Venezuela: e ora?
Uno spartiacque per i marxisti rivoluzionari
Valerio Torre
Ci siamo interessati a più riprese su questo sito alle vicende che riguardano il Venezuela[1]. Torniamo a farlo ora, quando il neopresidente del parlamento (Asamblea Nacional), Juan Guaidó, un deputato trentacinquenne pressoché sconosciuto e solo pochi giorni prima asceso a quell’incarico, si è autoproclamato presidente della repubblica ad interim lo scorso 23 gennaio, durante una manifestazione di piazza[2]. Ad eccezione di Russia, Cina, Turchia, Cuba, El Salvador, Bolivia, Nicaragua, Uruguay e Messico, il consesso internazionale degli Stati ha praticamente già riconosciuto – o sta per farlo – Guaidò come nuovo presidente.
La plateale entrata in scena di quest’ultimo – che ha scatenato contrapposte dimostrazioni portando nelle strade i sostenitori suoi e quelli del presidente in carica, Nicolás Maduro, e generando scontri con la polizia, con un saldo di alcune decine di morti, parecchi feriti e numerosi arresti – è giunta al culmine di una serie di atti e dichiarazioni con cui diversi Paesi intenderebbero cambiare il corso della politica interna ed internazionale del Paese caraibico. Infatti, dopo che nell’agosto del 2017 il presidente americano, Donald Trump, ebbe a dichiarare che non era da scartare un’opzione militare riguardo al Venezuela[3]; dopo che già alcuni mesi or sono la stampa ha rivelato che tra l’autunno del 2017 e i primi mesi del 2018 si erano svolte riunioni segrete fra comandanti militari venezuelani ed emissari del governo statunitense per discutere la possibilità di rovesciare Maduro con l’appoggio degli Usa[4]; dopo che nello scorso mese di agosto è filtrata la notizia secondo cui Trump, pur venendone sconsigliato, ha ripetutamente tentato di forzare i propri consiglieri ad accettare l’idea di un’invasione militare in Venezuela[5]; dopo tutto questo, e sullo sfondo del perdurare delle sanzioni economiche decretate contro il governo chavista, recentemente, il c.d. “Gruppo di Lima” – un’organizzazione intergovernativa costituitasi nell’agosto del 2017, nel pieno della crisi venezuelana, e formata da dodici Paesi del continente – prendendo a pretesto l’intercettazione e l’allontanamento da parte della marina venezuelana di due navi di ricerca petrolifera contrattate dalla ExxonMobil sconfinate nelle acque territoriali del Paese, ha emesso una dichiarazione in cui metteva in discussione la sovranità del Venezuela[6], salvo in un secondo momento rettificarla[7].
Le reazioni delle organizzazioni di sinistra
Ma, oltre a generare le forti proteste di piazza, l’autoproclamazione da parte di Guaidó ha anche prodotto la reazione della sinistra, sia italiana che internazionale. Una reazione non univoca, dal momento che, come segnalammo nel già richiamato articolo “Venezuela: l’agonia di un’illusione”, le sorti del Paese caraibico e del regime chavista che lo governa costituiscono uno spartiacque. Non univoca, epperò legata da un comune e condiviso dato di partenza, come vedremo di qui a poco.
Nel testo appena citato caratterizzammo il governo (e il regime) di Maduro come quella forma particolare di nazionalismo borghese che Trotsky definì “bonapartismo sui generis”: e, in particolare, rientrante nella sua versione “reazionaria”, cioè quella che esercita il potere instaurando una «dittatura poliziesco‑militare»[8]. Non torniamo qui sulla tesi allora sostenuta, ma che la realtà dei fatti ha ulteriormente confermato: e cioè che il chavismo, di Chávez prima e a maggior ragione di Maduro poi, nulla ha a che vedere col socialismo, «né del XXI, né del XX, né del XIX, né di nessun altro secolo», dato che il regime venezuelano altro non è che capitalista.
E allora, per riprendere il discorso, dopo l’entrata in scena di Guaidó, alcune organizzazioni della sinistra – in particolare quelle che sono espressione di ciò che resta dello stalinismo, o che si collocano in una tradizione “campista” – sostengono in pieno Maduro e il suo regime, gridando al golpe e all’intervento militare (anche se, a dire il vero, il loro sostegno è sempre stato attivo, indipendentemente dalla situazione odierna). È il caso, ad esempio, in Italia, della formazione neo‑riformista Potere al popolo, che esprime molto chiaramente questa posizione[9], così come pure Rifondazione comunista[10].
Altre organizzazioni, come la Quarta Internazionale (di derivazione pablista e mandelista) con la sua sezione italiana Sinistra Anticapitalista, seppur avanzando critiche nei confronti di Maduro, finiscono per dislocarsi nel suo campo politico, sostenendo che sono in atto un colpo di stato e un intervento imperialista, e facendo appello a «difendere la sovranità del popolo venezuelano perché possa risolvere i propri problemi politici, sociali ed economici in maniera democratica e pacifica, […] rispettando la maggioranza espressa dal voto»[11].
Assumono, invece, una posizione apparentemente più netta i partiti argentini (Partido Obrero, Partido de los Trabajadores Socialistas, Izquierda Socialista) che compongono il Fit (Frente de Izquierda y de los Trabajadores). Ma, nonostante qualche pennellata di rosso e una più vigorosa critica a Maduro e al suo governo, la dichiarazione pubblica di queste tre organizzazioni[12] parte sempre dal presupposto di un presunto colpo di stato imperialista in atto contro cui bisognerebbe reagire difendendo la “sovranità” del Venezuela, come ha ben spiegato in un impeto di nazionalismo patriottardo il dirigente nazionale del Pts, Christian Castillo, secondo cui «gli Stati Uniti, per mano di Trump, stanno organizzando un’ingerenza su un Paese, dal momento che vogliono appropriarsi del petrolio»[13]. Lo stesso argomento, insomma, che sta usando Maduro.
Benché condivida con le altre organizzazioni segnalate il punto di partenza del tentativo di golpe e di intervento imperialista nell’analisi che propone, la Lit‑Quarta Internazionale merita una menzione a parte per agitare la parola d’ordine della cacciata di Maduro[14], di fatto dislocandosi nel campo politico della destra reazionaria, visto che questa rivendicazione è avanzata proprio dall’opposizione borghese. D’altronde, quest’organizzazione non è nuova a questo tipo di politica, avendola proposta anche in Brasile, quando ha rivendicato l’arresto di Lula, rifiutandosi di schierarsi contro l’impeachment di Dilma Rousseff[15].
Ancora una volta: dov’è il golpe?
E dunque, tutte queste posizioni hanno in comune il presupposto che vi sarebbe un golpe (o un tentativo di golpe) in corso e un intervento imperialista nei confronti del Venezuela.
Nel più volte richiamato articolo “Venezuela: l’agonia di un’illusione” – eravamo nell’agosto 2017 – ponevamo una domanda: «Dov’è il golpe?». E spiegavamo che quella che vedeva un intervento militare alle porte era soltanto una lettura impressionista della situazione, fornendo invece gli elementi che deponevano in senso contrario, e in particolare di una possibile stabilizzazione del regime: circostanza, quest’ultima, che si è infatti prodotta nell’anno e mezzo che è trascorso da allora grazie all’insediamento di una fraudolenta Assemblea costituente che ha fornito un importante sostegno a Maduro esautorando l’Assemblea nazionale da ogni potere e funzione.
Oggi siamo in presenza di un “iperattivismo” dell’imperialismo statunitense e dei suoi satelliti, che verosimilmente trova almeno in parte la sua spiegazione nel fatto che la crescente presenza commerciale e politica di Russia e Cina in Venezuela rappresenta una potenziale minaccia per la politica di Trump: un iperattivismo che riposa su forti sanzioni economiche che hanno continuato a colpire il Paese caraibico ininterrottamente.
E allora, nonostante il tempo trascorso dall’agosto 2017, ci sentiamo di porre ancora oggi la stessa domanda: «Dov’è il golpe?». Dov’è il golpe se la notte prima dell’autoproclamazione Guaidó si incontrò segretamente con Diosdado Cabello, numero due del regime e uomo di assoluta fiducia di Maduro?
Dov’è il golpe se l’opposizione (che è maggioranza nel parlamento esautorato dall’Assemblea costituente) non ha la minima influenza sulla macchina statale, sulle forze armate, sui mezzi di comunicazione del regime, sulla Banca centrale e le principali istituzioni finanziarie, nonché sulle più importanti leve dell’apparato produttivo[16]? Dove, se persino mentre scriviamo, e a una settimana dall’autoproclamazione, governo e opposizione sono seduti a un tavolo di negoziato permanente[17]?
Dove, se negli stessi Stati Uniti, e persino in ambienti conservatori, la politica di Trump per il Venezuela viene apertamente criticata? Jacob Heilbrunn, editore della rivista conservatrice di affari esteri The National Interest, autore del libro They Knew They Were Right: the Rise of the Neocons e forte critico del progetto bolivariano, ha recentemente irriso il presidente statunitense sostenendo che la sua preoccupazione per la democrazia in Venezuela, oltre ad essere in contrasto col suo andare a braccetto con dittatori di mezzo mondo, tra cui il saudita Mohammad bin Salman e il nordcoreano Kim Jong‑un, ha rappresentato una bella cortina fumogena per coprire i problemi che gli derivavano dal government shutdown (il blocco dei finanziamenti governativi). Inoltre, ha apertamente sostenuto che un intervento militare statunitense per rovesciare Maduro equivarrebbe a «calpestare una mina per curare un mal di testa»[18]. A sua volta, lo studioso conservatore di politica estera e sicurezza internazionale degli Usa, Benjamin Denison, ha allertato sul pericolo di un intervento militare statunitense in Venezuela[19], mentre l’analista ed esperto in Sicurezza internazionale, Daniel Larison, ha spiegato che con un’invasione per favorire un cambio di regime «assolutamente nessun obiettivo statunitense sarebbe raggiunto», col pericolo che «milioni di venezuelani si opporrebbero alla nostra presenza militare e molti di loro resisterebbero violentemente»[20], in ciò trovandosi d’accordo con la Senior Correspondent della National Security, Kathie Bo Williams, secondo cui «gli analisti militari e regionali avvertono che qualsiasi intervento militare in Venezuela dovrebbe misurarsi con una serie di sfide pratiche che lo rendono una scelta politica improbabile, e molti dicono imprudente»[21].
Ancora: dov’è il golpe se, pochi giorni prima dell’autoproclamazione di Guaidó, l’impresa statale venezuelana Pdvsa ha stretto un accordo commerciale con l’impresa statunitense Erepla, parzialmente controllata dalla Florida repubblicana per lo sfruttamento dei pozzi e la commercializzazione del petrolio estratto nei campi Rosa Mediano e Tía Juana[22]; e se, perfino dopo il riconoscimento di Guaidó da parte di Trump, Maduro ha confermato che continuerà a vendere petrolio agli Usa[23]?
E infine, dov’è il golpe, se tuttora, nonostante serpeggi in esse un certo malcontento, le forze armate e in particolare l’apparato repressivo dello Stato hanno giurato fedeltà a Maduro[24]? Il fatto è che, come efficacemente ha sintetizzato l’analista Virginia Rosas, «senza tintinnar di sciabole non ci sarà alcun cambio in Venezuela»[25]. Ciò, in quanto i militari hanno un peso rilevante nelle alte sfere dell’amministrazione statale, con undici ministri, oltre a governare pressoché tutta l’economia del Paese: hanno una forte presenza nell’amministrazione dell’industria di Stato del petrolio Pdvsa (che da sola apporta il 96% delle entrate valutarie nel Paese!) e controllano e dirigono la banca Banfanb, l’impresa agricola Agrofanb, quella dei trasporti Emiltra, delle comunicazioni Emcofanb, il canale televisivo Tvfanb, l’impresa mista di progetti di tecnologia Tecnomar, il fondo d’investimento Fimnp, l’impresa di costruzioni Construfanb, l’impresa mista Cancorfanb, delle acque minerali Água Tiuna, nonché la Caminpeg, una compagnia anonima di industrie minerali, petrolifere e del gas, creata nel febbraio 2016 e che passa per essere una Pdvsa parallela. Come se non bastasse, controllano le gigantesche ricchezze minerarie dell’Orinoco, dove esistono grandi riserve d’oro che il Paese sfrutta avvolto da un alone di segretezza che può spiegarsi solo con la corruzione.
E dunque, le forze armate venezuelane non svolgono solo la funzione di difesa nazionale, ma sono il principale pilastro dell’economia. Ecco perché, come conclude il suo articolo Virginia Rosas, «a meno che non ci sia un altro asso nella manica, tutto lascia supporre che Maduro pernotterà nel Palazzo di Miraflores per altro tempo ancora».
La natura del regime venezuelano: un “socialismo” della miseria
Allora, non essendo in atto un golpe militare o un intervento armato dell’imperialismo, i marxisti rivoluzionari, pur continuando a ripudiare la squallida e reazionaria opposizione borghese che, oggi diretta da Guaidó, sta tentando di recuperare il controllo dell’amministrazione dello Stato e della sua economia con l’avallo e il sostegno degli imperialismi di tutto il mondo, non possono dare in questa fase il proprio appoggio a Maduro e al suo regime. Farlo significherebbe sostenere politicamente un governo capitalista qual è quello chavista. Di più! Un governo che non solo abusivamente si definisce “socialista”, ma che è invece l’espressione di una dittatura capitalista, non disposta a tollerare le minime proteste dei lavoratori per migliori condizioni: basti pensare che appena due mesi fa sono stati arrestati, per mano di uomini della Direzione Generale del Controspionaggio Militare (Dgcim), quindici operai, tra cui Rubén González e José Hidalgo, segretari generali di due sindacati che hanno organizzato delle manifestazioni per rivendicare diritti lavorativi e salariali più favorevoli[26].
Il fatto è che il chavismo‑madurismo che da vent’anni sta governando il Venezuela ha raccontato la frottola della costruzione del “socialismo del XXI secolo”, mentre invece costruiva una società capitalista e una nuova borghesia, la “boliborghesia”; e quello che è in atto oggi – ma non da oggi, bensì dall’ascesa di Chávez – è lo scontro tra due borghesie che, in rappresentanza di interessi contrapposti, puntano ad avere il governo dello Stato per gestire le enormi risorse di cui il Venezuela dispone, e a dispetto delle quali si è trasformato in uno dei Paesi più poveri del mondo, con un salario fra i più miserabili.
Quella che enfaticamente viene definita “rivoluzione bolivariana” non è stata affatto una rivoluzione, men che meno socialista. Una rivoluzione socialista presuppone un cambio nei rapporti di proprietà e di produzione, presuppone che la classe operaia governi l’economia attraverso i suoi stessi organismi espellendo dal controllo di questa la borghesia. Ma tutto ciò non è accaduto in Venezuela, in cui la gran parte delle industrie è in mano ai privati, che pure hanno quote di proprietà in molte delle aziende pubbliche. Come poi abbiamo avuto modo di segnalare in altri articoli su questo sito, le politiche chaviste non sono state concepite per aumentare l’industrializzazione e la produttività. Anzi: è aumentata a dismisura la deindustrializzazione mentre è crollata la produzione agricola. L’inflazione è attualmente a 1.300.000%[27], mentre il Fmi stima che alla fine del 2019 raggiungerà la cifra del 10.000.000%, con un indice di disoccupazione che nello stesso periodo dovrebbe attestarsi intorno al 38%[28]. Tutto ciò ha lasciato il Venezuela nella miseria estrema, tanto da indurre fino ad oggi tre milioni circa di venezuelani ad abbandonare il proprio Paese[29] in quello che le immagini degli ultimi mesi ci hanno mostrato come un vero e proprio esodo.
Questa miseria estrema ha indotto una parte rilevante delle classi popolari a scendere in piazza – prima nel 2014, poi nel 2017 e infine oggi – per rivendicare miglioramenti, ma anche per protestare contro la violenta repressione che il regime madurista scatena, uccidendo, ferendo, arrestando centinaia di persone quotidianamente. Ma, questa volta, anche chiedendo un cambio profondo nell’amministrazione dello Stato, attraverso elezioni con le minime garanzie democratiche.
È chiaro che di questa situazione tenta di approfittare l’opposizione borghese, così come cerca di avvalersene l’imperialismo (principalmente quello statunitense), come sempre accade in presenza di crisi politiche, e ancor di più quando – come nel Venezuela di oggi – queste si producono nel quadro di una gigantesca crisi economica e sociale. Pensare, come fa il grosso delle organizzazioni della sinistra internazionale, che l’importante sollevazione popolare in atto sia il frutto di una trama dell’imperialismo significa capitolare all’infantilismo e all’impressionismo.
Il fatto che una parte rilevante delle classi popolari venezuelane (incluso settori che si riferiscono al chavismo delle origini) abbia rotto con il regime e ne chieda la caduta non è il prodotto di un astuto piano di Trump, ma è l’esito abbastanza prevedibile delle politiche ventennali di un regime nazionalista borghese che, non avendo nelle sue corde un progetto socialista, ha gettato acqua sul fuoco di un processo rivoluzionario apertosi con il “Caracazo” del 1989 fino a spegnerlo del tutto. Il chavismo, con il suo mistificatorio progetto del “socialismo del XXI secolo” ha cooptato e inglobato nell’amministrazione dello Stato una parte maggioritaria della sinistra socialista venezuelana, facendo tabula rasa delle organizzazioni alla propria sinistra e reprimendo ferocemente chi non si adeguava. Ecco perché settori delle masse popolari, e persino di lavoratori che si identificano col chavismo delle origini, rompendo col regime bonapartista di Maduro, non trovano nulla che a sinistra possa rappresentare le loro aspirazioni e tendono a trovare nell’opposizione borghese di destra l’espressione della loro insoddisfazione, sperando che in qualche modo la loro situazione cambi in meglio.
Nella disastrosa situazione che vent’anni di chavismo hanno in tal modo determinato, la sfida per i marxisti conseguenti è estremamente difficile in un campo così polarizzato tra un regime sempre più dispotico e una destra reazionaria e subalterna all’imperialismo. Questo è, a ben vedere, il frutto amaro della politica di capitolazione che una parte importante dei dirigenti del movimento operaio venezuelano ha messo in pratica, sacrificando la prospettiva rivoluzionaria per integrarsi nel partito unico (Psuv) e nei sindacati di regime, rinunciando di fatto al suo ruolo di direzione e consegnando così mani e piedi se stessa e la classe lavoratrice alla burocrazia chavista.
Alcune nozioni teoriche a beneficio degli impressionisti: campo politico e campo militare
In questo quadro disastrato, non si può stare nel campo politico di un regime dittatoriale, antipopolare e antioperaio, dandogli sostegno con la giustificazione di un golpe che non è – almeno per ora – né concreto, né attuale. Non è infrequente leggere, soprattutto sui social, citazioni con cui i filomaduristi di ogni tendenza tentano di infiocchettare la propria capitolazione al regime chavista: in particolare, ci siamo imbattuti nei riferimenti – fatti del tutto a sproposito – alle posizioni espresse da Trotsky riguardo al Negus dell’Etiopia e al regime semifascista brasiliano di Vargas.
Sulle due questioni che gli furono sottoposte, Trotsky fece lo stesso ragionamento. Nel primo caso, si trattava dell’aggressione militare del fascismo italiano all’Etiopia governata da Hailé Selassié, e il rivoluzionario russo evidenziò il carattere antimperialista della lotta armata del Paese aggredito, dichiarandosi a favore della vittoria militare dell’Etiopia sull’Italia, quest’ultima non in quanto fascista ma perché imperialista[30]. Nel secondo caso, invece, Trotsky fece un esempio solo ipotetico per poter sviluppare la medesima idea: «In Brasile esiste oggi un regime semifascista che tutti i rivoluzionari non possono non odiare. Supponiamo, tuttavia, che domani l’Inghilterra entri in un conflitto militare con il Brasile. Le chiedo: da quale parte si schiererà la classe operaia? Personalmente le risponderò: in questo caso io starei dalla parte del Brasile “fascista” contro l’Inghilterra “democratica”. Perché? Perché nel conflitto tra questi due Paesi non si porrà un problema di democrazia o di fascismo. Se l’Inghilterra vincesse, imporrebbe a Rio de Janeiro un altro dittatore fascista e imprigionerebbe il Brasile con una duplice catena. Se, al contrario, vincesse il Brasile, ciò darebbe un poderoso impulso alla coscienza democratica e nazionale del Paese e porterebbe al rovesciamento della dittatura di Vargas. La sconfitta dell’Inghilterra sarebbe contemporaneamente un colpo per l’imperialismo britannico e stimolerebbe il movimento rivoluzionario del proletariato inglese»[31]. Ma come si vede, anche in questo caso, sulla scia di quanto segnalato nella nota 30, Trotsky ipotizzava un conflitto armato concreto e attuale, postulando la conformazione di un blocco militare, e non politico col Paese aggredito.
Andrebbe consigliato a coloro che capitolano al madurismo pensando di utilizzare fuori contesto citazioni di Trotsky prese un po’ a casaccio, di studiare meglio l’intero sviluppo dell’opera del rivoluzionario russo. Scoprirebbero che, come segnala efficacemente Paolo Casciola[32], la politica del blocco militare contro l’aggressione imperialista fu una costante negli scritti di Trotsky, che l’applicò in Spagna spiegando che «partecipando in prima linea nella lotta contro Kornilov, i bolscevichi non assumevano la sia pur minima responsabilità per la politica di Kerensky; anzi, la denunciavano in quanto responsabile dell’attacco reazionario e incapace di dominarlo. Fu così che si prepararono le premesse politiche della Rivoluzione d’ottobre […]»[33].
E Trotsky applicò questa politica anche negli scritti relativi alla guerra cino‑giapponese, evidenziando che «i rivoluzionari operai, partecipando alla guerra […], non possono né devono assumere la sia pur minima responsabilità politica per il governo borghese. In tempo di guerra, l’avanguardia rivoluzionaria si mantiene in opposizione irreconciliabile rispetto alla borghesia. Il compito dell’avanguardia consiste in ciò: che, basandosi sull’esperienza della guerra, deve raggruppare gli operai attorno all’avanguardia rivoluzionaria, […] e così preparare l’autentico governo operaio e contadino, cioè la dittatura del proletariato […]»[34]. E, come se non bastasse, aggiunse che i comunisti devono conservare «la loro indipendenza organizzativa e politica; cioè […], durante la guerra nazionale contro l’imperialismo straniero, l’avanguardia operaia, restando in prima linea del combattimento militare, prepara politicamente il rovesciamento della borghesia»[35].
Crediamo di aver fornito parecchi elementi per affermare, contrariamente a quanto i sostenitori dell’appoggio a Maduro asseriscono, che solo in ipotesi di aggressione armata i rivoluzionari possono e debbono formare un blocco militare – e non già politico – con il governo borghese attaccato dall’imperialismo, smascherandolo agli occhi delle masse, e proprio mentre si combatte assieme ad esso contro il comune nemico (ma in piena indipendenza politico‑organizzativa), come il responsabile delle politiche che hanno portato all’aggressione imperialista. Con questa postura, e solo grazie ad essa, i rivoluzionari potranno poi rovesciare l’occasionale alleato militare.
Questa politica, come dovrebbe essere evidente, evita sia la capitolazione al governo nazionalista borghese chavista, sia l’imbelle posizione del “né … né”, sia infine il blocco con l’opposizione della destra reazionaria e filoimperialista che inevitabilmente si stringerebbe rivendicando l’immediata cacciata di Maduro[36].
Che fare?
E dunque, in assenza di un’aggressione militare concreta e attuale i marxisti non possono dare a Maduro e al suo regime il proprio sostegno, che sarebbe politico. Cosa diversa sarebbe se gli imperialisti ponessero in atto un’invasione militare o un qualsiasi inequivoco atto di guerra: allora sarebbe dovere morale di tutti i rivoluzionari stringersi nella difesa militare dei lavoratori e delle masse popolari venezuelane, denunciando ai loro occhi la responsabilità del regime per averli condotti in quella situazione; e sarebbe un dovere politico costruire in tal modo le basi per il futuro governo operaio, dopo aver cacciato ed espropriato la borghesia e sconfitto con la forza delle masse in armi l’aggressore. Ma al momento, sulla base dell’analisi della realtà come abbiamo potuta percepirla, crediamo che non ci sarà un golpe: le potenze capitaliste stringeranno ancor di più il cerchio intorno a Maduro, con la recrudescenza delle sanzioni commerciali faranno in modo di indebolire ulteriormente il suo regime, cercheranno di spezzare il sostegno ad esso delle forze armate, non già per attuare un colpo di stato che non incontri la resistenza dell’esercito, ma per assicurare in qualche modo a questo, con una soluzione negoziata, la possibilità di un controllo (ovviamente più marginale) delle leve dell’economia eliminando così l’ostacolo principale alla realizzazione di un cambio di regime. Potremmo ovviamente sbagliarci: fra gli strumenti del marxismo non è prevista la palla di cristallo. Tuttavia, con il limite di dovere avanzare un’analisi a una decina di migliaia di chilometri di distanza e sulla sola base della lettura di articoli di stampa e delle impressioni di chi invece sta vivendo sulla propria pelle quanto accade, crediamo di avere utilizzato nel modo migliore possibile questi elementi per presentare una costruzione coerente. Ma anche nell’ipotesi in cui gli eventi dovessero precipitare, nel senso di un intervento armato in tempi brevissimi, la sostanza di quanto abbiamo detto non cambierebbe.
Oggi come oggi, nel quadro desolante della sinistra venezuelana, i marxisti rivoluzionari in Venezuela, consapevoli che il tempo gioca a loro sfavore e della limitatezza delle proprie forze per le ragioni che abbiamo esposto, non possono realisticamente far altro che condurre una lotta per obiettivi minimi democratici, per migliori condizioni di vita e di lavoro, cercando frattanto di costruire organismi indipendenti dei lavoratori come primo passo per l’edificazione di un partito marxista rivoluzionario, indispensabile per affrontare la fase che verrà.
Qualunque essa sia.
Note
[1] In ordine cronologico: R. Astarita, “Debito estero e liberazione nazionale del XXI secolo”; E. de Agrela, “La sinistra socialista e l’aggravamento della crisi in Venezuela”; E. de Agrela, “Venezuela: sulla convocazione dell’Assemblea nazionale costituente”; V. Torre, “Venezuela: l’agonia di un’illusione”; M. Sutherland, “La rovina del Venezuela non è dovuta al «socialismo» o alla «rivoluzione»”.
[2] “Guaidó se juramentó como presidente interino de Venezuela”, El Nacional, 23/1/2019 (http://tiny.cc/p8xp2y).
[3] “Trump: «Non esclusa opzione militare in Venezuela»”, La Stampa, 12/8/2017 (http://tiny.cc/oe0p2y).
[4] “Trump administration discussed coup plans with rebel venezuelan officers”, The New York Times, 8/9/2018 (http://tiny.cc/f2zp2y).
[5] “Trump pressed aides on Venezuela invasion, US official says”, Associated Press, 5/7/2018 (http://tiny.cc/3m1p2y).
[6] “Declaración del Grupo de Lima” (http://tiny.cc/6w1p2y).
[7] “Diez países del Grupo de Lima se rectifican sobre Venezuela”, Tiempo Argentino, 13/1/2019, (https://tinyurl.com/yacdbbcs).
[8] L. Trotsky, “Los sindicatos en la era de la decadencia imperialista”, in Escritos latinoamericanos, Ceip “León Trotsky”, 2007, p. 179 e ss.
[9] “Con il presidente Maduro e la rivoluzione bolivariana” (http://tiny.cc/9s7p2y) e “No al Golpe contro il Venezuela bolivariano. L’Italia non deve essere complice di questo crimine” (http://tiny.cc/7v7p2y).
[10] “Giù le mani dal Venezuela! No al golpe made in Usa!” (http://tiny.cc/6x7p2y).
[11] “No to the coup in Venezuela! For a democratic solution to the crisis!”, International Viewpoint, 24/1/2019 (http://tiny.cc/tg9p2y). Solo di passata, osserviamo che l’ultima espressione citata della dichiarazione è semplicemente assurda: quale “maggioranza espressa dal voto” bisognerebbe “rispettare”? Quella sfociata nella contestata rielezione di Maduro, e cioè del dittatore che sta portando alla rovina i lavoratori e le classi popolari venezuelane? In questo caso, con la conseguenza di dare pieno appoggio politico a Maduro, assumendo il ruolo di stampella del suo regime. Oppure quella che ha visto l’opposizione di destra della Mud ottenere la maggioranza in parlamento? E in questo caso la conclusione non potrebbe essere peggiore: la Quarta Internazionale dà pieno appoggio a Juan Guaidó!
[12] “Declaración del Frente de Izquierda contra la ofensiva golpista en Venezuela”, 25/1/2019 (http://tiny.cc/4wfq2y).
[13] La Izquierda Diario, 25/1/2019 (http://tiny.cc/46gq2y).
[14] “Declaración ante los hechos en Venezuela”, 25/1/2019 (http://tiny.cc/a5wq2y). Ma la stessa posizione la troviamo sviluppata in tutti i testi elaborati dalla Lit a proposito del Venezuela.
[15] Ne abbiamo diffusamente parlato su questo sito nell’articolo “Il Brasile, il golpe e l’arresto di Lula spiegati a mio nonno” (http://tiny.cc/u0wq2y).
[16] Rinviamo alla felice definizione del concetto di colpo di stato offerta dallo studioso brasiliano Alvaro Bianchi, secondo il quale «il soggetto del colpo di stato moderno è […] una frazione della burocrazia statale. Il colpo di stato non è un golpe nello Stato o contro lo Stato. Il suo protagonista si trova all’interno dello stesso Stato, potendo essere, perfino, lo stesso governante. I mezzi sono eccezionali, cioè, non sono caratteristici del funzionamento regolare delle istituzioni politiche. Tali mezzi si caratterizzano per l’eccezionalità dei procedimenti e delle risorse messe in atto. Il fine è il mutamento istituzionale, una alterazione radicale nella distribuzione di potere fra le istituzioni politiche, con la sostituzione o meno dei governanti. Sinteticamente, colpo di stato è un cambiamento istituzionale promosso sotto la direzione di una frazione dell’apparato dello Stato che utilizza a tale scopo misure e risorse eccezionali che non appartengono alle regole usuali del gioco politico» (“O que é um golpe de estado?”, Blog Junho, 26/3/2016, all’indirizzo https://tinyurl.com/y7d434xx). Quali di questi elementi possiamo rinvenire nella farsesca autoproclamazione di Guaidó? La risposta è: nessuno!
[17] “Canciller: Gobierno venezolano mantiene constante comunicación con la oposición”, Últimas noticias, 27/1/2019 (https://tinyurl.com/y8ad4sld).
[18] J. Heilbrunn, “Why does Trump suddenly care about democracy in Venezuela?”, Spectator Usa, 24/1/2019 (http://tiny.cc/3blr2y).
[19] B. Denison, “Trump’s challenge to Venezuela’s president could lead to a military occupation. Here’s why – and why that’s dangerous”, The Washington Post, 24/1/2019 (http://tiny.cc/q3lr2y).
[20] D. Larison, “Why intervention in Venezuela must be rejected”, The American Conservative, 24/1/2019 (https://tinyurl.com/yajznrwx).
[21] K.B. Williams, “Is Trump setting the stage for a military intervention in Venezuela?”, Defense One, 24/1/2019 (http://tiny.cc/iumr2y).
[22] “Venezuela’s PDVSA in oil deal with firm part‑owned by Florida Republican”, Reuters, 7/1/2019, (http://tiny.cc/izor2y).
[23] “Maduro diz que Venezuela continuará a vender petróleo aos EUA, mesmo após romper relações”, R7 Notícias, 25/1/2019 (http://tiny.cc/o9or2y).
[24] “Fuerza Armada de Venezuela respalda a Nicolás Maduro: «Nosotros tenemos un solo presidente»”, TeleSur, 28/1/2019 (http://tiny.cc/4mnr2y).
[25] “Sin ruido de botas no hay cambio en Venezuela”, El Comercio, 26/1/2019 (https://tinyurl.com/y9w489x3).
[26] “Reclamos por beneficios contractuales dejó 15 trabajadores detenidos”, Primicia, 30/12/2018 (http://tiny.cc/t11r2y). V. anche “Fiscalía Militar fija audiencia preliminar de sindicalista Rubén González para febrero”, Tal Cual, 17/1/2019 (http://tiny.cc/i41r2y).
[27] “Inflación anual en Venezuela sube 1.3 millones por ciento en noviembre … Leíste bien: 1’299,724%”, El Economista, 10/1/2018 (http://tiny.cc/6t2r2y).
[28] “El Fmi prevé una inflación del 10.000.000% en Venezuela para 2019”, ABC Internacional, 10/10/2018 (http://tiny.cc/aq2r2y).
[29] “Más de 5 mil venezolanos dejan el país diariamente, según Acnur”, Efecto Cocuyo, 11/1/2019 (http://tiny.cc/ea2r2y).
[30] L. Trotsky, “Le conflit italo‑éthiopien”, 17/7/1935, in Œuvres, Institut León Trotsky, 1979, vol. 6, p. 51. Si noti che, fra le modalità dello schierarsi in favore dell’Etiopia, Trotsky prevedeva la fornitura di armi agli etiopi: la qual cosa implicava un conflitto militare concreto e attuale, nel quale prendere posizione a favore dell’aggredito; significava fare con esso un blocco militare, non certo politico. E ciò è tanto più vero, in quanto più avanti, nel medesimo testo, Trotsky spiegava che «trattandosi di una guerra, la questione per noi non è sapere chi, fra il Negus e Mussolini, sia “meglio”, ma è un problema di rapporti di forza e della lotta per l’indipendenza di una nazione sottosviluppata per la sua difesa contro l’imperialismo».
[31] L. Trotsky, “Guerre nazionali e guerre imperialiste”, 23/9/1938, in I problemi della Rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali (1924‑1940), Einaudi, 1970, p. 590.
[32] P. Casciola, Trotsky e le lotte dei popoli coloniali, Centro Studi Pietro Tresso, Q. 18, aprile 1990, p.11.
[33] L. Trotsky, “Los ultraizquierdistas en general y los incurables en particular. Algunas consideraciones teóricas”, 28/9/1937, in Escritos sobre la Revolución española (1930‑1939), Fundación Federico Engels, 2010, p. 138.
[34] L. Trotsky, “Remarques sur la situation chinoise”, 3/9/1937, in Œuvres cit., vol. 14, p. 369.
[35] L. Trotsky, “Les ultra‑gauchistes et la guerre en chine”, 23/9/1937, in Œuvres cit., 1983, vol. 15, p. 70 (il grassetto è nel testo originale).
[36] Si tratta di una politica che, come segnalato da Trotsky negli scritti finora citati, affonda le sue radici nella tattica dei bolscevichi di fronte all’improvvisa, benché annunciata, aggressione armata del generale Kornilov contro il governo borghese di Kerensky. E fu soltanto nel momento del concretarsi effettivo di quella minaccia che Lenin indicò al partito il cambiamento repentino della tattica fino ad allora messa in pratica. Suggeriamo perciò l’approfondita lettura del testo di Lenin, “Al Comitato Centrale del Posdr”, 30/8/1917 (12/9), in Opere, Edizioni Lotta comunista, 2002, vol. 25, pp. 273 e ss.