Presentiamo ai nostri lettori un articolo sulla genesi e le prospettive della guerra in Ucraina a quasi un anno e mezzo dal suo scoppio.
Buona lettura.
La redazione
La mezzanotte del XXI secolo
La guerra in Ucraina nel suo secondo anno: un bilancio, le prospettive
Valerio Torre
«La guerra non è mai un atto isolato
[…] non nasce isolatamente
e non si espande in un batter d’occhio. […]
La guerra non è … solamente un atto politico.
ma un vero strumento della politica,
un seguito del procedimento politico,
una sua continuazione con altri mezzi.
[…] Il disegno politico è lo scopo,
la guerra è il mezzo,
ed un mezzo senza scopo
non può mai concepirsi»
(K. von Clausewitz, Della guerra)
«C’è forse un ambito in cui la nostra teoria,
secondo la quale l’organizzazione del lavoro
è determinata dai mezzi di produzione,
trova una conferma più eclatante
che nell’industria del macello degli uomini?»
(K. Marx, Lettera a Engels, 7 luglio 1866)
«Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero,
ma con l’Ucraina sottomessa e poi subordinata
la Russia diventa automaticamente un impero»
(Z. Brzeziński, America and the Crisis of Global Power)
«Combatteremo per l’indipendenza ucraina
fino all’ultimo ucraino»
(C.W. Freeman Jr.)
«Non siamo usciti dalla depressione
grazie alla teoria economica.
Ne siamo venuti fuori
grazie alla Seconda Guerra mondiale»
(D.C. North)
Trascorso oltre un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina possiamo provare a disegnare un’analisi che non si limiti ai suoi aspetti militari o geopolitici, ma allarghi lo sguardo alle ragioni profonde che lo hanno determinato e che stanno producendo tutta una serie di convulsioni a livello globale: convulsioni che, a loro volta, stanno mettendo in discussione gli “equilibri” che – solo apparentemente – tenevano insieme l’ordine mondiale così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni.
E non sono casuali le citazioni poste all’inizio di questo testo: che, anzi, ne costituiscono non solo il filo conduttore, ma proprio una sorta di “manifesto”.
“La guerra non è un atto isolato”
Fra i tanti che riprendono come un mantra la notissima affermazione di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, non tutti valutano sempre correttamente la portata della riflessione del generale prussiano, per il quale l’atto bellico rappresenta soltanto il mezzo per portare avanti uno scopo. Chi prescinde da questa inconfutabile verità scade in una ricostruzione fondamentalmente errata. E così, mentre i riformisti (perlopiù filoatlantici) e i pacifisti enfatizzano nelle loro analisi l’aspetto per cui ci sarebbero “un aggressore e un aggredito” – con i primi a sottolineare che la Russia sarebbe “l’Impero del Male” che vuole distruggere “i valori dell’Europa democratica” – i nostalgici del campismo stalino-togliattiano si limitano a vedere nell’invasione dell’Ucraina la reazione di Mosca all’espansione verso est della Nato, così di fatto giustificandola. Dal canto loro, le organizzazioni che si richiamano al marxismo rivoluzionario – con poche lodevoli eccezioni – costruiscono le proprie analisi a partire dall’assolutizzazione (fuori tempo massimo, dal momento che il XX secolo ha pressoché definitivamente risolto la questione nazionale: con l’eccezione, perlomeno, di quella palestinese) del principio di autodeterminazione: per cui, distorcendo alcuni classici dei teorici del marxismo, esaltano la “resistenza ucraina” attribuendole il ruolo di combattente in quella che definiscono “una guerra di liberazione nazionale”[1] e chiedono al proprio imperialismo di inviare armi in Ucraina ponendosi alla sua coda. Ma, nonostante le differenze fra loro, tutte queste organizzazioni hanno in comune il fatto di isolare il conflitto in terra ucraina come elemento che vive di vita propria, rendendolo il fattore unico ed esclusivo delle loro analisi, slegato dalle dinamiche della competizione globale fra le potenze mondiali e della ridislocazione degli attori di secondo piano entro il quadro delle rivalità interimperialistiche.
La “preistoria” della guerra in Ucraina
Il conflitto in Ucraina non è cominciato il 24 febbraio 2022 con l’invasione delle truppe russe e l’inizio dell’offensiva militare; e neppure nel 2014[2] con il c.d. “EuroMaidan”, quando una protesta di massa contro il governo Janukovyč, inizialmente spontanea, finì per essere eterodiretta dagli Usa, con politici statunitensi come John McCain e Victoria Nuland ad arringare la folla, controllata da drappelli armati delle organizzazioni neonaziste Svoboda e Pravy Sektor che rappresentarono la forza d’urto del movimento di Maidan dopo che ebbero messo fuori gioco gli attivisti sindacali[3]. E già a quell’epoca v’era chi, nello spiegare la crisi, puntava il dito contro le politiche degli Usa e dell’Ue[4].
Nemmeno è corretto dire che le radici dell’attuale conflitto armato in Ucraina debbano ricercarsi – come pure molti sostengono – nella “Guerra del Donbas” (iniziata nell’aprile del 2014 e che oggi è di fatto inglobata nel più generale conflitto in terra d’Ucraina), con la repressione armata da parte delle truppe ucraine delle istanze autonomiste di quella regione, dalla marcata presenza russofona[5].
No. Per rinvenire le origini della guerra in corso occorre risalire – come acutamente osserva James W. Carden, ex consigliere del Dipartimento di Stato Usa[6] – alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione del trattato costitutivo dell’Unione Sovietica, quando 25 milioni di russi che vivevano nelle repubbliche ex sovietiche si ritrovarono dall’oggi al domani fuori dal territorio della Russia, e in particolare alcuni milioni di russi etnici abitanti della Crimea e del Donbas si risvegliarono cittadini di un Paese diverso: l’Ucraina. Consapevole che la situazione negli Stati ex sovietici era particolarmente precaria e instabile (e perciò potenzialmente esplosiva), il presidente statunitense George H.W. Bush delineò una politica fondata sull’impegno a non esacerbare le tensioni etniche latenti nelle repubbliche ex sovietiche, non stancandosi mai di ripetere che gli Stati Uniti “non dovevano danzare sulle rovine del Muro di Berlino”, cioè non avrebbero dovuto esercitare alcuna pressione per condizionare la forma che avrebbe preso l’assetto politico post-sovietico.
E infatti, in un discorso tenuto al parlamento ucraino il 1° agosto 1991, Bush padre tratteggiò la sua linea politica riguardo ai Paesi dell’ex Unione Sovietica: «Non vi diremo come dovete riformare la vostra società. Non prenderemo le parti dei vincitori né dei vinti nelle contese politiche tra le repubbliche o tra le repubbliche e il centro. Quello è affar vostro, non è affare degli Stati Uniti. […] Non appoggeremo i fautori di un nazionalismo suicida mosso dall’odio etnico»[7].
Ma nel novembre 1992 Bush non fu rieletto alle presidenziali e gli succedette Bill Clinton: il quale, da quel momento, impresse alla politica statunitense un radicale cambiamento nel senso di una sempre più marcata e aggressiva proiezione degli Usa nell’est europeo, solleticandone i nazionalismi – in particolare quello ucraino – anche attraverso l’espansione della Nato. Messa da parte la prudenza del predecessore, Clinton si lanciò anche in una escalation bellica nei Balcani, incurante dei rapporti che storicamente legavano Belgrado a Mosca, la cui reazione irritata contribuì ad acuire la crisi e le tensioni con la Russia nella regione.
Molto efficacemente, Carden conclude così il suo saggio: «Il rigetto della cautela politica di Bush fu l’errore fatale dell’amministrazione Clinton. Un errore che ha contribuito a portarci sull’orlo di una nuova, impensabile guerra mondiale. […] Non parrebbe avventato dire che la politica attuata da Clinton in Serbia abbia preparato il terreno per quello a cui stiamo assistendo oggi in Ucraina»[8].
La RAND Corporation detta la linea
La possibilità concreta che l’Ucraina entrasse a far parte della Nato – con la conseguenza del dispiegamento di truppe del Patto Atlantico e di armi nucleari proprio ai confini con la Russia e missili in grado di raggiungerne la capitale in poco più di cinque minuti – ha sempre rappresentato una preoccupazione strategica di Mosca[9]. Eppure, c’è stato, anche a sinistra, chi ha sostenuto che questa fosse unicamente una scusa imbastita da Putin per poter invadere l’Ucraina al solo scopo di soddisfare le sue nostalgiche ambizioni imperiali di ricostruzione di una Grande Russia: un’analisi impressionista, evidentemente idealista, imbevuta di ingenuo psicologismo.
In realtà, ci sono diversi riscontri per quella preoccupazione strategica. Prendiamo ad esempio il rapporto redatto dalla RAND Corporation.
La RAND Corporation, come leggiamo dal suo stesso sito, «è un’organizzazione di ricerca che sviluppa soluzioni per le sfide delle politiche pubbliche allo scopo di contribuire a rendere le comunità di tutto il mondo più sicure, più sane e più prospere». Ha la sede principale negli Stati Uniti (Santa Monica, New Orleans, Washington DC, Boston e Pittsburgh) e sedi secondarie in Europa (Cambridge e Bruxelles) e Australia (Canberra). Non è soltanto uno di quei think tank che apprestano e suggeriscono analisi sulle quali molto spesso i governi fondano le proprie politiche. Forte di 1850 dipendenti e con un budget di 350 milioni di dollari, questo centro studi è invece strettamente collegato al Dipartimento della Difesa degli Usa ed è noto per essere stato molto influente nello sviluppo di strategie, militari e non solo, durante la Guerra Fredda. Le sue analisi sono per lo più disponibili ufficialmente sulla pagina web istituzionale, come nel caso, appunto, del rapporto pubblicato nel 2019 e intitolato “Extending Russia: Competing from Advantageous Ground”[10].
Questo testo, sponsorizzato dall’Ufficio per la Revisione Quadriennale della Difesa dell’Esercito, dall’Ufficio del Vice Capo di Stato Maggiore e dal Quartier generale del Dipartimento dell’Esercito degli Stati Uniti, esaminava esplicitamente le modalità possibili per indebolire e contrastare la Russia nel quadro della competizione fra grandi potenze come delineato nel 2018 dalla Strategia di Difesa Nazionale. Prende perciò in esame «le vulnerabilità e le preoccupazioni economiche, politiche e militari della Russia» per giungere ad analizzare «le potenziali opzioni politiche per sfruttarle dal punto di vista ideologico, economico, geopolitico e militare (comprese le opzioni aeree e spaziali, marittime, terrestri e multidominio)». E, pur considerando che alcune di queste politiche, caratterizzate come incrementali, avrebbero potuto determinare una contro-escalation da parte della Russia stessa, nonché le reazioni avverse di altri Paesi nemici – come ad esempio la Cina – in grado di mettere a dura prova gli Stati Uniti, il rapporto concludeva che le «opzioni militari, compresi i cambiamenti nella postura delle forze e lo sviluppo di nuove capacità, potrebbero migliorare la deterrenza degli Stati Uniti e rassicurare gli alleati», con il vantaggio di essere in grado di indebolire la Russia.
Tutto il documento, infatti, era costruito sulla base dell’obiettivo di sfibrare Mosca facendo lievitare i costi militari, economici e politici dei suoi impegni all’estero.
È per questa ragione che la RAND Corporation suggeriva al governo degli Stati Uniti, fra le altre opzioni militari che avrebbe dovuto assumere (assicurare il sostegno ai ribelli siriani, promuovere un cambio di regime in Bielorussia, sfruttare le tensioni armene e azere, intensificare l’attenzione verso l’Asia centrale e isolare la Transnistria), quella di «fornire armi letali all’Ucraina». E, in questo senso, l’instabile situazione che dal 2014 si andava sviluppando in Ucraina costituiva per gli estensori del rapporto un’occasione da cogliere al volo.
Preso atto infatti che sin dal 2014 – con l’approvazione dell’Ukraine Freedom Support Act – gli Usa avevano provveduto ad addestrare truppe ucraine e a fornire equipaggiamenti militari non letali, il rapporto suggeriva invece di «aumentare l’assistenza militare all’Ucraina, sia in termini di quantità che di qualità degli armamenti». Anzi, per quanto consapevole che la regola dell’unanimità rendesse improbabile l’ingresso dell’Ucraina nella Nato nel breve periodo, il testo in esame evidenziava che il fatto stesso che Washington potesse caldeggiare questa possibilità avrebbe potuto rafforzare la determinazione dell’Ucraina, inducendo al contempo la Russia a raddoppiare gli sforzi per evitare tale sviluppo[11].
Il negoziato era possibile?
Il 14 dicembre 2021, il vice ministro degli Esteri russo Sergei A. Ryabkov aveva incontrato a Mosca l’assistente del segretario di Stato americano Karen Donfried consegnandole le bozze di due trattati che avrebbero dovuto raffreddare e dirimere il conflitto nell’area. Il primo trattato vedeva come parti firmatarie gli Stati Uniti e la Federazione Russa, mentre il secondo prevedeva un accordo fra quest’ultima e tutti gli Stati membri della Nato. Le basi per un’intesa proposte da Mosca prevedevano garanzie sul ritiro dell’invito ad aderire alla Nato rivolto all’Ucraina e alla Georgia e dunque lo stop all’espansione verso est del Patto atlantico; il blocco del dispiegamento di sistemi d’attacco rivolti contro la Russia nei Paesi con essa confinanti, nonché delle esercitazioni e della navigazione militare vicino ai suoi confini terrestri e marittimi; il reciproco impegno da parte di Mosca; l’istituzione di un canale permanente di dialogo e cooperazione in materia di attività militari; il ritiro delle armi nucleari schierate all’estero.
Ma soltanto pochi giorni dopo, la proposta russa veniva respinta senza neppure avanzare una controproposta o, quantomeno, una dichiarazione di disponibilità a intraprendere un negoziato[12].
In realtà, il rifiuto statunitense di sedersi in quell’occasione al tavolo delle trattative è stato sintomatico della volontà delle potenze occidentali – perseguita sin da prima dello scoppio della guerra il 24 febbraio 2022 (e anche dopo) – di boicottare un possibile processo di pace, sia pure limitato quantomeno ad un cessate il fuoco nell’attuale conflitto. Ancora il 4 aprile 2022, come riferito da BBC News, Zelens’kyj, rispondendo alla domanda se fosse ancora possibile parlare di pace con la Russia, affermava: «Sì, perché l’Ucraina deve avere la pace. Siamo in Europa nel XXI secolo. Continueremo a impegnarci diplomaticamente e militarmente»[13].
Solo pochi giorni dopo però, il 9 aprile, l’allora premier inglese Boris Johnson si precipitò a Kiev senza preavviso inducendo il presidente ucraino a cambiare idea[14] sulla base del fatto che, se anche egli avesse voluto raggiungere un’intesa con la Russia, l’Occidente non sarebbe stato d’accordo sentendosi impegnato nel continuare lo scontro con Mosca, ritenuta più debole di quanto si fosse originariamente ritenuto. A conferma delle pressioni esercitate su Kiev, tre giorni dopo la visita di Johnson lo stesso Putin dichiarò: «I negoziati con l’Ucraina sono nuovamente giunti in un vicolo cieco». Persino la rivista statunitense Foreign Affairs riconobbe che, «secondo diversi ex alti funzionari statunitensi con cui abbiamo parlato, nell’aprile 2022 i negoziatori russi e ucraini sembravano aver transitoriamente concordato i contorni di un accordo provvisorio negoziato: la Russia si sarebbe ritirata sulle sue posizioni del 23 febbraio, quando controllava parte della regione del Donbas e tutta la Crimea, e in cambio l’Ucraina avrebbe promesso di non cercare l’adesione alla Nato e avrebbe invece ricevuto garanzie di sicurezza da un certo numero di Paesi»[15].
Dal canto suo, l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett si era fatto promotore di un tentativo di accordo, dapprima incontrando Zelens’kyj in una visita coordinata con Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito, e quindi, il 4 marzo 2022, recandosi a Mosca per parlare con Putin. Bennet riferì poi in un’intervista che, grazie alla sua mediazione, le parti si erano fatte importanti concessioni reciproche, tra le quali la rinuncia da parte ucraina all’adesione alla Nato. Ma informò anche che Boris Johnson aveva assunto una linea aggressiva, mentre Macron e Scholz parevano più pragmatici e Biden appariva equidistante rispetto alle due posizioni. Però alla fine i leader occidentali si erano opposti agli sforzi di Bennet. Questi, alla domanda se le potenze occidentali avessero bloccato l’accordo, rispose: «Fondamentalmente sì. L’hanno bloccato e ho pensato che si stessero sbagliando»[16]. E una conferma della posizione bellicosa di cui Johnson si era fatto interprete ci viene dalle parole del Segretario alla Difesa degli Usa, Lloyd Austin, il quale ha in seguito spiegato che uno degli obiettivi degli Stati Uniti in Ucraina è vedere una Russia “indebolita”[17].
La lunga vigilia di preparazione della guerra
Dopo il rifiuto da parte statunitense di avviare una trattativa con la Russia a proposito dell’affaire ucraino e mentre la missione internazionale degli Osservatori dell’Osce registrava tra il 18 e il 20 febbraio 2022 oltre duemila violazioni del cessate il fuoco stabilito dagli Accordi di Minsk[18] poste in essere rispettivamente dall’esercito ucraino e dalle armate delle regioni separatiste di Lugansk e di Donetsk, lungo la linea di confine si andavano ammassando truppe di Kiev e di Mosca. Il 21 febbraio attacchi di artiglieria sempre più pesanti venivano scatenati contro le repubbliche del Donbas, tanto da lasciar prevedere che non si sarebbe trattato più di un duello di artiglieria o uno scambio di violenze: da un punto di vista militare, appariva sempre più chiaro che era in atto da parte ucraina una manovra di preparazione dell’artiglieria per un successivo intervento delle forze meccanizzate.
Lo stesso giorno, di fronte a questa situazione, Putin firmò un ordine esecutivo con cui la Federazione russa riconosceva immediatamente l’indipendenza e la sovranità delle repubbliche di Donetsk e di Lugansk. I presidenti delle due regioni, da parte loro, sottoscrissero trattati di amicizia, cooperazione e reciproca assistenza con la Russia che includevano accordi di mutua difesa. In tal modo veniva confezionato il quadro politico-giuridico per l’intervento di Mosca a difesa delle due repubbliche sottoposte da anni alla violenza dell’intervento armato di Kiev.
In questo senso, è inesatta, dal punto di vista del diritto internazionale borghese, la patente di “illegalità” attribuita all’intervento russo in Ucraina, dal momento che esattamente lo stesso procedimento venne adottato dalle potenze occidentali nel caso del riconoscimento del Kosovo.
E neppure è corretto dire che l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca debba essere considerata come “non provocata”, poiché tutto il corso storico-politico delle vicende che abbiamo fin qui tratteggiato evidenzia una sempre più marcata e aggressiva proiezione degli Stati Uniti e della Nato in Ucraina in funzione dell’acutizzazione dello scontro geopolitico con la Russia per provocarne il progressivo indebolimento: non può essere negato, infatti, il ruolo attivo del Patto atlantico nella formazione dell’esercito ucraino, addestrato e armato da un flusso continuo di forze della Nato, con la creazione di infrastrutture tese a minacciare la Russia. A tal proposito va anche rimarcato che proprio gli Accordi di Minsk – per ammissione stessa di Angela Merkel e François Hollande, che avevano partecipato ai negoziati – non furono concepiti per avviare un processo pacificatore, ma per far guadagnare all’Ucraina il tempo necessario a farsi costruire dalla Nato il proprio esercito e così prepararsi a un conflitto su larga scala.
Intanto, nel marzo 2021 l’Ucraina aveva adottato una nuova strategia militare con decreto presidenziale n. 121/2021. Questo documento – “Sulla strategia di sicurezza militare dell’Ucraina” – ideato esclusivamente in funzione del confronto con la Russia, ipotizza senza mezzi termini il coinvolgimento di Stati stranieri in un futuro conflitto con Mosca prevedendo «l’assistenza della comunità internazionale a condizioni favorevoli per l’Ucraina», nonché «il sostegno politico, economico e militare dell’Ucraina da parte della comunità mondiale nel confronto geopolitico con la Federazione russa»: in pratica, la preparazione delle ostilità a livello globale contro la Russia.
Il 24 febbraio, quando ormai il solco degli eventi era tracciato, le truppe russe sono entrate in Ucraina da diverse direzioni. La guerra era infine iniziata.
Una sanguinosa guerra di attrito e i suoi contrapposti obiettivi
Non ci dilungheremo sugli aspetti militari di questo conflitto: innanzitutto, perché esso è ancora in atto, in continua evoluzione e, da quel che si può comprendere attraverso diverse fonti, purtroppo di presumibile lunga durata[19]; poi perché si sta svolgendo su una linea di fronte enorme, con distribuzioni ineguali delle forze sul campo di battaglia, il che implica che il combattimento si trova in differenti fasi a seconda delle zone interessate[20]. Quel che è certo è che, da un punto di vista generale, si tratta di una guerra di attrito (o di logoramento), e cioè di un tipo di conflitto molto diverso da quelli ai quali negli ultimi decenni abbiamo assistito, e più in linea con la dottrina militare russa (e in precedenza sovietica) che non, ad esempio, con quella statunitense applicata nelle guerre in Iraq e in Afghanistan. Con questa modalità di conflitto il Cremlino sta perseguendo uno degli obiettivi politici esplicitati con l’invasione: la “demilitarizzazione” dell’Ucraina, cioè la distruzione massiccia e sistematica di manodopera e materiali militari di Kiev; e la guerra di attrito condotta da Mosca è il “mezzo” che punta esattamente a questo “scopo”, e non già alla conquista e al controllo di territori.
In tal senso, quest’obiettivo è in fase di realizzazione considerando le gigantesche perdite da parte ucraina[21]. E proprio la battaglia di Bahmut è stata esemplare. Mentre la propaganda occidentale ha dipinto sin dall’inizio la città come di nessun valore strategico[22], in realtà essa rappresenta una posizione chiave operativamente critica nella difesa ucraina, e la Russia l’ha trasformata in una fossa mortale che ha costretto Kiev, fino alla sua caduta, a sacrificare un numero esorbitante di uomini per mantenere la posizione finché possibile[23]. Questo perché la caduta di Bahmut ha significato il crollo dell’ultima linea difensiva che protegge, tra le altre, Slavyansk e Kramatorsk, queste sì strategiche nel quadro del controllo russo del Donbas[24].
Il fatto è che quella che abbiamo definito una “preoccupazione strategica” di Mosca – tenere cioè lontani dai propri confini truppe e missili del Patto atlantico – è alla base dell’obiettivo politico che la Russia si era da tempo posta, creare cioè un’ampia fascia smilitarizzata di protezione dalle politiche militari occidentali. In questo senso – e qui torniamo alla concezione di von Clausewitz – il raggiungimento di quell’obiettivo è stato cercato da Putin dapprima attraverso la via negoziale. Frustrato questo tentativo, come abbiamo visto, dal rifiuto degli Usa e della Nato, lo scopo politico non poteva trovare la sua realizzazione se non attraverso la via militare: uno sbocco – questo – necessitato dal progressivo acuirsi delle tensioni imposto dall’imperialismo statunitense con la sua sempre più aggressiva politica militare contro la Russia[25], volta anche a spingerla in un conflitto che le intelligence occidentali, sulla base di una colpevole sottovalutazione della reale potenza bellica di Mosca, reputavano di breve durata e dall’esito negativo per il Cremlino[26].
La primissima fase del conflitto (che possiamo definire come “piano A”), quella cioè iniziata con l’invasione, non raggiunse l’obiettivo di intimorire l’Ucraina facendola recedere dai suoi piani di adesione alla Nato, anche per la limitatezza della forza militare messa in campo da Putin rispetto a un esercito numericamente molto più soverchiante e comunque armato fino ai denti, sia pure con attrezzature non modernissime. Per questo Mosca passò all’esecuzione di un “piano B”, cioè a una guerra di logoramento per la quale essa è perfettamente attrezzata grazie a un gigantesco complesso militare-industriale, scorte di munizioni e produzioni di armi per decenni e un gigantesco potenziale serbatoio di manodopera[27]: una guerra di logoramento che può affrontare anche perché vi si era preparata da tempo[28].
Concludendo su questo punto, non possiamo esimerci dall’osservare che sulla pelle degli ucraini in battaglia le parti coinvolte in questa guerra per procura[29] stanno perseguendo obiettivi simmetrici e contrapposti: da una parte, le potenze occidentali e la Nato cercano di logorare Mosca costringendola – attraverso il protrarsi dell’impegno bellico – ad aumentare le risorse impiegate rendendo sempre più oneroso lo sforzo militare anche grazie ai diversi pacchetti di sanzioni economiche che si prefiggono lo scopo di creare i presupposti per una crisi sociale in Russia da rivolgere contro Putin per provocare una crisi politica e un cambio al vertice del Cremlino disarticolandone il sistema di potere[30]; dall’altra, la Russia, attraverso una prolungata guerra di attrito, sta svolgendo il lavoro metodico di “macinare” irreparabilmente le capacità militari dell’Ucraina costringendo l’Occidente a sobbarcarsi il pesante onere di sostenere lo Stato e l’esercito di Kiev[31], contemporaneamente cercando di sfruttare a proprio favore la crisi energetica insorta proprio a partire dalle sanzioni contro la vendita dei suoi prodotti energetici, la quale ha a sua volta innescato una forte crisi economica che sta profondamente danneggiando l’intera Unione europea[32]: crisi che Mosca vuole volgere a proprio vantaggio stimolando la sfiducia generalizzata dei cittadini del Vecchio Continente verso i propri rispettivi governi per spezzare così i loro legami con Washington.
Autodeterminazione nazionale e capitolazione all’imperialismo
Fin qui abbiamo esaminato gli eventi che sono alla base delle radici “geopolitiche” – diciamo così – di questo scontro fra diversi imperialismi che abbiamo anche definito una guerra “per procura”, cioè combattuta fra la Russia e le potenze occidentali che non vogliono o non possono “mettere i propri stivali” sul suolo di una nazione terza (in questo caso, l’Ucraina), di cui utilizzano però strutture e manodopera, limitandosi a fornirle armi e mezzi, ma di fatto eterodirigendola. Si tratta, nella fattispecie, di una caratterizzazione che ormai anche le pietre condividono.
Ma alcune organizzazioni – sia nazionali che internazionali[33] – hanno evidentemente la testa più dura delle pietre e cocciutamente negano questa realtà:
- isolando il conflitto sul suolo ucraino dal contesto della lunga fase di contese fra potenze imperialiste ed eliminando dall’analisi il quadro generale delle politiche che l’hanno preceduto e condizionato e l’esame della natura sostanziale delle forze sociali che gli fanno da sfondo;
- assolutizzando il principio di autodeterminazione e facendone «un principio sovrastorico (sul modello dell’imperativo categorico di Kant)»[34];
- attribuendo perciò al conflitto la patente di una guerra di difesa e di liberazione nazionale contro un’aggressione imperialista.
Grazie a questo truffaldino procedimento, lo scontro appare confinato sul terreno di un solo Paese e si limita a un aggressore e un aggredito. E così, il gioco è fatto: non c’è nessuna guerra interimperialista per procura, ma una guerra di difesa nazionale e per l’affermazione del diritto di autodeterminazione, in cui opera una “resistenza” popolare che perciò deve essere sostenuta militarmente.
Ma in realtà, se nell’analisi del conflitto in atto e nella caratterizzazione della guerra in Ucraina c’è un argomento citato del tutto a sproposito, è proprio quello dell’autodeterminazione.
Mentre i bolscevichi – e, prima di loro, Marx ed Engels – lo concepivano come un mezzo nell’interesse del proletariato, e non un fine, gli odierni sostenitori del diritto all’autodeterminazione ne fanno un diritto eterno, esistente al di fuori del tempo e dello spazio, per poterlo applicare all’Ucraina del XXI secolo[35]. Siccome il marxismo ha come propria stella polare il punto di vista degli interessi internazionali della classe operaia, e a questi subordina tutti gli altri “principi” e “diritti”, compreso il nazionalismo, Lenin e i suoi patrocinavano e sostenevano il diritto all’autodeterminazione delle nazioni oppresse all’interno dello Stato zarista perché senza un’alleanza con i contadini e i popoli oppressi (che erano essi stessi in gran parte contadini) la classe operaia non sarebbe mai potuta salire al potere: ma si trattava, appunto, di un mezzo per raggiungere il fine della distruzione dello Stato zarista. Eppure lo stesso Lenin certamente non subordinava gli interessi della classe operaia a questo “diritto” quando sostenne l’invasione della Polonia nel 1920, contemporaneamente prendendo in considerazione l’invasione dell’Ungheria[36]. E infatti, egli era stato estremamente chiaro nel sostenere che «nessun marxista può negare, a meno di rompere con i principi fondamentali del marxismo e del socialismo in generale, che gli interessi del socialismo stanno al di sopra di quelli del diritto delle nazioni all’autodecisione»[37].
La “questione nazionale”, come abbiamo già accennato, è stata in buona sostanza pressoché definitivamente risolta nel corso del XX secolo, sicché la riproposizione del principio dell’autodeterminazione da parte di queste più o meno grandi organizzazioni che infangano i principi del marxismo è il frutto di un’assolutizzazione fuori tempo massimo di tale principio. Ma rappresenta anche la capitolazione ad uno degli argomenti più utilizzati dagli imperialismi occidentali per “legittimare” la loro guerra per procura contro la Russia: cioè quello per cui Putin vorrebbe annientare la nazione ucraina, che egli considererebbe una sorta di “non-popolo”.
Si tratta di una sesquipedale sciocchezza: quella di Mosca non è una guerra coloniale di annessione e di cancellazione della nazione ucraina. La Russia vuole soltanto annichilire la potenza di fuoco del governo di Kiev e renderlo incapace di costituire per essa una minaccia attraverso il dispiegamento delle armi della Nato sul suo territorio. Mosca considera quello che abita l’Ucraina un popolo slavo – e quindi fratello – per cui non intende affatto annientare fisicamente la nazionalità ucraina, come sostiene l’Occidente collettivo con i suoi reggicoda socialimperialisti, dal momento che se avesse voluto davvero farlo avrebbe marciato su Kiev non con un esercito limitatissimo, come ha fatto nella prima fase dell’invasione, ma avrebbe messo in campo un’armata di cinque milioni di uomini; avrebbe proceduto a radere sistematicamente al suolo tutte le più importanti città con le potenti armi che sta invece dirigendo solo contro infrastrutture militari (o quelle anche ad uso civile che però vengono utilizzate per scopi militari); avrebbe massacrato indiscriminatamente la popolazione con spietati bombardamenti a tappeto, mentre le vittime civili (che purtroppo, inevitabilmente, comunque ci sono) risultano una percentuale ridottissima rispetto alle smisurate perdite militari di cui abbiamo già detto[38].
Su questo infondato argomento le potenze imperialiste occidentali hanno costruito la loro “proxy war” contro la Russia: e questo non desta in noi particolare scandalo. Ci scandalizza invece che quello stesso argomento, infiocchettato con una fraseologia “marxista” a buon mercato, abbia rappresentato la base su cui quei socialimperialisti hanno costruito, in nome di un marxismo cialtronesco, la narrazione del conflitto in Ucraina come una “guerra di liberazione nazionale”, implorando dai loro rispettivi imperialismi la consegna alla “resistenza” di quantitativi sempre maggiori di armi (e sempre più distruttive), in nome, appunto, del “principio di autodeterminazione”. Ma il fatto è che in nome di questo “principio” essi hanno soltanto condannato a morte decine e decine di migliaia di giovani ucraini reclutati a viva forza, vestiti da soldato e mandati al macello senza alcun tipo di preparazione militare.
Alcuni spunti teorici per la caratterizzazione della guerra
L’argomento di quella ucraina come “guerra nazionale”, che ciarlatani e venditori di chiacchiere propalano oggi, è stato fatto a pezzi da Lenin più di cent’anni fa.
Era appena iniziata l’aggressione dell’Austria-Ungheria alla Serbia – episodio che avrebbe poi scatenato la Prima Guerra mondiale – e Lenin si trovò a combattere le stesse obiezioni e a fustigarne i sostenitori (con la differenza che quelli di allora erano almeno teorici di spessore e di lunga traiettoria, e non già impostori come coloro che oggi ne riprendono i ragionamenti). Scriveva Lenin:
«Un nuovo sofisma e un nuovo inganno per gli operai: vedete, la guerra non è “puramente” imperialista! […] Ma allora che cosa diamine è? Veniamo a sapere che essa è anche … nazionale! […] la guerra attuale … non libera alcuna nazione e …, indipendentemente dal suo esito, ne asservirà parecchie […]. Il fattore nazionale della guerra serbo-austriaca non ha e non può avere alcuna seria importanza nella guerra europea […] Per la Serbia, ossia per questa centesima parte dei partecipanti alla guerra odierna, la guerra è la “continuazione della politica” del movimento di liberazione borghese. Per il resto (99 per cento) la guerra è la continuazione della politica imperialista, ossia della politica di una borghesia giunta allo stato di senescenza, la quale è capace di violentare le nazionalità e non di liberarle. […] Perciò, rammentare che la guerra non è “puramente” imperialista quando si tratta di un vergognoso inganno delle “masse popolari” da parte degli imperialisti, i quali nascondono deliberatamente i loro scopi di pura rapina con una fraseologia “nazionale”, significa essere un pedante infinitamente ottuso oppure un frodatore e un imbroglione»[39].
Le ragioni di questa lettura in Lenin sono ovvie per chi si richiama davvero al legato del bolscevismo e dell’internazionalismo: l’analisi della guerra nel contesto delle dinamiche mondiali che l’hanno preparata e l’esame di quelle che l’accompagnano rappresentano il vero e fondamentale elemento per la comprensione e l’esatto inquadramento, sia dello specifico aspetto dello scontro militare, sia del complessivo processo da cui ha tratto alimento e in cui si dipana. Restare vincolati al singolo e congiunturale fattore del conflitto preso isolatamente non costituisce soltanto la base per una totale incomprensione di quanto sta accadendo, ma soprattutto la scorciatoia per dislocarsi alla coda del proprio imperialismo scivolando irrimediabilmente nel socialsciovinismo.
È questa l’accusa che muoviamo a chi definisce quella sul suolo ucraino una “guerra di liberazione nazionale” privilegiando e assolutizzando l’elemento di chi ha aggredito chi. E lo facciamo non con parole nostre, ma con quelle di Lenin quando si trovò a dover caratterizzare l’elemento dell’aggressione dell’Austria-Ungheria alla Serbia:
«L’elemento nazionale, nella guerra attuale, è rappresentato solamente dalla guerra della Serbia contro l’Austria […]. Se questa guerra fosse isolata, vale a dire non collegata con la guerra europea e con gli avidi scopi di rapina dell’Inghilterra, della Russia, ecc., tutti i socialisti avrebbero l’obbligo di desiderare il successo della borghesia serba. Questa è l’unica deduzione giusta e assolutamente indispensabile, derivante dal fattore nazionale della guerra attuale»[40].
Bisogna essere proprio accecati dal socialimperialismo per non comprendere che
«tutta la storia economica e diplomatica degli ultimi decenni dimostra che i due gruppi di nazioni belligeranti hanno … preparato sistematicamente una guerra di questo genere […]. La questione: quale è stato il gruppo che ha sferrato il primo colpo militare o che ha dichiarato per primo la guerra, non ha nessuna importanza nella determinazione della tattica dei socialisti. Le frasi sulla difesa della patria, sulla resistenza all’invasione nemica, sulla guerra di difesa, ecc., sono, da ambo le parti, tutti raggiri per ingannare il popolo»[41].
Chi abbia davvero voglia di esaminare i fattori realmente causali dell’attuale conflitto, e non invece cedere a un’analisi impressionista ed eclettica basata soltanto su quelli congiunturali, può trovare negli eventi del 1914 e nelle analogie con quanto accade oggi un prezioso aiuto:
«Nel considerare la situazione nel suo complesso non bisogna pensare che tutto fosse cominciato con l’assassinio di Sarajevo; quella situazione va vista invece come la fase finale di una guerra fredda internazionale molto complessa, che si protraeva ormai da parecchi anni peggiorando di giorno in giorno, e che da tempo i dirigenti socialisti studiavano con sempre maggiore preoccupazione. Dietro la controversia austro-serba c’era la lunga storia delle rivalità imperialistiche nei Balcani, in cui erano implicate non solo la Russia e l’Austria-Ungheria, ma anche la Germania e la Gran Bretagna […]»[42].
Dal canto suo, Trotsky espresse – con ancora maggior chiarezza, se possibile – lo stesso tipo di considerazioni per offrire una chiave di lettura corretta della guerra:
«Il carattere della guerra non è determinato dall’episodio iniziale in sé (“violazione della neutralità”, “invasione nemica”, ecc.), bensì dalle principali forze motrici della guerra, da tutto il suo sviluppo e dalle conseguenze che essa alla fine comporta. […] Il nostro atteggiamento nei confronti della guerra non è determinato dalla formula legalistica dell’“aggressione”, bensì dalla questione di quale classe conduce la guerra e per quali scopi. In un conflitto tra Stati, proprio come nella lotta di classe, quelle dell’“aggressione” e della “difesa” sono soltanto questioni di opportunità pratica e non di norma giuridica o etica. Il semplice criterio di aggressione rappresenta una pezza d’appoggio per la politica socialpatriottica […]»[43].
E allora, non possiamo concludere su questo punto senza mettere in rilievo quella che dovrebbe essere la bussola per i marxisti di fronte alla guerra:
«Per definire in ogni caso concreto la natura storica e sociale di una guerra non bisogna basarsi su impressioni e congiunture, ma sull’analisi scientifica della politica che ha preceduto e condizionato il conflitto stesso»[44].
Le principali forze motrici della guerra: dal versante russo …
Dunque, per quanto sin qui detto, riteniamo necessario rimarcare il criterio proposto da Trotsky, e cioè approfondire lo studio delle “principali forze motrici della guerra”, analizzarne la dinamica di sviluppo – e cioè “la politica che l’ha preceduta e condizionata” – e ipotizzare così le conseguenze che ne discenderanno.
Sarebbe dunque riduttivo limitarci all’esame delle condizioni geopolitiche su cui pure ci siamo lungamente soffermati nei paragrafi che precedono. Dal nostro punto di vista, il campo di indagine è chiaramente più ampio, e questo ci differenzia dalle organizzazioni le quali considerano che l’elemento caratterizzante – se non addirittura l’unico – dell’attuale conflitto sia lo scontro fra “un aggressore e un aggredito” nel quadro di una “guerra di liberazione nazionale”: isolare e assolutizzare – come esse fanno – il fattore nazionale ha come sola conseguenza la capitolazione all’imperialismo di casa propria. E già: perché la conclusione “logica” di una narrazione imperniata sul “diritto di autodeterminazione” di una nazione aggredita e sul “sostegno alla resistenza” non può che essere la richiesta al proprio imperialismo di fornirle armi, diventando così – come abbiamo avuto già modo di sostenere – il vagone di coda di quest’ultimo e voltando le spalle all’internazionalismo e al principio di indipendenza di classe, e perciò stesso abbandonando definitivamente il campo rivoluzionario.
La realtà, invece, racconta un’altra storia: il fattore nazionale del conflitto sul suolo ucraino rappresenta soltanto una tessera – e nemmeno la più importante – del mosaico di una guerra imperialista da ambo i lati (ovvero, interimperialista) in cui si fronteggiano, da una parte, la Russia (con, sullo sfondo e molto defilata, la Cina, che attende il momento favorevole per mettere in campo il proprio protagonismo) e, dall’altra, il blocco di potenze occidentali Usa-Nato-Ue, con Kiev a svolgere il ruolo di fanteria per conto di quest’ultimo in una guerra per procura (o “proxy war”).
Lenin spiegava che il tratto caratteristico del capitalismo giunto alla sua fase imperialista è dato dal dominio e dalla violenza attraverso cui questo viene esercitato. Sosteneva inoltre l’attualità della spartizione definitiva del mondo fra le grandi potenze: «definitiva, non già nel senso che sia impossibile una nuova spartizione – ché anzi nuove spartizioni sono possibili e inevitabili – ma nel senso che la politica coloniale dei paesi capitalistici ha condotto a termine l’arraffamento di terre non occupate sul nostro pianeta. Il mondo per la prima volta appare completamente ripartito, sicché in avvenire sarà possibile soltanto una nuova spartizione, cioè il passaggio da un “padrone” a un altro, ma non dallo stato di non occupazione a quello di appartenenza ad un “padrone”»[45].
È evidente che il quadro globale entro cui si sta sviluppando il conflitto in Ucraina mostra le linee di tendenza di una feroce lotta per una nuova spartizione del mondo. E allora, se è vero che, come abbiamo detto all’inizio di questo scritto, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, diamo uno sguardo alle politiche degli attori di questa vicenda.
Dopo la restaurazione del capitalismo nell’Unione Sovietica, il suo successivo collasso e, infine, la sua esplosione in Stati che non erano più legati dal vincolo del c.d. “socialismo reale”, venne meno il precario equilibrio della Guerra Fredda fra l’Urss e gli Stati Uniti. La disintegrazione dello Stato sorto dalla Rivoluzione del 1917 aprì la strada, con l’apertura di nuovi mercati, a una nuova ripartizione del mondo, nella quale la parte del leone era assegnata agli imperialismi occidentali. Progressivamente, diversi degli Stati che avevano formato parte dell’ex impero sovietico entrarono nell’orbita degli Usa e delle potenze europee, sia da un punto di vista economico che militare. In questo senso, possiamo dire che il capitalismo mondiale recuperò al mercato gran parte dell’ex Urss, la cui dissoluzione ha rappresentato un’opportunità per il capitalismo imperialista degli Stati Uniti (con al seguito le borghesie capitaliste occidentali) di utilizzare il proprio potere militare per stabilire un dominio senza rivali in tutto il mondo[46]. Restava fuori dalla ridislocazione dei Paesi appartenuti all’ex Urss il boccone più grosso e appetitoso, rappresentato dalla Russia: un Paese gigantesco e ricco di materie prime, nel quale però la restaurazione del capitalismo aveva creato una borghesia arretrata (in grandissima parte forgiatasi sulle spoglie della vecchia nomenklatura del Pcus) e che aveva appena iniziato la propria “accumulazione originaria”[47] sulla base della progressiva liquidazione (addirittura da prima della dissoluzione dell’Urss) delle vecchie forme di proprietà collettiva derivanti dalla Rivoluzione del 1917, nonché della loro successiva appropriazione da parte di vecchi dirigenti del partito e direttori delle imprese. Per questo il neo-capitalismo russo non poteva minimamente competere sul mercato mondiale con quello occidentale.
Tuttavia, col passare del tempo – e soprattutto a partire dall’inizio della “era Putin”[48] – la Russia ha cominciato a volgere le proprie “attenzioni” e mire imperialiste[49], dal ristretto bacino regionale dei Paesi del Caucaso e dell’Asia centrale dell’ex Unione Sovietica (che ha trattenuto nella propria orbita anche grazie allo smisurato apparato bellico ereditato dall’Urss), ad altre regioni del mondo, forte soprattutto dell’esportazione delle proprie risorse energetiche: gas, petrolio e minerali rari sono stati il “laccio” con cui la Russia ha via via legato a sé diversi Paesi, soprattutto quelli dell’Unione europea, determinando quella che oggi, dopo lo scoppio della guerra, è stata chiamata la “dipendenza energetica”. Una “dipendenza” da cui l’Europa sta tentando disperatamente di liberarsi, ma ad un prezzo insostenibile per la sua economia[50]. A ciò aggiungiamo la “effervescente” politica estera di Mosca, tutta tesa a concludere accordi commerciali e infrastrutturali in diverse zone del mondo, nelle quali si va così a sostituire agli Usa nel ruolo che essi prima vi svolgevano, prendendo l’iniziativa ed esercitando un’influenza fino ad ora appannaggio di Washington.
È evidente che, con l’ingresso sul mercato mondiale di un nuovo e aggressivo attore economico dalla smisurata potenza militare, il mondo “si è fatto più stretto”. E perché si è fatto più stretto? Perché con la sua politica di proiezione economica, commerciale e di acquisizione di sempre maggiori sfere di influenza, la Russia sta mettendo in discussione (insieme alla Cina, che però sta per il momento utilizzando altri metodi) l’ordine liberale che abbiamo fin qui conosciuto[51]: il suo obiettivo è porre fine al mondo “unipolare” sotto il dominio statunitense per sostituirlo con uno “multipolare”. Per Mosca, la guerra in Ucraina è soltanto il sottoprodotto della sua politica di riappropriazione di uno spazio indispensabile per il proprio sviluppo come potenza globale e di fuoriuscita dal ruolo subordinato assegnatole ai margini del sistema occidentale: e, dunque, è la continuazione di questa politica “con altri mezzi”[52].
… e da quello statunitense
Per gli Usa “la politica che ha preceduto e condizionato” la guerra è simmetricamente opposta a quella russa.
Lo stagliarsi sullo sfondo globale della potente crescita (economica, tecnologica e militare) della Cina – il cui espansionismo sta progressivamente sfidando gli interessi di Washington nell’area indo-pacifica – e il protagonismo commerciale della Germania in una Unione europea a trazione tedesca hanno iniziato a minacciare l’egemonia statunitense, già minata dalla crisi capitalista del 2008 e aggravata poi dalla pandemia e dalla crisi ambientale.
Dopo il crollo del mercato immobiliare statunitense e la grave crisi del credito nel settore bancario occidentale, il governo cinese, insieme alla Russia e ad altri Paesi del Sud del mondo, decise di creare una piattaforma indipendente dai mercati del Nord America e dell’Europa. Questa piattaforma, nata nel 2009, prese il nome di Brics, dalle iniziali di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica[53]: cinque grandi Paesi in rapida crescita economica e in grado di esprimere una significativa influenza politica. L’obiettivo di questi Paesi è di modificare l’architettura del sistema finanziario internazionale, basato sul dollaro come pilastro dell’egemonia statunitense[54].
Ma in seguito, nel 2013, Pechino ha anche annunciato il varo della “Belt and Road Initiative”, cioè una strategia globale di sviluppo delle interconnessioni delle infrastrutture di diversi Paesi per favorire l’interscambio commerciale, grazie alla quale la Cina ha rivendicato per sé il ruolo di primattore globale nel commercio mondiale abbandonando quello di “fabbrica del mondo” in cui era stata per troppi anni relegata: l’idea di fondo è l’espansione dell’influenza cinese tra Africa, Asia ed Europa attraverso l’investimento di centinaia di miliardi di dollari in opere infrastrutturali nei Paesi che verranno attraversati dalla “Via della Seta”.
Intanto, la c.d. “ostpolitik” tedesca, cioè il programma di politica estera iniziato da Willy Brandt e poi rimodulato da Gerhard Schröder e da Angela Merkel, stava dando luogo ad un rapporto commerciale privilegiato tra Berlino e Mosca che è stato per molti anni alla base della fenomenale espansione della Germania: un’espansione che l’ha resa il Paese trainante di una Ue che Washington cominciava a percepire troppo “indipendente” per i suoi gusti (leggi: interessi).
Sullo sfondo di queste iniziative, insomma, si poteva intravedere un accentuato processo di integrazione euroasiatica: ed è stato proprio questo a far sì che gli Usa si sentissero minacciati nel loro disegno egemonico, come stretti in una tenaglia. Da qui il progetto di indebolire la Cina indebolendo la Russia: distruggere oggi (ne parleremo tra poco) la Russia per regolare domani i conti con la Cina. In questo senso, l’insistenza statunitense sull’integrazione dell’Ucraina nella Nato ha rappresentato alla perfezione il panno rosso agitato sotto il muso del “toro moscovita”.
Di fronte alla pretesa di Mosca di uscire dai ristretti ranghi di potenza regionale per assurgere al livello di riconosciuta potenza mondiale per competere da pari a pari con gli imperialismi occidentali, Washington non ha soltanto l’obiettivo, perseguito attraverso la guerra per procura sul terreno ucraino, di indebolire e rendere per sempre innocua la Russia[55]. Ha invece un progetto ben più ampio che già da lungo tempo è in discussione: la c.d. “decolonizzazione” della Russia.
Si tratta, in buona sostanza, di un disegno tendente a frammentare l’attuale Federazione russa in 35 staterelli fondati sulle etnie che li popolano – previa, ovviamente, la caduta dell’attuale regime centrale di Mosca[56]. Lo scopo ultimo, è chiaro, consiste nell’eliminare una potenza rivale frazionandola in tanti nazionalismi da aizzare gli uni contro gli altri per poter mantenere divise e dominare politicamente ed economicamente la pletora di artificiali espressioni geografiche che ne risulterebbero e che verrebbero nel loro insieme recuperate al mercato mondiale, assicurandosi il controllo – ça va sans dire – delle smisurate risorse che il sottosuolo dell’attuale Russia nasconde[57].
Usa-Ue-Russia: la guerra imperialista. Anzi, tre guerre
Ma se per l’imperialismo statunitense il mondo andava facendosi sempre più stretto a causa della concorrenza della Cina e della Russia, un ulteriore elemento di disturbo si stava profilando: un sia pure incompiuto e zoppicante rafforzamento dell’Unione europea, trainata dalla potenza economica della Germania e dalle smanie di protagonismo militare della Francia. In un quadro di crisi economica globale, la presenza di un ulteriore “competitor” di peso, e per di più nel campo alleato, non era proprio confacente agli interessi di Washington.
Gli Usa erano non poco infastiditi dall’atteggiamento della Francia nei confronti della Nato. Il presidente francese Macron non si era fatto scrupolo di rilasciare una tranciante affermazione secondo la quale il Patto atlantico versava in uno stato di “morte cerebrale”, sicché sarebbe stato necessario, da un lato, costruire «l’Europa della difesa: un’Europa che deve acquisire autonomia strategica e di capacità sul piano militare. E dall’altro, riaprire un dialogo strategico, senza alcuna ingenuità e che richiederà tempo, con la Russia»[58]. L’idea dell’Eliseo – se non liquidare, quantomeno mettere in secondo piano l’Alleanza a vantaggio di una sorta di “emancipazione” militare (e comunque politica) del Vecchio Continente – allarmò non poco Washington, che invece, in ossequio alla sua antica dottrina varata da Paul Wolfowitz[59], considerava l’Europa come un’imprescindibile base militare di sua proprietà: «[…] È di fondamentale importanza preservare la Nato come principale strumento di difesa e sicurezza occidentale, nonché come canale per l’influenza e la partecipazione degli Stati Uniti negli affari di sicurezza europei. Mentre gli Stati Uniti sostengono l’obiettivo dell’integrazione europea, dobbiamo cercare di prevenire l’emergere di accordi di sicurezza esclusivamente europei che minerebbero la Nato, in particolare la struttura di comando integrata dell’alleanza». E, in questo senso, l’invasione russa dell’Ucraina ha rappresentato una ghiotta opportunità per ribadire l’egemonia politico-economico-militare degli Usa sull’Europa.
Dal canto suo, la Germania si era da tempo resa interprete, come abbiamo accennato, di una “ostpolitik” declinata in chiave di lucrosa apertura commerciale verso la Russia (fornitura di gas a basso costo) per favorire gli interessi industriali e commerciali della propria borghesia, grazie alla quale ha consolidato nel lungo periodo il suo ruolo di “locomotiva d’Europa”: una politica, insomma, messa in pratica su un piano di grande autonomia, tanto che già al tempo delle sanzioni a Mosca per l’annessione della Crimea, Angela Merkel aveva iniziato a giocare per conto suo la partita energetica, preoccupata per le conseguenze che sarebbero derivate dall’approfondirsi dello scontro fra Occidente e Russia. E fu per questa ragione che Frank-Walter Steinmeier, all’epoca ministro degli Esteri tedesco, si era opposto già allora alle sanzioni invitando al dialogo con Mosca. La stessa ragione che indusse poi Merkel – quando si rese conto che Putin, in risposta alle sanzioni, aveva concluso un accordo commerciale con la Cina del valore di ben 456 miliardi di dollari per rifornirla con 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno per i successivi trent’anni – a prendere direttamente nelle sue mani la questione dell’approvvigionamento dell’Europa con il gas russo concludendo un accordo commerciale con la Russia, negoziato fra il commissario europeo responsabile per l’energia, il tedesco Günther Hermann Oettinger, e il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak[60].
Ma non era solo la primazia politico-economica di Berlino sull’Europa a preoccupare gli Stati Uniti. Anche la volontà tedesca di procedere a un forte riarmo – destinando alle forze armate 107 miliardi di dollari subito e più del 2% annuo del Pil per rendere la Bundeswehr il più grande e moderno degli eserciti della Nato[61] – costituiva un elemento di inquietudine. Gli Usa hanno senz’altro bisogno di una forte Germania in Europa. Ma una “forte Germania” non significa affatto una “Germania forte”: «dalla prospettiva di Washington, la Germania è la chiave per dominare l’Europa dal suo interno, uno snodo irrinunciabile per subordinare la traiettoria veterocontinentale alle proprie occorrenze strategiche»[62], sicché Berlino deve essere un elemento trainante dell’Europa nella direzione degli interessi statunitensi ma non costituire la base per una rinascita del vecchio Stato prussiano. Insomma, se l’America vuole d’ora in poi guardare al Pacifico, ha bisogno di lasciare l’Atlantico in buone (e fedeli) mani.
Ecco perché Washington ha colto al volo l’occasione della guerra in Ucraina utilizzandola per “regolare i conti” con questi fastidiosi protagonismi che obbligano il Pentagono a tenere aperti contemporaneamente entrambi i fronti, mentre avrebbe bisogno di dedicarsi principalmente sul primo dei due quadranti. Perciò, sin dall’invasione del 24 febbraio la politica del Pentagono si è concentrata molto sulla disarticolazione dell’Ue, in particolare attraverso un attacco imperialistico agli interessi della Germania colpendola in ciò che aveva di più caro: il rapporto commerciale privilegiato di Berlino con Mosca fondato sulla fornitura di energia a basso costo, con cui le industrie tedesche hanno potuto viaggiare a gonfie vele facendo della Germania una potenza commerciale imbattibile … salvo che per un unico punto debole: la dipendenza energetica dalla Russia. Ed è stato proprio su quel tallone d’Achille che gli Usa hanno concentrato la propria azione: bloccando dapprima e poi facendo saltare in aria il gasdotto Nord Stream[63], hanno dato avvio alla deindustrializzazione tedesca e ad un indebolimento complessivo dell’intera Ue[64], che ora dipende in parte proprio dagli Stati Uniti per la fornitura, a prezzi molto più alti, di Gnl (gas naturale liquefatto), di cui essi sono uno dei più grandi produttori. Se a ciò aggiungiamo l’approvazione da parte di Washington della legge denominata “Ira” (Inflation reduction act), con la quale le imprese europee vengono “istigate” ad abbandonare il Vecchio Continente per andare ad investire oltreoceano, favorite dalla concessione di enormi sussidi, il quadro dell’aggressione imperialista degli Stati Uniti all’Europa è completo[65].
In questo senso, dunque, è più che evidente che sul terreno ucraino si sta combattendo una guerra interimperialista globale composta da ben tre guerre: quella imperialista di aggressione scatenata dalla Russia con l’invasione del 24 febbraio 2022; quella, altrettanto imperialista, degli Usa, insieme all’Ue nel quadro della Nato, contro la Russia; infine, quella non meno imperialista che gli Stati Uniti, con il supporto della Gran Bretagna, stanno combattendo contro la Germania (e, in misura minore, la Francia) per diminuirne la capacità trainante sul resto dell’Europa, indebolendo così l’insieme del Vecchio Continente affinché esso resti nei limiti di una mera piattaforma per il dispiegamento degli interessi economici e politici a livello globale del gendarme imperialista statunitense.
Europa: la grande sconfitta
Solo per inciso, ci sarebbe da chiedersi come mai la Germania, inizialmente molto riluttante a vedersi imporre dagli Stati Uniti la cessazione del lucroso rapporto commerciale con la Russia sul quale aveva costruito tutta la propria potenza[66], abbia poi capitolato di fronte alla volontà di Washington di troncare quel canale privilegiato; e come mai Scholz abbia chinato il capo dinanzi al pur potente alleato d’oltreoceano senza levare una minima protesta e gettando nella spazzatura le relazioni russo-germaniche così amorevolmente curate da Angela Merkel (la rivista Politico.com ha ben descritto l’imbarazzato silenzio del premier tedesco durante la conferenza stampa in cui Biden preannunciava quella che sarebbe stata la fine del gasdotto Nord Stream[67]).
Rispondere a questo tema richiederebbe un articolo specifico. Brevemente, possiamo dire qui che, a nostro avviso, la ragione sta nella competizione e nelle frizioni fra la Germania e la Polonia. Quest’ultima ha progettato di far diventare il proprio esercito il più grande e potente d’Europa, tanto che gli esperti militari americani già oggi parlano dell’ascesa di una nuova superpotenza. Il bilancio 2023 ha previsto una spesa di 20 miliardi di euro per la Difesa (pari al 4% del Pil) e oggi le truppe polacche contano 143.500 effettivi, con l’obiettivo di arrivare a 300.000 nei prossimi dodici anni. La classifica PowerIndex, con cui viene misurata la potenza di fuoco dei vari Stati, vede la Polonia al 20° posto, cinque posti davanti alla Germania.
Gli Usa hanno guardato con molto favore – ovviamente in chiave anti-russa – alla crescita militare dei polacchi, psicologicamente e militarmente più motivati e inclini dei tedeschi allo scontro con la Russia a causa delle passate burrascose relazioni con l’ex Unione Sovietica. Ma intanto anche la Germania, come abbiamo visto nel testo, ha programmato un forte riarmo. Ed è vero che Washington ha caldeggiato e incoraggiato Berlino in questo senso, ma restava pur sempre l’incognita del legame a filo doppio fra quest’ultima e Mosca. Una potenza commerciale europea che si regge su forti basi militari ma con relazioni profonde con la Russia non poteva certo rassicurare gli Usa: il timore era che, se Berlino avesse avuto la forza – sentendosi di avere le spalle coperte dal sostegno economico derivatole dalle relazioni commerciali con Mosca – di liberarsi politicamente dell’influenza statunitense, avrebbe potuto mettere in discussione l’intera politica americana in Europa, contendendo a Washington il primato sul Vecchio Continente. E allora gli Usa hanno approfittato delle frizioni fra Germania e Polonia.
Quest’ultima, infatti, sta sempre più manifestando insofferenza per il consolidamento dell’influenza tedesca sulla regione e ha nuovamente tirato in ballo la questione delle riparazioni di guerra per le conseguenze dell’invasione e dell’occupazione nazista: la richiesta è di 1300 miliardi di euro, che Berlino ha prontamente respinto. Dal canto suo, quest’ultima è insofferente rispetto al protagonismo polacco nella costruzione della piattaforma infrastrutturale per la connettività e la sicurezza energetica denominata “Three Seas Initiative”, che coinvolge i Paesi che si affacciano sui tre mari (Nero, Baltico e Adriatico) ma che taglia fuori proprio la Germania.
Gli Stati Uniti puntano parecchio da un punto di vista militare sulla Polonia, che ritengono un alleato più affidabile della Germania, e anche più manipolabile in quanto accecata dal suo essere anti-russa, sebbene dal punto di vista politico non siano e non possano entrare in sintonia col suo governo iper-nazionalista e reazionario. Mettendo l’uno contro l’altro i due Paesi e attizzando i loro attriti, hanno ridotto alla ragione Berlino che, nell’ottica di non perdere la centralità politica quale plenipotenziario di Washington nell’Europa che verrà dopo la guerra, ha finito però per perdere quella economica. Era il prezzo da pagare in funzione di un calcolo politico, sull’altare del quale però l’élite politica tedesca si è subordinata alla strategia geopolitica statunitense.
E mentre la stampa embedded inneggia ad un’Europa “mai così unita come adesso”, alcune voci critiche iniziano a levarsi evidenziando che «l’Ue sta finendo i soldi» a causa del sostegno alla guerra in Ucraina, dello stop al gas russo, dell’aumento del costo degli interessi[68].
Il vero risultato è che ora gli Stati Uniti, dopo averla disarticolata, dominano più di prima l’Europa: unita, appunto, ma nella subordinazione. Sicché, possiamo concludere che, delle tre guerre che abbiamo individuato nel testo, quella contro l’Ue gli Usa l’hanno già vinta.
Le crisi del 2008 e del 2020, il declino dell’egemonia statunitense e il progetto per un nuovo dominio
Il panorama della guerra interimperialista che stiamo descrivendo – e che per il momento è centrata sul quadrante europeo, ma che sullo sfondo lascia prevedere un allargamento a quello indo-pacifico in un periodo che non è possibile pronosticare – deve essere inquadrato, come abbiamo accennato, nelle linee di tendenza sviluppatesi a partire dalla crisi capitalista del 2008 aggravata poi dalla crisi pandemica e da quella ambientale.
Fino allo scoppio della pandemia, la crisi del 2008–2009 era stata la più profonda e geograficamente più diffusa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 2009 il prodotto mondiale scese dello 0,5% e quello dei Paesi avanzati del 3,4%. Ma la crisi del 2020 è stata più profonda: il prodotto globale è sceso del 3,1% e quello dei Paesi avanzati del 4,5%. Mentre la prima fu crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione e il suo principale fattore scatenante furono gli Stati Uniti, la seconda ha colpito in pieno il processo produttivo, trascinando le economie di decine di Paesi in una profonda recessione. La diffusione del virus ha colpito direttamente la forza lavoro, essenziale – dato l’attuale grado di sviluppo tecnologico – per mettere in moto l’insieme delle forze produttive e per far circolare il prodotto sociale: e ciò ha determinato la caduta del prodotto, sicché si è scatenata una crisi sia dal lato dell’offerta che della domanda (quest’ultima a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia stessa e per la caduta dei redditi).
La natura della crisi del 2020 è stata globale, dal momento che, essendo globale la produzione, globale è stata la spirale discendente. Una dinamica alla quale nessun Paese è potuto sfuggire: uno qualsiasi degli anelli della catena internazionale del valore che sia stato colpito dagli effetti negativi della caduta li ha propagati al resto della catena, colpendola nel suo insieme.
La globalizzazione, su cui nei trent’anni dalla fine della Guerra fredda gli Stati Uniti hanno costruito la loro egemonia neoliberale, non costituisce più il loro principio cardine. Lo ha affermato lo scorso 27 aprile Jack Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale, in un discorso “storico”[69], considerando l’abbandono dei presupposti su cui si è retta la globalizzazione: l’integrazione economica, la deindustrializzazione degli Stati Uniti a vantaggio del capitale finanziario, l’eccessiva fede nelle virtù del libero scambio. Il bilancio di Sullivan rispetto a questa politica è negativo: la classe media statunitense si è impoverita, il Paese ha perso il vantaggio industriale sul resto del mondo, il suo primato tecnologico è stato eroso, l’ordine economico che era stato costruito su quei presupposti ha creato un pericoloso concorrente, sia dal punto di vista economico che militare: la Cina.
Il progetto pensato per inaugurare una nuova epoca punta ad un forte processo di reindustrializzazione attraverso il primato della sicurezza nazionale: la manifattura statunitense ha bisogno di quelle materie prime (minerali e terre rare) che oggi sono appannaggio della Cina e di quei componenti (chip e batterie) essenziali per i settori industriali su cui si basa la sicurezza nazionale[70]. Ma si tratta di un primato che gli Usa non possono raggiungere da soli, per cui tutti gli alleati dovranno essere coinvolti nella costruzione di filiere produttive e di approvvigionamento sicure – e cioè, a prova di Cina – nei settori innovativi. E tutto ciò punta, naturalmente, all’isolamento di Pechino da quei settori in modo da neutralizzarla impedendole non solo di diventare ancor più potente da un punto di vista militare, ma anche di creare relazioni internazionali che favoriscano le sue sfere di influenza.
È evidente, allora, che il conflitto armato in Ucraina rappresenta soltanto una tessera dell’ampio quadro in cui si profila uno scontro globale per una nuova ripartizione del mondo, cioè il sottoprodotto della dinamica delle forze e delle tendenze competitive dell’imperialismo confliggenti fra loro. Ancor meglio, è il punto di caduta dello scontro fra l’egemonia statunitense alla testa del processo di integrazione economica globale e l’emergere di potenze che lanciano una sfida all’ordine mondiale basato su quell’egemonia[71]. Le tendenze tipiche dell’epoca imperialista si sono fortemente acuite, per cui si sono ridotti i margini per uno sviluppo “evolutivo” del capitalismo.
La guerra: estrema risorsa per uscire dalla crisi
I marxisti in seno alla Terza Internazionale definivano la fase imperialista del capitalismo come un’epoca in cui la fase storica “progressiva” del capitale si era esaurita. La lotta tra i monopoli per i mercati e tra gli Stati per la supremazia mondiale veniva inscritta in un periodo di agonia cronica in cui l’esistenza in vita del capitalismo è incompatibile con l’estensione dei diritti e delle concessioni ai lavoratori, e in cui il capitalismo stesso tende a sviluppare forze distruttive per favorire la propria autoperpetuazione, minacciando perfino la vita civile. L’imperialismo può risolvere i suoi conflitti interni al sistema mondiale degli Stati e può preservare l’ordine mondiale che ha costruito dal pericolo di una rivoluzione sociale soltanto con i metodi della controrivoluzione economica e politica. Ma i fatti di cui stiamo discutendo dimostrano che questa diagnosi, valida in generale per l’intera epoca storica dell’imperialismo, è addirittura molto più che attuale nella tappa che stiamo vivendo.
Le crisi del capitale non sono un fenomeno “esterno” al capitale stesso, anzi ne rappresentano una caratteristica insita. Hanno un compito storico assegnato loro dal sistema capitalista quando per qualche ragione si interrompe il movimento espansivo di accumulazione. Si tratta di un compito che sembra contraddittorio con la logica stessa della valorizzazione del capitale, ma che invece paradossalmente è essenziale per la sua esistenza: quello di bruciare capitale assoluto eccedente che non ha oggettivamente le condizioni per rialimentare il circuito della valorizzazione. La distruzione di forze produttive e di ricchezza si impone perciò come l’unico mezzo per restaurare le condizioni per la ripresa del processo di accumulazione.
L’ora della crisi è l’ora di una disputa intercapitalista più intensa. Ogni crisi economica seria del capitalismo contemporaneo è una crisi internazionale che può essere compresa soltanto a partire da un approccio internazionale, benché le sue proporzioni possano essere diverse da Paese a Paese. Una grave crisi impone la necessità di una ristrutturazione del mercato mondiale e del sistema internazionale degli Stati. Le lotte tra i monopoli e le nazioni si intensificano e al termine della crisi alcuni di essi usciranno rafforzati e altri indeboliti. Il riposizionamento dei monopoli richiederà fallimenti e fusioni, e la lotta fra gli Stati provocherà tensioni fra le potenze, nonché la resistenza degli Stati periferici alle pressioni ricolonizzatrici degli Stati imperialisti[72].
Ma quando per la sua portata la crisi non riesce ad adempiere al suo compito storico di riavviare il ciclo di valorizzazione ed accumulazione attraverso una distruzione “pacifica” di forze produttive, allora non resta che un’ultima risorsa: la guerra come metodo distruttivo più efficace. Ecco perché l’economista Douglass North argomentava, con la citazione che abbiamo riportato all’inizio del testo, che non era stata una qualunque teoria economica a consentire al capitalismo di uscire dalla crisi del 1929, ma la Seconda Guerra mondiale.
L’imperialismo, insomma, porta con sé la guerra e la guerra è “un bene” per l’economia imperialista. Lo certifica un report caricato sul sito di Morgan Stanley, che costituisce un documento notevole per il cinismo e per l’involontario spirito macabro da cui è permeato. Il testo recita:
«Che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle partite correnti americane e per questa via eliminare i rischi più significativi per l’economia degli Stati Uniti e del dollaro? La risposta è: un atto di guerra. L’ultima volta che gli Usa hanno registrato un surplus delle partite correnti è stato nel 1991, quando il concorso dei Paesi esteri ai costi sostenuti dall’America per la Guerra del Golfo ha contribuito a generare un avanzo di 3,7 milioni di dollari».
Si tratta, come abbiamo precisato, di un documento cinico: gli analisti finanziari non si fermano di fronte a nulla e giungono, senza tanti giri di parole, ad augurarsi una guerra come via d’uscita per un’economia in difficoltà.
Ma il report citato, oltre ad essere cinico, è anche del tutto involontariamente e autolesionisticamente macabro, vista la data in cui è stato scritto: fu infatti caricato sul sito di Morgan Stanley martedì 11 settembre 2001, fra le 7:30 e le 8:00 del mattino, ora locale di New York. Esattamente un’ora dopo, quell’atto di guerra invocato dagli analisti finanziari si verificò davvero.
Purtroppo per gli estensori del testo, proprio negli uffici della Morgan Stanley, situati nelle Twin Towers.
Trasformare la guerra imperialista in guerra civile
E allora, mentre le organizzazioni che continuano indegnamente a richiamarsi al marxismo e all’internazionalismo seguitano a trastullarsi con i concetti – richiamati a sproposito, come abbiamo visto – di “autodeterminazione”, di “guerra di liberazione nazionale” e di “resistenza”, noi restiamo convinti, in ragione di quanto fin qui detto, che quella in atto in Ucraina sia una guerra interimperialista, combattuta da tre diversi e contrapposti versanti, per una nuova ripartizione del mondo. Di più: è addirittura una guerra imperialista fra nazioni che ne cela dietro di sé una controrivoluzionaria contro i lavoratori del pianeta per mettere in atto un maggiore sfruttamento della classe operaia internazionale.
In questo senso, non siamo in grado oggi di prevedere se e come, quando sarà finita la guerra in Ucraina, il mondo sarà nuovamente ripartito, né se continuerà ad essere “unipolare” o diventerà “multipolare”: certamente non sarà migliore per la classe lavoratrice internazionale se questa non diventerà protagonista sulla base di una propria azione indipendente. Ciò che invece possiamo dire, prendendo in prestito il titolo di un famoso libro del grande rivoluzionario russo Victor Serge, è che quella che ci circonda è la mezzanotte del XXI secolo. Il buio in cui il mondo intero sta sprofondando – un buio atomico, se qualcuno degli Stati implicati dovesse follemente premere il pulsante – è oggi squarciato dal bagliore dei missili e dei proiettili che si schiantano sui proletari in divisa dell’una e dell’altra parte.
Noi invece intendiamo rischiararlo ricorrendo ai principi dell’internazionalismo proletario, per l’affermazione dei quali decine e decine di rivoluzionari hanno dato la propria vita. Non possiamo, perciò, non rivendicare come bussola del nostro agire in questo specifico frangente storico il disfattismo rivoluzionario.
Sia chiaro: come affermava Trotsky, «la classe operaia non è indifferente alla sua nazione». Ma, aggiungeva, «è proprio perché la storia pone tra le sue mani il destino della nazione che la classe operaia rifiuta di affidare l’obiettivo della libertà e dell’indipendenza nazionali all’imperialismo, il quale “salva” la nazione soltanto per sottoporla il giorno dopo a nuovi pericoli mortali nell’interesse di un’insignificante minoranza di sfruttatori»[73]. Ed è evidente che coloro i quali insistono sul sostegno alla “resistenza” finiscono per affidare proprio al blocco imperialista Usa/Nato/Ue la “salvezza” dell’Ucraina.
Crediamo perciò che il criterio che deve orientare i rivoluzionari nell’attuale scenario di guerra non debba essere un riduttivo “Né con la Russia, né con la Nato”. È necessario invece imprimere a questo slogan per nulla efficace, generalmente declinato dai pacifisti, una forza diversa e potenzialmente dirompente. E dunque, per quanto riguarda l’Italia, “CONTRO la Russia e CONTRO la Nato. E perciò, CONTRO l’Italia!”.
Noi dobbiamo puntare, applicando il principio del disfattismo rivoluzionario, sulla sconfitta politica – e possibilmente militare – della “nostra borghesia”. Analogamente dovrebbero comportarsi i proletari statunitensi, francesi, tedeschi, spagnoli e di ogni altro Paese europeo implicato nella guerra in Ucraina (sia pure ancora senza aver apertamente messo – come si suol dire – gli stivali sul terreno[74]). Ma soprattutto il disfattismo rivoluzionario è compito che incombe principalmente sul proletariato del Paese invasore utilizzando i metodi della lotta di classe (blocco della produzione, soprattutto militare e di ogni altro bene o servizio che sia funzionale all’aggressione e alla sua prosecuzione; boicottaggio del trasporto di armi verso il teatro di guerra; agitazione in favore del Paese aggredito e contro il proprio): a ben vedere, è questa l’unica forma di concreto e valido aiuto che il proletariato russo può fornire ai lavoratori e alle masse popolari ucraine.
E neppure sfuggono a quest’obbligazione i proletari ucraini, i quali dovrebbero combinare metodi di guerra civile contro il proprio governo: indebolendolo sul versante politico ed economico e disarticolando il proprio esercito con il disarmo, sia delle bande paramilitari naziste in esso integrate che delle truppe regolari al soldo di Zelens’kyj e della borghesia che egli rappresenta, creando invece distaccamenti operai armati per l’autodifesa ed il rovesciamento dell’esecutivo insediato a Kiev. È questo, infatti, l’autentico senso della difesa nazionale: la difesa, cioè, della propria casa, della propria famiglia e della propria vita; non invece – perché è questo ciò che si sta dipanando sul terreno dello scontro militare – la difesa della politica della propria borghesia, quantunque sia in questo momento attaccata da un’altra borghesia meglio armata e più aggressiva.
Quando Lenin sosteneva che “la sconfitta è il male minore” non intendeva dire che la sconfitta del proprio Paese è un male minore rispetto alla sconfitta del Paese invasore, ma che una sconfitta militare risultante dallo sviluppo del movimento rivoluzionario è infinitamente più benefica per il proletariato e per tutto il popolo, rispetto a una vittoria militare che però perpetui la schiavitù dei lavoratori ad opera della propria borghesia.
Tuttavia, qualcuno ci accusa di dogmatismo e dottrinarismo per utilizzare una formula inefficace, in quanto priva di effetti pratici visto il pauroso arretramento della coscienza del movimento operaio, che dovrebbe essere il primo ad ergersi contro la guerra dei padroni. Ci si dice: “Non è che non sia giusto, però non è efficace”.
Si tratta di una critica che non coglie nel segno. Quando mai i comunisti hanno semplicemente operato in funzione e nei limiti dell’oggi? Nella società capitalista, i rivoluzionari sono un’estrema minoranza ed operano in condizioni sfavorevoli. Ma, pur avendo la capacità di agire nel momento presente, lo fanno difendendo oggi la politica per il futuro. Le posizioni internazionaliste che oggi sono patrimonio esclusivo di un nucleo ristretto di irriducibili internazionalisti potranno domani essere fatte proprie dall’insieme della classe operaia solo se in questo momento – proprio quando appaiono “inefficaci” – vengono rivendicate e propagandate. I rivoluzionari devono tener ferma nel presente la linea del futuro[75].
Del resto, quando nell’agosto del 1914 l’intero movimento socialista approdò sui lidi del socialsciovinismo appoggiando la guerra imperialista non fu forse un pugno di internazionalisti – tanto pochi che «trovarono posto in quattro carrozze»[76] – a riannodare il filo che si era spezzato sostenendo, da minoranza isolata, una coerente posizione contro la guerra sulla base del principio dell’indipendenza di classe e a gettare così le basi per la futura rivoluzione proletaria dell’ottobre 1917 e per la costruzione della Terza Internazionale?
Insomma, il vero significato della parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile sta proprio nelle posizioni coerentemente internazionaliste che abbiamo cercato di esprimere in questo testo. E rappresenta il nucleo del compito strategico dei rivoluzionari durante la guerra.
Note
[1] Abbiamo diffusamente criticato questa aberrante posizione in diversi articoli: in particolare qui, qui e qui.
[2] Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, ritiene invece proprio il 2014 l’anno di inizio della guerra. Ma avventatamente ha anche dichiarato che il Patto atlantico è già da allora parte del conflitto: «La guerra è iniziata nel 2014. E, da allora, la Nato ha implementato il più grande rafforzamento della nostra difesa collettiva dalla fine della guerra fredda» (“Editorial Board interview: Nato Secretary General Jens Stoltenberg”, The Washington Post, 9/5/2023).
[3] La stessa Nuland non si fece scrupolo di dichiarare pubblicamente che gli Stati Uniti avevano investito cinque miliardi di dollari per “democratizzare” l’Ucraina … E noi sappiamo bene ciò che significa nel lessico dell’imperialismo statunitense l’espressione “democratizzare”!
[4] «Gli Stati Uniti e i loro alleati europei condividono la maggior parte della responsabilità della crisi. La radice del problema è l’allargamento della Nato, l’elemento centrale di una strategia più ampia per portare l’Ucraina fuori dall’orbita della Russia e in Occidente» (J.J. Mearsheimer, “Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault”, Foreign Affairs, set./ott. 2014).
[5] La torbida interferenza degli Stati Uniti negli eventi che sfociarono nella “guerra del Donbas” trovò all’epoca una conferma nel viaggio in Ucraina sotto falso nome del capo della Cia, John Brennan, che diede il via a quella che venne definita “la guerra segreta” (“Why CIA Director Brennan Visited Kiev: In Ukraine The Covert War Has Begun”, Forbes, 16/4/2014).
[6] J.W. Carden, “Bush padre aveva ragione: giù le mani dall’Ucraina”, Limes, vol. 4, 2022, pp. 139 e ss.
[7] Op. ult. cit., p. 143.
[8] Ivi, pp. 144–145.
[9] Nel 2013, Ruslan Pukhov, all’epoca consulente del ministero della Difesa russo, scriveva in un articolo che potrebbe essere considerato l’epigrafe di quanto sta accadendo oggi nell’Est europeo: «La possibile entrata dell’Ucraina nella Nato equivale a un’esplosione nucleare tra Mosca e i Paesi occidentali. I tentativi di tirare Kiev dentro l’Alleanza Atlantica porteranno a una crisi di enormi proporzioni in Europa, in campo sia militare sia politico. E la stessa Ucraina assisterà a una profonda crisi interna visti i diversi orientamenti culturali della sua popolazione. L’Occidente sottovaluta l’importanza della questione ucraina per la Russia e non percepisce a dovere come Kiev possa rappresentare un grave fattore di destabilizzazione nelle sue relazioni con Mosca. Credere che la Russia sarà prima o poi costretta a mandar giù l’entrata dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica è pratica pericolosa che può portare a un’evoluzione catastrofica degli eventi. Del resto molti in Occidente non credevano, fino ad agosto 2008, che la Russia osasse condurre un intervento militare in Georgia» (R. Pukhov, “Dobbiamo riprenderci lo spazio sovietico”, Limes, vol. 11, 2013).
[10] È possibile scaricare dal sito della RAND l’intero rapporto in formato “pdf”.
[11] La chiarezza di questo rapporto è indiscutibile. E, a maggior riprova, va evidenziato quanto i diplomatici occidentali fossero da lungo tempo ben consapevoli della preoccupazione strategica della Russia a proposito dell’ingresso nella Nato dell’Ucraina: già nel 1997, il noto diplomatico statunitense George Kennan lo aveva definito «un errore fatale». Ma anche negli anni successivi diversi consiglieri diplomatici italiani, francesi, tedeschi e statunitensi avevano ripetutamente manifestato, in numerosi cablogrammi venuti alla luce grazie alla meritoria opera di WikiLeaks, le loro preoccupazioni per una reazione russa potenzialmente negativa a un piano d’azione per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. In altri documenti tale evenienza veniva descritta come una “linea rossa” per Mosca. Lo stesso William Burns, oggi direttore della Cia ma all’epoca ambasciatore degli Usa in Russia, in un cablogramma del 14 marzo 2007 spiegava: «L’allargamento della Nato e il dispiegamento della difesa missilistica degli Stati Uniti in Europa favoriscono la classica paura russa dell’accerchiamento». E il successivo 13 settembre aggiungeva che «l’ingresso dell’Ucraina … nella Nato rappresenta una situazione “inconcepibile” per la Russia», rimarcando in altri dispacci di ritenere l’emergere della relazione Russia-Cina come «il sottoprodotto di “cattive politiche” statunitensi».
[12] “US, Nato rule out halt to expansion, reject Russian demands”, AP News, 7/1/2022.
[13] “Ukraine war: Peace talks still on despite ‘genocide’, Zelensky says”, BBC News, 4/4/2022.
[14] “Possibility of talks between Zelenskyy and Putin came to a halt after Johnson’s visit – UP sources”, Ukrainska Pravda, 5/5/2022.
[15] “The World Putin Wants”, Foreign Affairs, 25/8/2022.
[16] “Former Israeli PM Bennett says U.S. ‘blocked’ his attempts at a Russia-Ukraine peace deal”, MR Online, 7/2/2023.
[17] “Pentagon chief says US wants to see Russia ‘weakened’”, The Hill, 25/4/2022.
[18] Gli Accordi di Minsk furono firmati nel settembre 2014 e nel febbraio 2015.
[19] Non pare infatti prossima una via d’uscita negoziale se da una parte la Nato insiste sulla strada dell’adesione dell’Ucraina alla Nato e dall’altra Mosca continua a ritenere che bloccarne il percorso resta «uno degli obiettivi dell’operazione speciale del Cremlino». In ogni caso, gli stessi documenti riservati, recentemente trapelati, escludono che per tutto il 2023 possa esservi un negoziato (“No Russia-Ukraine peace talks expected this year, U.S. leak shows”, The Washington Post, 12/4/2023).
[20] Mentre scriviamo, ad esempio, la città di Bahmut, appena conquistata dalle truppe di Mosca, è stata l’epicentro di quella che è stata considerata la battaglia più feroce dai tempi della Seconda Guerra mondiale, tanto da meritarsi l’appellativo di “tritacarne”, mentre in altre aree il conflitto è relativamente a più bassa intensità. Intanto, nei primi giorni di giugno sul fronte di Zaporižžja pare essersi avviata la tanto attesa controffensiva ucraina.
[21] Per “perdite” si intendono i soldati morti, feriti e prigionieri. Le rispettive propagande tacciono ovviamente sulle cifre reali: i numeri di ognuna sono sovrastimati o sottostimati a seconda della convenienza. Tuttavia, comparando quelli di diverse fonti e senza pretesa di essere precisi, le perdite ucraine dovrebbero ad oggi attestarsi, secondo le stime più prudenti, in un numero compreso fra 300.000 e 500.000, mentre quelle russe fra 30/40.000 e 50/60.000. Secondo l’esperto militare Laurent Schang, il primo esercito ucraino (in senso cronologico, e cioè al momento dell’inizio della guerra) era composto da quattro corpi d’armata, per un totale di 260.000 uomini, ed è stato annientato; il secondo annoverava 100.000 uomini in parte equipaggiati con equipaggiamento Nato ed è stato anch’esso distrutto. Il numero dei volontari stranieri – circa 20.000 nell’estate 2022 – sarebbe oggi ridotto alla dimensione di un battaglione (1500 unità). D’altronde, lo stesso David Arakhamia, deputato e capogruppo parlamentare del partito di Zelens’kyj “Servitore del popolo”, nel giugno 2022, quando i combattimenti non avevano raggiunto la ferocia di queste settimane, non si faceva scrupolo di dichiarare che nel Donbas venivano uccisi o feriti fino a 1000 soldati ucraini al giorno, con una media di 200–500 morti e molti altri feriti. Quanto ai mezzi da combattimento, l’Ucraina ha da tempo pressoché esaurito il materiale di origine ex sovietica con cui è entrata in guerra e al momento regge lo scontro solo grazie alla fornitura senza precedenti di armi occidentali. Ma, nel complesso, si può dire che la sua potenza di combattimento è notevolmente degradata per quel che riguarda in particolare le unità meccanizzate e le forze di artiglieria. La Russia vanta inoltre un’incomparabile superiorità aerea e nella guerra elettronica, mentre è in inferiorità quanto al numero delle truppe in campo.
[22] “US Defense Chief: Ukraine’s Bakhmut Is Symbolic Rather Than Strategic”, VOA News, 6/3/2023.
[23] Il 20 maggio scorso, il capo della compagnia militare privata russa “Wagner”, Prigožin, ha annunciato la presa della città dopo 224 giorni di feroci combattimenti nel corso dei quali – secondo le stime più prudenti – gli ucraini avrebbero perso almeno 50.000 uomini, di cui circa 25.000 morti in battaglia (le stime della Wagner parlano, invece, di 72.000 soldati nemici uccisi e oltre 500 prigionieri). Il valore delle perdite materiali e tecniche viene stimato in circa otto miliardi di dollari, mentre il valore delle munizioni impiegate e del carburante utilizzato per i mezzi ammonterebbe a due miliardi di dollari. Inoltre, nella battaglia di Bahmut (che ora ha ripreso l’antico nome russo di Artëmovsk) l’esercito ucraino avrebbe perso diversi velivoli, oltre 300 carri armati e più di 250 UAV (Unmanned Aerial Vehicle).
[24] Il 20 gennaio 2023, il Servizio di Intelligence federale tedesco (BND) avvertiva, molto più realisticamente, che la presa di Bahmut da parte dei russi «avrebbe gravi conseguenze, poiché consentirebbe alla Russia di avanzare ulteriormente nell’entroterra». All’inizio dei combattimenti gli esperti militari valutavano che la città si trovasse in una posizione molto favorevole per l’artiglieria e l’aviazione russe considerando il dominio aereo su Bahmut/Artëmovsk e le linee di rifornimento molto corte per tutte le necessità logistiche. Al contrario, le truppe ucraine si trovavano in una situazione del tutto opposta, incontrando tutti gli svantaggi che si possono avere in una guerra: era il luogo perfetto, insomma, per seppellire l’esercito di Kiev.
[25] Il 1° settembre 2021 Usa e Ucraina sottoscrivevano il “Joint Statement on the U.S.-Ukraine Strategic Partnership”, col quale venivano annunciati la fornitura a Kiev di armi letali e un programma di addestramento di truppe ed esercitazioni volti a favorire l’ingresso nella Nato dell’Ucraina, alla quale veniva attribuito lo “status di partner”. Il successivo 10 novembre, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba e il segretario di Stato statunitense Antony Blinken firmavano a Washington il “U.S.-Ukraine Charter on Strategic Partnership” che rappresentava il completamento di quanto già stabilito: in pratica, una dichiarazione di guerra alla Russia.
[26] Già poche settimane dopo l’inizio dell’invasione, la stampa occidentale ha battuto sul tamburo della propaganda allo scopo di convincere l’opinione pubblica della necessità di supportare l’Ucraina fornendole grandi quantitativi di armi necessarie a sconfiggere l’aggressore: che, secondo la narrazione ufficiale, era disorganizzato, col morale a terra e ormai privo di armi moderne, già consumate nei primi attacchi. Molti analisti non si facevano scrupolo di sostenere che Kiev era sulla strada della vittoria, mentre una cocente sconfitta di Putin era dietro l’angolo (“Why Ukraine Will Win”, Journal of Democracy, settembre 2022; “Russian Efforts to Raise Numbers of Troops ‘Unlikely to Succeed,’ U.S. Official Says”, U.S. Department of Defence, 29/8/2022; “Ukrainian forces could wipe out all of ‘exhausted’ Russian troops’ territorial gains, retired US general says”, Insider, 14/7/2022; “Russia faces ‘critical shortage’ of artillery shells, says UK defence chief”, The Guardian, 14/12/2022; “Russia Is Running Out of Fresh Ammo and May Need to Use 40-Year-Old Shells”, Military.com, 12/12/2022). Il capo dell’intelligence ucraina, Budanov, spregiudicatamente prevedeva che Mosca sarebbe stata sconfitta entro la fine del 2022 (“Ukraine war: Military intelligence chief ‘optimistic’ of Russian defeat saying war «will be over by end of year»”, Sky News, 14/5/2022).
[27] Il fatto è che «gli Stati Uniti hanno un problema industriale. Il settore bellico non è attrezzato per un conflitto prolungato contro una grande potenza. […] La base industriale statunitense è costruita per raggiungere la massima efficienza con i ritmi di produzione da tempi di pace. Pace non vuol dire assenza di guerra bensì guerre con avversari nettamente inferiori. I cosiddetti conflitti a bassa intensità sono stati la norma per trent’anni. […] Le Forze armate americane sono state costruite attorno a questo modello. Anche i sistemi di consegna di armamenti agli alleati […] sono pensati più come strumenti di esercizio del potere imperiale che come veloci meccanismi da attivare in caso di guerra» (F. Petroni‑G. Mariotto, “L’impero senza proiettili”, Limes online, 18/5/2023).
[28] Il Cremlino ha dato inizio all’invasione potendo contare su 15 milioni di munizioni per l’artiglieria stoccate nei propri magazzini e su una capacità di produzione di 1.500.000 unità all’anno. Attualmente, la produzione statunitense di proiettili di artiglieria da 155 mm. non arriva invece a 175.000 unità all’anno. Benché le industrie americane ed europee stiano incrementando i programmi di produzione, i tempi di consegna dei proiettili di grosso calibro sono lunghissimi, arrivando anche a 28 mesi. Il Pentagono ha varato un piano per sestuplicare la produzione di proiettili di artiglieria, ma non prima di due anni.
[29] Ne abbiamo approfonditamente parlato in quest’articolo.
[30] Non possiamo fare a meno di osservare che le sanzioni adottate dall’Occidente contro la Russia hanno però mancato il loro obiettivo. Mosca era assoggettata a sanzioni (a seguito dell’annessione della Crimea) sin dal 2014, eppure la sua economia non ne ha visibilmente sofferto, tanto che già allora v’era chi sosteneva che «le sanzioni mordono, ma il colpo di grazia alla Russia è un’utopia. Con Mosca bisogna venire a patti, se non vogliamo restare senza gas e con il conto del salvataggio dell’Ucraina da pagare» (G.P. Caselli, “Affossare l’economia russa? Ci perdiamo tutti”, Limes, vol. 12, 2014, pp. 101 e ss.). Ma anche oggi, lo stesso Fondo Monetario Internazionale esprime scetticismo sull’efficacia delle sanzioni come strumento di pressione, ritenendole anzi responsabili dell’aggravarsi della crisi economica globale (“The Sanctions Weapon”, Imf.org, 06.2022). E mentre misure come il “price cap”, che intendevano privare la Russia del grosso delle sue entrate con l’obiettivo di “definanziare la guerra” di Putin, hanno avuto un impatto più mediatico che reale (V. Torre, “«Price cap»: sorpresa!”, Assaltoalcielo.it, 26/2/2023), gli economisti più attenti non hanno mancato di osservare «il contrasto tra gli effetti delle sanzioni sulla Russia e quelli sull’Europa. Per quanto riguarda la Russia, i prezzi delle risorse sono rimasti stabili, il mercato interno delle imprese russe è cresciuto, i beni fisici sono stati trasferiti ai russi a tassi preferenziali e le attività finanziarie che altrimenti sarebbero andate all’estero sono rimaste nel Paese. Per quanto riguarda l’Europa, i prezzi delle risorse importate hanno subito un’impennata, i mercati delle esportazioni sono diminuiti, le attività fisiche hanno dovuto essere vendute a basso costo e le attività finanziarie sono fuggite negli Stati Uniti. Ci si può quindi attendere un miglioramento delle condizioni di mercato in Russia e un peggioramento in Europa, e questo è ciò che osserviamo attualmente. […] Per ora le solenni dichiarazioni sull’efficacia delle sanzioni non sembrano giustificate» (J.K. Galbraith, “The Effect of Sanctions on Russia: A Skeptical View”, Inet Economics, 11/4/2023. Una tesi – questa – condivisa anche dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), la cui economista capo, Beata Javorcik, ha candidamente dichiarato: «Credo che l’aspettativa che le sanzioni occidentali avrebbero portato a una crisi finanziaria o valutaria in Russia fosse troppo ottimistica. L’economia russa è già stata sottoposta a una politica di sanzioni dal 2014. Ha dato priorità alla stabilità macroeconomica rispetto alla crescita ed è stata molto disciplinata in materia di bilancio. Ha anche combattuto l’inflazione in modo molto aggressivo. Inoltre, la Russia dispone di un team competente di tecnocrati che sono stati in grado di stabilizzare l’economia dopo le sanzioni. Questo non significa che le sanzioni non funzionino. È solo che l’aspettativa di un crollo dell’economia russa non era realistica» (“Chefökonomin: Die Erwartungen an die Russland-Sanktionen waren zu optimistisch”, Berliner Zeitung, 22/3/2023). Ancor più esplicita è la rivista Politico (“Russia is getting better at evading Western sanctions on electronics, US official says”, Politico.com, 8/6/2023).
[31] Il lavoro di “macinazione” da parte delle truppe di Mosca è reso evidente da questi numeri: mentre gli ucraini sparano circa 5000 proiettili di artiglieria al giorno, i russi ne sparano 30–40.000 mila al giorno, con picchi che superano i 50.000. A parte gli altissimi livelli di distruzione, ciò obbliga le potenze occidentali che supportano Kiev a “svenarsi”: secondo il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, «l’attuale tasso di utilizzazione di munizioni da parte dell’Ucraina è molte volte superiore al nostro livello di produzione. Questo mette a dura prova le nostre industrie della difesa». Fino allo scorso mese di febbraio, soltanto gli Usa hanno fornito all’Ucraina armamenti e munizioni per un valore di oltre 29 miliardi di dollari.
[32] E in particolare la Germania, come mostrano i dati esposti in quest’articolo.
[33] Solo a mo’ d’esempio, citiamo, tra le altre, l’ex Segretariato Unificato della Quarta Internazionale (oggi, Quarta Internazionale); la Lit-Ci in America Latina; il Fit‑U in Argentina (con alcuni dei partiti che lo compongono a totale rimorchio delle posizioni dell’imperialismo statunitense e altri che esprimono posizioni ambigue); l’Npa francese; e, in Italia, i piccoli gruppi del Pcl e del Pdac, con Sinistra Anticapitalista a rimorchio che, come sempre, si barcamena e oscilla in un oceano di ambiguità.
[34] L. Trotsky, “On the National Question”, 1° maggio 1923, In Defense of the Russian Revolution, p. 179.
[35] Trotsky (ibidem) così parlava a proposito di coloro che mantengono un simile atteggiamento: «Il terreno dei “principi” astratti è sempre … l’ultimo rifugio di coloro che hanno perso la bussola».
[36] V.I. Lenin, “Il significato internazionale della guerra contro la Polonia”, aptresso.org, 26/3/2014.
[37] V.I. Lenin, “Per la storia di una pace disgraziata”, Opere, vol. 26, Edizioni Lotta comunista, p. 428.
[38] È chiaro che con questa riflessione non intendiamo minimamente giustificare l’azione bellica della Russia: ci limitiamo a fare una fredda analisi di quanto sta accadendo sul campo dal 24 febbraio 2022 e a confrontare i risultati in termini di perdite civili e distruzione con quanto accaduto invece, ad esempio, nelle guerre in Iraq e in Afghanistan.
[39] V.I. Lenin, “Il fallimento della II Internazionale”, maggio-giugno 1915, in Opere, cit., vol. 21, p. 210).
[40] Ibidem.
[41] V.I. Lenin, “Conferenza delle sezioni estere del Posdr”, in Opere, cit., vol. 21, p. 142.
[42] G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, Editori Laterza, vol. III, 1, pp. 120–121.
[43] L. Trotsky, “La guerre et la IVe Internationale”, 10 giugno 1934, in Œuvres, vol. 4, Institut Léon Trotsky, pp. 58–59 e 65.
[44] L. Trotsky, “Une leçon toute fraîche (Sur le caractère de la guerre prochaine)”, 10 ottobre 1938, in Œuvres, cit., vol. 19, pp. 53 e segg. Estratti di questo testo si trovano, in italiano, nel volumetto L. Trotsky, Guerra e rivoluzione, Arnoldo Mondadori Editore, 1973, pp. 24 e segg., con il titolo “Dopo la ‘pace’ imperialista di Monaco”.
[45] V.I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, La Città del Sole, 2001, p. 91. Chiariamo che, benché in questo passaggio faccia riferimento solo alla spartizione delle “terre” (e, in altre parti del testo, delle “colonie”), altrove Lenin richiama la spartizione delle “sfere di influenza”.
[46] Il New York Times dell’8 marzo 1992 pubblicò estratti di un documento (Defense Policy Guidance) redatto dall’allora sottosegretario alla Difesa Usa, Paul Wolfowitz, in cui veniva delineata la nuova politica statunitense di supremazia permanente degli Stati Uniti sull’intero globo. Nel testo si auspicava un’intesa pacifica con la Russia quale Stato “successore” dell’ex Urss sulla base dell’economia di mercato e si precisava che in quel momento, non profilandosi una minaccia globale né un potere ostile, «abbiamo l’opportunità di affrontare le minacce a livelli e costi inferiori». Tuttavia, «il nostro primo obiettivo è impedire il riemergere di un nuovo rivale, sul territorio dell’ex Unione Sovietica …, che rappresenti una minaccia dell’ordine di quella rappresentata in passato dall’Urss […] e richiede che ci sforziamo di impedire a qualsiasi potenza ostile di dominare una regione le cui risorse, sotto un controllo consolidato, sarebbero sufficienti a creare una potenza globale».
[47] Sul concetto di “accumulazione originaria”, K. Marx, Il capitale, Libro primo, cap. 24, Editori Riuniti, 1994, passim.
[48] Sia pure in maniera non lineare, avendo Putin in un certo momento tentato l’integrazione nell’Occidente come polo autonomo, addirittura attraverso l’ingresso nella Nato.
[49] Non ci impelagheremo qui nella questione sterilmente dibattuta a sinistra, se cioè la Russia sia o meno un Paese imperialista. Per come in genere viene affrontato (misurando dogmaticamente col bilancino le sue quote di Pil o di esportazione di capitale), il tema – dal nostro punto di vista pari a quello sul “sesso degli angeli” – esula dall’economia di questo testo. A beneficio di coloro che agitano il famoso lavoro di Lenin sull’imperialismo come i maoisti facevano con il “Libretto rosso” di Mao, ci rifacciamo allo stesso rivoluzionario russo, che non si faceva scrupolo di definire imperialista la Russia zarista, benché questa non esportasse all’epoca neanche un copeco (V.I. Lenin, “Risultati della discussione sull’autodecisione”, in Opere, cit., vol. 22, p. 356).
[50] Come esemplificato nell’articolo già citato nella precedente nota 31.
[51] Un ordine che, tuttavia, non è andato in crisi con l’inizio della guerra in Ucraina. La crisi dell’ordine mondiale è iniziata molto tempo prima e poteva essere percepita dalla decadenza dei Paesi leader e delle loro istituzioni.
[52] Pur non essendo – quella scatenata con l’invasione dell’Ucraina – una guerra di annessione e di conquista, sta di fatto che, con l’acquisizione delle regioni della Crimea e, soprattutto, del Donbas, la Russia si ritrova ora ad aver preso il controllo di almeno 12,4 trilioni di dollari di minerali. Secondo alcuni studi, con l’occupazione di quelle regioni Kiev avrebbe perso a beneficio di Mosca il 63% dei depositi di carbone, l’11% dei depositi di petrolio, il 20% dei depositi di gas naturale, il 42% dei depositi di metalli e il 33% dei depositi di elementi delle terre rare e altri minerali critici, incluso il litio, oltre a milioni di ettari di fertili terreni agricoli.
[53] I Brics si sono dotati di una banca – la New Development Bank, con sede a Shangai, fondata come alternativa alle istituzioni di Bretton Woods a guida occidentale – che, come si legge dal suo sito, «è una banca multilaterale di sviluppo volta a mobilitare risorse per infrastrutture e progetti di sviluppo sostenibile nei Brics e in altri Emdc» (Paesi economicamente più sviluppati). Recentemente, l’Arabia Saudita ha chiesto di entrarne a far parte come nono membro (“Saudi Arabia in talks to join China-based ‘Brics bank’”, Financial Times, 28/5/2023): ciò che rafforzerebbe la presenza della New Development Bank in Medio Oriente, nonché «i legami di Riyadh con i Paesi Brics in un momento in cui l’Arabia Saudita, il più grande esportatore mondiale di greggio, sta anche allacciando relazioni più strette con la Cina». Intanto, il numero dei Paesi che hanno chiesto di aderire ai Brics sta aumentando: ce ne sono quasi venti.
[54] “Great power conflict puts the dollar’s exorbitant privilege under threat”, Financial Times, 20/1/2023. La segretaria al Tesoro statunitense, Janet Yellen, riconosce esplicitamente la minaccia in atto all’egemonia del dollaro, paradossalmente favorita proprio dalle sanzioni applicate in un sistema economico globale fondato sul dollaro (“Sanctions against Russia could hurt the US dollar as countries like Iran and China seek alternative currencies for trade: Treasury Secretary Janet Yellen”, Insider, 17/4/2023). Il 2022 ha registrato per il dollaro Usa un calo dell’8% della sua quota di riserve globali. Pur affermando che al momento non esiste nessuna valuta che possa sostituirlo, in una recente audizione di fronte al Congresso la stessa Jellen ha tuttavia allertato sul fatto che la tendenza alla diminuzione della quota del dollaro nelle riserve mondiali continuerà, così come continuerà la “diversificazione” dei pagamenti in valute alternative da parte di altri Paesi per le transazioni transfrontaliere. Intanto, gli uffici studi della più grande banca statunitense, JP Morgan, rimarcano l’emergere di evidenti segnali di de-dollarizzazione nell’economia globale “JPMorgan flags some signs of emerging de-dollarisation”, Reuters, 5/6/2023).
[55] V. precedente nota 17.
[56] “Decolonize Russia”, The Atlantic, 27/5/2022; nonché, “Disunione sovietica. Lo smembramento della Russia non sembra più così improbabile”, Linkiesta, 21/9/2022. Si veda anche “Coriandoli di Russia”, Limes, vol. 9, 2022, p. 16. Questo invece è il manifesto del movimento “decolonizzatore”: “Declaration about the decolonization of Russia”, VoltaireNet, 24/7/2022. Per una voce di segno opposto proveniente dal ventre degli Usa, “Why pushing for the break up of Russia is absolute folly”, Responsible Statecraft, 24/3/2023.
[57] La Russia è il secondo più grande produttore di petrolio al mondo (11,3 milioni di barili al giorno) e il secondo detentore di riserve di carbone; è il secondo produttore di gas, ma il primo esportatore; possiede enormi giacimenti di ferro, oro, argento e diamanti che la collocano ai primi posti nel mondo; è uno dei maggiori estrattori di nichel e uno dei principali produttori dei metalli del gruppo del platino (platino, palladio, rodio, osmio, iridio e rutenio); dispone di importanti riserve di terre rare e minerali critici essenziali per i prodotti tecnologicamente avanzati, pur non essendo ai primi posti nella catena di trasformazione o produzione.
[58] “Pour Emmanuel Macron, l’Otan est en état de «mort cérébrale»”, Le Figaro, 7/11/2019.
[59] “Defense Policy Guidance”, cit., (v. nota 46).
[60] Qui la dichiarazione ufficiale.
[61] “Olaf Scholz Pledges $107bn For German Army, Says It Will Be ‘largest’ Among Nato Nations”, RepublicWorld, 31/5/2022.
[62] G. Mariotto, “L’America teme che Berlino faccia da sé”, Limes, vol. 3, 2022, p. 195.
[63] S Hersh, “Come gli Stati Uniti hanno distrutto il gasdotto Nord Stream”, Assalto al Cielo, 4/3/2023. Si veda anche, dello stesso Autore, “La copertura”, Assalto al Cielo, 28/3/2023.
[64] Esplicitamente, la stampa economico‑finanziaria specializzata riconosce che, proprio per effetto del declino in atto dell’economia tedesca, «il motore economico dell’Europa si sta guastando» (“Europe’s Economic Engine Is Breaking Down”, Bloomberg, 25/5/2023).
[65] Per un approfondimento, “L’Unione europea di fronte all’Inflation Reduction Act americano”, Osservatorio Cpi (Università cattolica), 14/3/2023. Si veda anche, “L’Ira (Inflation reduction act) è la legge di Biden che concede sussidi green record, mentre l’Ue dorme e litiga sul price cap”, ItaliaOggi, 25/11/2022.
[66] “U.S., Allies Wonder if They Can Count on Germany in Russia-Ukraine Crisis”, The Wall Street Journal, 1/2/2022.
[67] “Biden vows to shut down Nord Stream 2 if Russia invades, as U.S. and Germany pledge unity”, Politico, 7/2/2022.
[68] “Der Eu geht das Geld aus”, Handelsblatt, 6/5/2023.
[69] “Remarks by National Security Advisor Jake Sullivan on Renewing American Economic Leadership at the Brookings Institution”, The White House, 27/4/2023.
[70] «Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie» (V.I. Lenin, L’imperialismo, cit., p. 98).
[71] Le voci più riflessive del capitalismo scrivono senza peli sulla lingua che il G7 deve accettare l’idea di non poter più governare il mondo e che l’egemonia americana e il predominio economico delle sette grandi economie «sono ormai storia» (M. Wolf, “The G7 must accept that it cannot run the world”, Financial Times, 23/5/2023). Per uno studio sulla caduta del saggio di profitto negli Stati Uniti, si veda M. Roberts, “The US rate of profit in 2021”, The Next Recession, 18/12/2022.
[72] Cfr. V. Arcary, “Notas sobre crises econômicas e revolucão em perspectiva histórica”, in Capitalismo em crise, Editora Sundermann, 2009, pp. 141 e ss.
[73] L. Trotsky, “La guerre et la IVe Internationale, cit., p. 55.
[74] Ma l’ex segretario generale della Nato Anders Rasmussen ci informa che la Polonia, che potrebbe essere seguita a ruota da altri Paesi, potrebbe inviare a combattere in Ucraina militari sotto mentite spoglie di “volontari” (“Nato members may send troops to Ukraine, warns former alliance chief”, The Guardian, 7/6/2023).
[75] Ci vengono in mente, al riguardo, i versi del grande poeta russo Majakovskij: «Per l’allegria il pianeta nostro è poco attrezzato. Bisogna strappare la gioia ai giorni futuri».
[76] L. Trotsky, La mia vita, Mondadori, 1961, p. 214.