere complice e classista della giustizia italiana, e per questo si entusiasmò per lo sciopero generale svoltosi a Torino alla fine del 1921 contro la condanna di operai ingiustamente accusati di aver commesso un omicidio. Auspicando che questo sciopero fosse il «primo episodio di una lotta a fondo contro l’organizzazione della giustizia borghese»[10], Gramsci salutava lo sciopero come uno strumento che permetteva di esplicitare e propagandare alle masse che, contrariamente a quanto proclamavano i riformisti italiani, esse non potevano fare affidamento sulla giustizia: «Lo sciopero generale di Torino non rappresenta quindi niente di nuovo sostanzialmente; lo sciopero di Torino è un semplice episodio della lotta generale che la classe operaia combatte contro i suoi oppressori e i suoi sfruttatori, contro tutte le forme di oppressione e di sfruttamento esercitate dalla borghesia sul popolo lavoratore. Se una novità esiste in questo sciopero, essa è di carattere ideologico. […] Lo sciopero generale di Torino ha perciò un grande valore e un grande significato; esso significa che la classe operaia si è finalmente liberata da questa forma di oppressione spirituale, che la classe operaia comincia a vedere anche nei tribunali niente altro che un’arma della dittatura borghese, un’arma terribile che occorre spezzare, distruggere»[11].
Dopo circa cent’anni, leggendo queste righe in un Paese in cui non solo il fascismo rappresenta una minaccia concreta, ma è anche innegabile il carattere classista della giustizia, e la sua funzione repressiva è segnata da mostruosità come la Legge sulla Sicurezza nazionale e la Legge Antiterrorismo, è impossibile non percepire immediatamente la pertinenza e l’attualità della riflessione gramsciana.
[*] Gilberto Calil è Dottore di ricerca in Storia all’Università Federale Fluminense (Uff) ed è docente del corso di Storia e del Programma di Dottorato in Storia dell’Università Statale del Paranà occidentale (UniOeste). È componente del Gruppo di ricerca Storia e Potere. È autore, tra gli altri libri, di Integralismo ed egemonia borghese (EdUniOeste, 2011) ed effettua ricerche su Stato, Potere, Destra, Egemonia, Dittatura e Fascismo.
Note
[1] Per maggiori informazioni sulle caratteristiche di questi scritti si veda il primo articolo di questa serie.
[2] Gramsci, Antonio. “Os Arditi del Popolo”. In: Escritos Políticos. Volume 2, 1921–1926. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, p. 75.
[3] Idem, p. 74.
[4] Gramsci, Antonio. “Golpe de Estado”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 78.
[5] Gramsci, Antonio. “Socialistas e fascistas”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 66.
[6] Gramsci, Antonio. “O sustentáculo do Estado”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 100.
[7] Gramsci, Antonio. “Golpe de Estado”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 77.
[8] Gramsci, Antonio. “Contra a Magistratura”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 104.
[9] Idem, p.105.
[10] Idem, p. 102.
[11] Idem, pp. 104–105.
(Traduzione di Valerio Torre)