Ascesa e caduta di Evo Morales
Nazionalismo borghese o socialismo rivoluzionario? Le prospettive per la Bolivia
Valerio Torre
Dopo quasi quattordici anni ininterrotti di governo della Bolivia, Evo Morales, il primo presidente indigeno nella storia del Paese si è dimesso sotto la spinta di violente manifestazioni di piazza che denunciavano i brogli elettorali di una consultazione in cui lo stesso Morales correva per la sua rielezione in un quarto mandato. Benché fosse stato eletto per ben tre volte con una percentuale superiore al 50% (53,9% nel 2005, 62,5% nel 2009 e 60,9% nel 2014) egli volle, nel 2016, sfidare lo stesso dettato costituzionale che vietava una rielezione di fatto a tempo indefinito, indicendo un referendum da cui però uscì sconfitto: dunque, nonostante gli ottimi risultati economici – che avevano favorito le classi subalterne di quello che era considerato uno dei Paesi più poveri dell’America Latina – la popolarità di Morales subì un colpo rilevante. E la decisione di ricandidarsi a dispetto della sconfitta referendaria ha contribuito a un’ulteriore caduta di consenso sociale: prova ne sia il fatto che lo scrutinio del 21 ottobre scorso gli ha assegnato un risultato di solo il 47,1% dei voti.
Ma, in realtà, il referendum del 2016 non fece altro che consacrare il ritiro del sostegno di alcuni settori sociali a Evo Morales: molti dei suoi antichi collaboratori e dei fautori del “socialismo indigenista” da lui propugnato[1] già allora criticarono apertamente l’abbandono dei principi sbandierati all’inizio della sua carriera politica; evidenziarono l’attaccamento al potere; criticarono un’agenda di governo più centrata sull’estrazione di risorse naturali destinate all’esportazione che alla difesa della “Madre Terra” su cui egli aveva costruito il proprio programma; denunciarono la corruzione che aveva coinvolto ex ministri, parlamentari e dirigenti del suo stesso partito, il Mas[2], nonché la feroce repressione militare delle manifestazioni di piazza contro l’inusitato aumento del prezzo dei carburanti[3] e della resistenza delle popolazioni indigene alla costruzione di una strada nel parco del Tipnis[4].
Le forti dichiarazioni di personaggi come Rafael Puente, già viceministro del primo gabinetto Morales e da lui considerato il suo “maestro”[5], o del dirigente dei minatori Filemón Escóbar[6], o ancora dell’ex ministro dell’Istruzione, Félix Patzi, oppure dell’ex viceministro della Terra, Alejandro Almaraz[7], e perfino del dirigente del movimento che fu a capo nel 2000 della “Guerra dell’acqua”, Óscar Olivera, che ha accusato Morales e il suo vice, Álvaro García Linera, di avere defraudato le organizzazioni sindacali e contadine della capacità di decidere e di non aver dato seguito alla promessa originaria di autogoverno popolare, ebbene tutte queste dichiarazioni vennero da García Linera liquidate con un’alzata di spalle e un’abbondante dose di cinismo[8], proprie di chi, ebbro del potere, dimentica come ci è arrivato e in nome di chi lo ha assunto.
Tuttavia, l’attuale caduta di Evo Morales viene da ancor più lontano.
Dalla “Guerra del gas” all’elezione di Evo
La classe operaia e le masse popolari della Bolivia hanno una lunga e profonda tradizione rivoluzionaria[9]. Una tradizione che trovò conferma nell’ottobre del 2003, quando esse furono protagoniste di una rivolta popolare in difesa delle risorse naturali – la c.d. “Guerra del gas” – che venne ferocemente repressa dalle forze armate, con un saldo di diverse decine di morti e parecchie centinaia di feriti. Nondimeno, la forza d’urto delle masse provocò il rovesciamento del presidente Gonzalo Sánchez de Lozada, “Goni”, che, perso il controllo della situazione, isolato e sconfitto politicamente, decise di rinunciare all’incarico abbandonando il Paese.
Gli successe il vicepresidente Carlos Mesa. Tuttavia, il processo rivoluzionario non era affatto terminato, e, invece di chiudersi, si approfondì, tanto che nei mesi di maggio e giugno 2005, si svilupparono nuove proteste con rivendicazioni sia economiche (nazionalizzazione dell’acqua e del gas), sia politiche (convocazione di un’Assemblea costituente), che, unificando le popolazioni indigene, i contadini, gli operai e settori di classe media urbana, e nel quadro di uno sciopero generale a tempo indeterminato convocato dalla Central Obrera Boliviana (Cob), conferì a questa dinamica di massa una forza tale che Mesa fu costretto alle dimissioni.
Infine, nel dicembre 2005 si tennero le elezioni anticipate, che videro l’affermazione come presidente di Evo Morales.
Un processo rivoluzionario deviato nelle urne
Il grande appoggio popolare che portò Morales alla presidenza fu l’espressione delle aspettative da parte delle masse boliviane di un autentico cambiamento delle proprie condizioni di vita e delle speranze in una profonda trasformazione del Paese, a partire dalla liberazione dal giogo imperialista che sempre ha pesato sulla Bolivia, e dalla fine della secolare oppressione etnica e culturale a cui erano sottoposti i popoli e le nazionalità indigeni. Tali aspettative trovarono il loro supporto nella retorica “antimperialista e anticapitalista” che il Mas ed Evo spargevano a piene mani, insieme alla propaganda di un fantomatico “socialismo comunitario” e di un progetto di riconoscimento e di inclusione delle popolazioni originarie, fino ad allora ai margini della società: un progetto che sfociò nell’idea di uno Stato “plurinazionale”, consacrato poi nella Costituzione approvata nel 2009.
Secondo l’intellettuale boliviano Luis Tapia, nel salire al potere il Mas si pose come «rappresentante e mediatore ascendente» delle forze che in Bolivia erano state il prodotto di una «accumulazione storica» sulla base delle esperienze di democrazia diretta nell’ambito di spazi di discussione pubblica e di strumenti popolari, quali le «assemblee comunitarie»[10]. Insomma, per uscire dal linguaggio sociologico dando una chiave di lettura marxista, l’elezione di Evo Morales fu il sottoprodotto di un processo rivoluzionario deviato nelle urne elettorali.
La preservazione del sistema capitalistico
Il fatto è, però, che sin dal primo momento il disegno del duo Morales‑Linera non era affatto quello di un’autentica rivoluzione sociale che rovesciasse i rapporti economico‑sociali fino ad allora dominanti e che si traducevano nell’ipersfruttamento della Bolivia e delle sue risorse ad opera del capitalismo imperialista e delle sue multinazionali, bensì di una “rivoluzione democratico‑culturale”[11] con l’obiettivo di riformare lo Stato nel quadro del “capitalismo andino‑amazzonico” teorizzato da Linera, e cioè di un sistema che finiva per salvaguardare le relazioni su cui poggiavano – e poggiano tuttora – la dipendenza dal capitalismo e la subordinazione ad esso[12].
L’esempio più pregnante che può farsi è quello relativo al cavallo di battaglia di Evo Morales: la nazionalizzazione del gas, inaugurata in pompa magna con un provvedimento entrato in vigore il 1° maggio 2006. Lungi dall’essere un’espropriazione senza indennizzo accompagnata dall’espulsione dal Paese delle multinazionali, si è trattato invece di una rinegoziazione fra lo Stato – che si è proclamato proprietario delle risorse del sottosuolo – e le compagnie estrattive, alle quali, una volta pagate le imposte e il profitto da devolvere al governo, viene riconosciuto un margine di profitto. Giova precisare che nessuna impresa che già non fosse su suolo boliviano si è tirata fuori dall’affare: il che la dice lunga sulla efficacia della “nazionalizzazione”, avuto riguardo agli interessi storici delle classi popolari. Ma, come se ciò non bastasse, le forme negoziali stabilite dall’esecutivo e stipulate con l’impresa statale Ypfb dalle multinazionali consentono a queste di recuperare tutti i costi incontrati nell’opera estrattiva, che sono frutto di una sorta di “autocertificazione”, mantenendo intatti gli utili.
Certo, questo sistema ha comportato, grazie anche al boom delle materie prime, un notevole aumento delle entrate statali, mai visto in precedenza, che ha consentito di distribuire risorse alla popolazione – sottraendola a una miseria atavica – e di accumulare capitali per investimenti infrastrutturali, facendo lievitare gli indici macroeconomici; ma ha anche contemporaneamente consolidato la presenza e la penetrazione del capitale imperialista nel Paese andino. Sicché, l’assurdità e la contrarietà di una misura così congegnata rispetto ai principi sbandierati da Evo Morales per costruire la propria politica, vennero denunciate persino da Andrés Soliz Rada, che, come ministro delle Risorse energetiche nel governo, era stato fautore di un ben diverso progetto di nazionalizzazione, prima di essere costretto a dimettersi dall’incarico essendosi scontrato col vicepresidente García Linera, sostenitore invece del sistema tuttora vigente[13].
La negoziazione costante con l’estrema destra
Un’altra caratteristica dell’azione di governo di Morales è stata la sua tendenza a venire costantemente a patti con l’estrema destra e l’oligarchia spodestate dal risultato elettorale del 2005, rifuggendo dall’idea stessa di una resa dei conti che potesse depotenziarle fino a metterle in condizioni di non nuocere.
Emblematico è il caso della crisi che si manifestò nel 2008 nella regione denominata “Media Luna”, e precisamente nei dipartimenti di Santa Cruz, Beni, Pando e Tarija, governati da prefetti facenti capo all’opposizione di destra. Questo territorio, abitato solo da un terzo della popolazione boliviana, possiede una parte molto importante delle ricchezze naturali del Paese, generando quasi il 60% del Pil nazionale e più di due terzi delle esportazioni statali. Nell’agosto di quell’anno, l’oligarchia di quella regione avanzò una richiesta di autonomia talmente spinta da minacciare l’integrità stessa della Bolivia. Si trattava, in tutta evidenza, di una rivendicazione reazionaria da parte di quei settori borghesi, che intendevano così appropriarsi della totalità delle risorse naturali.
Si verificarono forti scontri, con le milizie armate dell’oligarchia bianca che organizzarono attentati contro oleodotti, il boicottaggio di un gasdotto, l’occupazione e l’incendio di strutture statali, fino a realizzare un vero e proprio massacro contro la popolazione indigena della regione, in cui una ventina di contadini venne assassinata.
Ma, una volta ripreso il controllo della situazione, Morales non adottò alcuna misura per farla finita con questi settori reazionari. Al contrario, iniziò un percorso di conciliazione, aprendo un tavolo negoziale con l’oligarchia borghese proprio sul progetto di nuova Costituzione, riconoscendo molte delle rivendicazioni autonomistiche dei dipartimenti ribelli (maggiore controllo sulle risorse naturali, maggiori poteri politici e garanzie per il latifondo) e legittimando così la peggiore destra boliviana. L’esito di questa trattativa sfociò in un progetto di Carta costituzionale ben diverso da quello che era stato licenziato dall’Assemblea costituente.
È evidente come le radici di una presenza oggi, nel 2019, di una destra reazionaria forte ed organizzata, debbano rinvenirsi nella politica capitolazionista di Evo Morales lungo tutti i suoi quasi quattordici anni di mandato: un periodo in cui il Mas ha stretto alleanze con imprenditori e perfino ex membri dell’Ujc (l’organizzazione armata dell’oligarchia della Media Luna), cambiando anche il proprio volto militante, assegnando candidature ad esponenti della classe media a scapito di quelli contadini e indigeni.
La trasformazione regressiva dell’“evismo” fino all’epilogo delle dimissioni
E dunque, la complessiva azione di governo di Evo Morales e del suo Mas ha, in tutta evidenza, prodotto il risultato che è sotto i nostri occhi: il processo rivoluzionario boliviano, con le grandi lotte a difesa di un processo di cambiamento che le masse fortemente auspicavano, è stato depotenziato dalla salvaguardia dei capisaldi di una società capitalistica segnata dalla grande penetrazione del capitale imperialista; dagli innumerevoli accordi con la borghesia reazionaria che era stata sconfitta nel 2005 e dalla sostanziale capitolazione rispetto alle sue rivendicazioni; dalla violenta repressione delle istanze della classe operaia, dei movimenti indigeni e popolari, che chiedevano di approfondire quel processo rivoluzionario di cui erano stati protagonisti, e per la realizzazione del quale avevano scelto proprio Morales.
Tutto ciò, unito alla pervicace volontà di quest’ultimo di restare abbarbicato al potere a dispetto dei mutati umori della società e alla progressiva trasformazione del processo di cambiamento, non più fondato su quelle istanze sociali autodeterminative che sono parte della storia del popolo boliviano, ma deviato nelle secche dell’attività istituzionale dello Stato borghese attraverso la cooptazione dei dirigenti dei movimenti popolari nelle aule parlamentari e nelle stanze del governo e l’epurazione di quelli invisi, ha fatto sì che si producesse un crescente ed evidente distacco fra la base “evista” e il suo leader carismatico, sempre più involucrato nella figura di caudillo che è andato ritagliandosi nel tempo[14].
Non è bastato a Evo forzare la mano con un referendum ad personam per ottenere la possibilità di essere rieletto all’infinito; né gli è bastato, una volta sconfitto nella consultazione, chiedere – e ottenere – da una magistratura compiacente una deroga al divieto di correre per il quarto mandato. Voleva vincere a tutti i costi, ma non si è reso conto che, frattanto, intorno a lui cominciavano a cadere i primi calcinacci di quella costruzione che di lì a poco gli sarebbe crollata addosso.
E così, come ha certificato una società indipendente incaricata dallo stesso governo[15], ha dovuto truccare le elezioni per potersi far bastare un risultato del 47,1%, così distante dagli oceanici consensi superiori al 60% degli anni passati. Ciò ha scatenato le prime proteste popolari.
La notte del 21 ottobre, gruppi numerosi di persone sono scesi in piazza rivendicando un secondo turno: in alcune città si sono registrati incendi a sedi dei tribunali elettorali; il 24 ottobre, in un programma della Televisione Universitaria di La Paz, un ingegnere informatico dimostrava le irregolarità nel computo dei voti; il 27 ottobre le manifestazioni di piazza aumentavano di intensità; il 7 novembre si verificavano violenti scontri fra gruppi a favore e contro il governo; il giorno successivo, alcune unità della polizia di Cochabamba si univano alle proteste; il 9 novembre, falliti i tentativi di imbastire un dialogo con l’opposizione, iniziavano le defezioni degli uomini vicini a Morales, che in blocco rassegnavano le proprie dimissioni; il giorno seguente, nel tentativo di riprendere il controllo della situazione Evo annunciava che sarebbero state convocate nuove elezioni, ma la proposta era respinta; intanto, la Cob, principale bastione fedele a Morales, chiedeva al presidente di compiere un gesto di responsabilità e rinunciare all’incarico[16], ancor prima che lo facesse il capo delle forze armate, generale Kaliman; subito dopo, era proprio Kaliman, un fedelissimo di Evo, a suggerirgli la stessa soluzione[17].
Solo in seguito a questo, verificato che non poteva più contare né sulle organizzazioni sindacali, né sull’esercito, Morales annunciava le proprie dimissioni, specificando che lo faceva dopo essersi consultato con i membri della Conalcam[18], con i dirigenti della Cob e con i vertici della Chiesa cattolica.
In Bolivia c’è stato un golpe?
Questo è il secco succedersi cronologico dei fatti. Ma da qui nasce una diatriba. È stato un golpe a rovesciare Evo Morales? Il presidente boliviano è stato deposto da un colpo di stato?
Per quel che qui ci riguarda, dobbiamo dire che la sinistra rivoluzionaria, sia in Italia che a livello internazionale, non ha imparato nulla dalla vicenda venezuelana, rispetto alla quale pure ha gridato al golpe, mentre la realtà dei fatti ha finora dimostrato il contrario[19]. E infatti, non c’è analisi a sinistra che non ritenga che sia stato proprio un golpe militare a rovesciare Morales, e che detto golpe sia ancora in atto.
A nostro avviso, e con le precisazioni che faremo in seguito, questo giudizio è frutto di impressionismo. Le immagini di poliziotti che reprimono violentemente i sostenitori del Mas e che sfilano insieme ai manifestanti dell’opposizione hanno indubbiamente avuto la meglio su una rigorosa valutazione degli eventi.
Giova innanzitutto evidenziare che, nei primi giorni dalle elezioni, la polizia era in strada a reprimere i manifestanti dell’opposizione che protestavano contro i presunti brogli, quando questi non erano ancora stati accertati[20]: il che non depone certamente a favore di un colpo di stato. Quando poi, l’8 novembre, poche unità della polizia di Cochabamba si sono ammutinate, Morales, che aveva ancora il controllo delle forze armate, ha deciso espressamente di non farle intervenire per ripristinare l’ordine. Solo in seguito, quando è emersa la verità sui brogli elettorali, l’intero corpo di polizia ha deciso di non rispettare più gli ordini di difendere le istituzioni e si è collocata al lato degli oppositori.
Intanto, Evo Morales rimaneva sempre più solo, abbandonato dai suoi uomini al potere che si sono dimessi in massa, dalle organizzazioni – come la Cob – che lo hanno sempre sostenuto, e infine dalle forze armate. Solo allora, consigliatosi perfino con i vertici della Chiesa, ha deciso di dimettersi.
Morales non è stato deposto dai corpi militari, né è stato esautorato o rovesciato da qualche artificio parlamentare (Dilma Rousseff) o giudiziario (Manuel Zelaya). Si è visto politicamente isolato e sconfitto da una debordante pressione di massa ed è uscito di scena sulle proprie gambe[21].
Perché il punto è proprio questo: una mobilitazione popolare, sia pure di segno conservatore o reazionario, è di per se stessa un colpo di stato? La mobilitazione di massa ha fatto vacillare la polizia, ha paralizzato sia le organizzazioni sindacali e sociali che hanno sempre sostenuto Evo, sia le forze armate che hanno deciso di rimanere passive. Ha creato, in definitiva, le condizioni per la sconfitta politica e le dimissioni del presidente boliviano. Ma quella mobilitazione non è essa stessa un golpe, né civico, né militare.
Se dovessimo adottare questo criterio, allora le mobilitazioni che costrinsero alle dimissioni Gonzalo Sánchez de Lozada nel 2003 e Carlos Mesa nel 2005, aprendo la strada alla vittoria elettorale proprio di Evo Morales, dovrebbero essere analogamente considerate … un colpo di stato!
Un “golpe preventivo”
Non sono certamente la pignoleria o minuziosità di stampo accademico a indurci a queste differenziazioni. Il fatto è che un’analisi corretta alla luce dei principi del marxismo rivoluzionario evita di esporsi a pericolosi errori, come quelli in cui sono incorsi tutti coloro che, a sinistra, hanno sostenuto la tesi del golpe contro Morales: che sono poi gli stessi abbagli presi in occasione del fantomatico golpe ai danni di Maduro. E la conseguenza di errori siffatti è particolarmente nefasta: consiste nel dare un appoggio politico al regime o al governo che si pretende essere stato rovesciato dal presunto colpo di stato.
Ma allora – ci potrebbe essere domandato – che significano i corpi di polizia nelle strade a reprimere i manifestanti che reclamano il ritorno di Morales? Non sono la prova evidente del colpo di stato con cui lo si è deposto?
A nostro avviso no. Come abbiamo sostenuto, Evo non è stato destituito dai militari, né da un meccanismo parlamentare o da un cavillo giuridico che potessero paventare un golpe parlamentare o parlamentare‑giudiziario. Evo si è reso conto di trovarsi politicamente isolato e sconfitto, e insieme ai suoi principali uomini ha abbandonato le istituzioni determinando un vuoto di potere che è stato subito colmato dall’opposizione.
Ma allora, che senso ha la forza pubblica in strada? Che senso ha la repressione?
A nostro parere, tutto ciò significa una militarizzazione della società in vista di un progetto di bonapartizzazione funzionale al rovesciamento della politica “evista” portata avanti in questi quattordici anni: un progetto che prevede una nuova divisione della Bolivia su basi etniche e di classe, e un’associazione della reazionaria borghesia boliviana al capitale imperialista straniero per una sua maggiore penetrazione nel Paese e una diversa spartizione dei profitti. Ma è un progetto al quale lo stesso Evo ha da tempo spianato la strada, depotenziando le forze di un processo rivoluzionario che avrebbe invece potuto bloccarlo.
Insomma, se proprio si vuol essere “affezionati” – e non è il nostro caso – a quella parola, non è stato un golpe a rovesciare Morales, ma la borghesia reazionaria oggi al governo ha bisogno adesso di un “golpe preventivo” per portare avanti quel progetto, che altrimenti potrebbe incontrare resistenza nella società boliviana.
“¡Fusil, metralla, Bolivia no se calla!”
Che fare allora? Riteniamo che la sinistra rivoluzionaria abbia finora offerto due risposte simmetricamente errate: da un lato, una sostanziale denuncia sic et simpliciter del presunto colpo di stato, con l’ovvia conseguenza del sostegno, sia pure “critico”, a Morales; dall’altro, la stessa denuncia, ma con la rivendicazione di elezioni libere, il che presuppone una capitolazione non solo al governo deposto (cedendo alla retorica del golpe), ma anche a quello espressione della destra oligarchica e reazionaria, nelle cui mani viene rimessa la richiesta di convocazione di “libere elezioni”.
La classe operaia e contadina, i movimenti indigeni della Bolivia, hanno una forte tradizione di lotta rivoluzionaria. La rivoluzione del 1952 vide i minatori, armati solo della dinamite che usavano in miniera e di vecchi fucili, attaccare i soldati e impadronirsi di un treno carico di armi. Così organizzatisi, i lavoratori sconfissero ben sette reggimenti dell’esercito boliviano, appropriandosi anche in questo caso di tutto l’armamento, ed entrarono vittoriosamente a La Paz. Nelle giornate che segnarono il biennio 2003‑2005, riecheggiava lo slogan “¡Fusil, metralla, Bolivia no se calla!”[22]. Questo slogan deve nuovamente risuonare oggi ed essere messo concretamente in pratica.
Riteniamo che i lavoratori e i contadini boliviani debbano riprendere quella tradizione di lotta rivoluzionaria e scatenare la guerra civile che in questi giorni viene solo evocata durante le manifestazioni: “¡Ahora sí, guerra civil!”. A differenza di quanto accade in Venezuela, dove la classe operaia è debole e sostanzialmente passiva, quella di Bolivia è pur sempre animata dallo stesso spirito rivoluzionario del 1952, benché sopito dai narcotizzanti anni di “evismo”. E, come nel 1952, i minatori boliviani, il settore più avanzato e combattivo, sono ancora armati della dinamite che usano oggi per il loro lavoro[23].
Per accenderne la miccia dovranno soltanto aprire gli occhi e rimuovere la direzione burocratica e conciliatrice alla testa della Cob – che, è bene ricordarlo, nacque come un organismo di potere operaio – prendendo le redini della propria organizzazione; comprendere che solo la forza d’urto delle masse in lotta potrà risolvere i problemi atavici della propria nazione; guadagnare perciò alle proprie rivendicazioni anche i settori meno avanzati delle città e delle campagne; creare le proprie milizie operaie e lanciarle infine contro la destra oligarchica, reazionaria e fascista oggi al governo, e contro le sue bande armate e la sua polizia.
Sarà solo la rivoluzione proletaria a sconfiggere sia la destra oggi al governo, sia le forze riformiste – come Evo Morales – che le hanno consegnato la Bolivia.
La caduta di Morales rappresenta in definitiva un’ulteriore conferma che il nazionalismo borghese, in qualsiasi delle sue possibili varianti, compresa quella “indigenista”, non potrà mai risolvere nessuno dei problemi dei lavoratori e delle masse popolari, di cui soltanto il socialismo rivoluzionario potrà farsi carico.
Note
[1] Una variante del “socialismo del XXI secolo” di Chávez.
[2] “Evo Morales hundido en la corrupción”, El Diario Internacional.
[3] Il c.d. “gasolinazo”, un aumento del 83% dei prezzi e la contemporanea abolizione dei sussidi, incontrò una forte resistenza popolare, sfociata in saccheggi e distruzioni. A fronte della sollevazione il governo decise di abrogare il provvedimento.
[4] Benché il territorio indigeno fosse stato proclamato intangibile, il governo Morales ha previsto la costruzione di una strada di oltre 300 km. all’interno del parco del Tipnis che taglierebbe in due un’area di 1,2 milioni di ettari su cui vivono 68 comunità indigene. Nel 2011 vi furono tre mesi di forti proteste culminate in una marcia di 65 giorni violentemente repressa dall’esercito e dalla polizia.
[5] «Il potere è tossico. Nessuno nega l’importanza dei primi anni del governo, il grande salto economico e l’inclusione di indigeni e contadini che è stata raggiunta, ma in seguito il potere assoluto ha intossicato questo processo».
[6] «Evo Morales non rispetta l’indipendenza dei poteri né la libertà di espressione. Perderà per aver tradito la sua base».
[7] «Il Paese ha perso due decenni di conquiste democratiche, tra cui il diritto civico di elettorato attivo e passivo, la trasparenza e l’uguaglianza nel processo elettorale».
[8] «C’è una pseudosinistra da salotto che svolge il vergognoso ruolo di alleata delle forze ultraconservatrici e ci accusa di non aver rotto con il mercato e l’estrattivismo».
[9] Sulla rivoluzione che nel 1952 portò le classi lavoratrici e le masse contadine boliviane a un passo dalla presa del potere e all’instaurazione di uno Stato socialista torneremo con un prossimo articolo.
[10] L. Tapia, El estado de derecho como tiranía, Cides‑Umsa, 2011, pp. 109 e ss.
[11] Nelle parole dello stesso Linera nell’articolo “El evismo: lo nacional‑popular en acción”.
[12] «La Bolivia continuerà ad essere un Paese capitalista, però con maggior forza di negoziazione di fronte ai nodi del capitalismo mondiale», “Entrevista a Álvaro García Linera, vicepresidente de Bolivia”, Sinpermiso, 9/7/2006.
[13] A. Soliz Rada, “Bolivia: la nacionalización arrodillada”, Aporrea, 1/4/2007.
[14] Tapia evidenzia come il Mas abbia progressivamente distrutto l’autonomia delle organizzazioni indigene e contadine, praticando una politica divisionista in quelle di cui non è riuscito a prendere la direzione o che sostenevano posizioni contrarie rispetto alla politica di estrattivismo spinto, fomentando dunque scissioni interne e intimidendone i dirigenti che pretendevano di tenere una posizione distinta e autonoma rispetto a quella del governo. «In questo senso – conclude Tapia – [il Mas] è una forza controinsorgente e antidemocratica, antindigena e antipopolare […] opera come una forza disorganizzatrice del popolo, […] ha eliminato il pluralismo al suo interno e nelle relazioni col mondo delle classi popolari. È diventato una forza politica monologica, che crede di incarnare la razionalità dello Stato e la rappresentazione del popolo senza ascoltare e dialogare con le diverse voci e i corpi del popolo boliviano e delle nazionalità che da tempo rivendicano la propria autodeterminazione. Questo è un tratto di eliminazione della democrazia. Questo è un tratto delle tirannie» (L. Tapia, op. cit., pp. 117 e s.).
[15] “Empresa auditoria denuncia que proceso electoral en Bolivia fue vulnerado”, Cnn, 8/11/2019.
[16] “COB: «Si es por el bien del país, que renuncie nuestro Presidente»”, Erbol, 10/11/2019.
[17] Contrariamente a quanto riportato da alcuni organi di stampa (El País), le forze armate non hanno “imposto”, ma solo “suggerito” a Morales di dimettersi in vista della pacificazione nazionale, com’è reso evidente dal video sopra pubblicato. Va comunque precisato che subito dopo l’autoproclamazione della nuova presidente, Áñez, Kaliman è stato rimosso dall’incarico e sostituito da un altro militare fedele al nuovo governo.
[18] Coordinadora Nacional por el Cambio, un’organizzazione vicina al governo.
[19] A quasi un anno di distanza dall’autoproclamazione, di Guaidó non c’è più traccia, mentre il dittatore “socialista” Maduro resta ben saldo al suo posto. Per la polemica che abbiamo tenuto con le organizzazioni che chiamavano alla difesa del regime venezuelano dal presunto “golpe” rinviamo ai testi pubblicati su questo stesso sito qui, qui e qui.
[20] Vi sono molti articoli di stampa che danno conto dell’azione della polizia contro i manifestanti facenti capo all’opposizione e a difesa delle istituzioni: per esempio, qui, qui, qui, qui e qui.
[21] Ci piace qui ricordare un’efficace analisi su che cos’è un colpo di stato, alla quale abbiamo spesso fatto ricorso in altri testi su questo sito.
[22] “Fucile, mitragliatrice, la Bolivia non si ferma!”.
[23] «… finché esisterà il capitalismo, la repressione violenta del movimento operaio è un pericolo latente. […] dobbiamo armare i lavoratori. Per respingere le bande fasciste e i crumiri, forgiamo picchetti operai ben armati. Da dove prendere le armi? La cosa fondamentale è insegnare ai lavoratori di base che debbono armarsi contro la borghesia armata fino ai denti; i mezzi poi li troveremo. Abbiamo forse dimenticato che ogni giorno lavoriamo con potenti esplosivi?» (Tesi di Pulacayo, approvate il 12/11/1946 dalla Federación Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia).